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L’isola delle galline

Siamo stati a Coltano per raccontare una piccola trovata geniale, in un posto dove, in centovent’anni, se ne sono viste di tutti i colori

di Claudio Caprara

Questa è una storia di normalità, di pragmatismo, in un luogo attraversato da un passato di talento, sfruttamento, crudeltà. Per tornare ad uno stato di abbandono.

Il vero protagonista di questo racconto è Coltano, una frazione del Comune di Pisa.

Un pezzo d’Italia che è stato teatro negli ultimi 120 anni di fatti che hanno segnato la nostra storia. Una storia spesso contesa e strumentalizzata, ma che vale la pena mettere in ordine perché è giusto che i fatti capitati in questa terra restino nella memoria collettiva.

Parleremo anche dell’azienda che gestisce il ristorante Lago Le Tamerici, della sua fattoria didattica e delle sue galline. È una piccola storia. Simili ce ne saranno a migliaia, in Italia.

Se il genio – come ci hanno spiegato Pietro Germi e Mario Monicelli in “Amici miei” – «È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione», da queste parti sono stati un po’ geniali.

L’isola delle galline (Tommaso Merighi/Il Post)

La riserva di caccia del Re

Il comprensorio di Coltano è un sistema di poderi che oggi fanno parte del Parco Regionale Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli.

Al centro della tenuta c’è una villa medicea del ‘500, che alla fine dell’800 faceva parte dei possedimenti reali e divenne la sede dell’amministrazione dei beni del demanio.

Fu un luogo molto apprezzato in particolare da Vittorio Emanuele II, che ci passò diverso tempo.

Renzo Castelli, il decano dei giornalisti pisani, conosce bene queste terre: «Coltano fu separata da Tombolo quando i Savoia decisero, dopo la Grande guerra, di distribuire la proprietà di 26 terreni a dei coloni, quasi tutti provenienti dal Veneto, che avevano lavorato queste terre. Anche per ricordare quell’evento i poderi di questa zona hanno nomi di località della Prima guerra mondiale: Sabotino, Redipuglia, Piave, Grappa, Isonzo, Pasubio, Montello… Dalla fine degli anni ’40, nelle zone boschive, vennero girati diversi film di Tarzan. Dopo il grande successo delle pellicole americane con Johnny Weissmuller protagonista anche in Italia, con risultati molto diversi, si produssero film. Alle troupe portava da mangiare Spartaco, del ristorante Centrale di Pisa».

Già dall’inizio degli anni ’30, a Tirrenia, funzionava un complesso di stabilimenti cinematografici. Furono denominati Pisorno, dalla fusione dei nomi di Pisa e Livorno visto che la sua sede era alla stessa distanza dalle due città. L’idea del fondatore, Giovacchino Forzano, era di produrre i film di propaganda del regime fascista. Pisorno fu la prima città del cinema che nacque in Italia. La fondazione di Cinecittà fu successiva, del 1937.

In quella zona del litorale pisano e livornese sorsero diverse colonie per le cure elioterapiche (come raccontiamo nel podcast).

Guglielmo Marconi

A 21 anni aveva già inventato la radio, a 35 avrebbe vinto il premio Nobel per la Fisica. All’inizio del ‘900 Guglielmo Marconi era già una star internazionale e il governo italiano fece quello che lui chiedeva per convincerlo a fare i suoi esperimenti in Italia.

Marconi scelse Coltano per realizzare il centro radio più importante d’Italia, perché il terreno paludoso era indicato per ridurre la dispersione del segnale radiofonico e la posizione geografica era favorevole alle trasmissioni verso le colonie d’Africa e le Americhe dove l’emigrazione italiana era numerosa e le comunità ben strutturate.

E anche perché quel terreno era nei possedimenti reali.

I lavori cominciarono nel 1903.

Per avere un’idea dei ritmi di lavoro di Marconi in quel periodo basta leggere un brano del libro di Riccardo Chiaberge, “Wireless: Scienza, amori e avventure di Guglielmo Marconi”: «Nel maggio 1903 Marconi è a Roma per ricevere la cittadinanza onoraria. Ha da poco aggiunto al suo medagliere un nuovo record planetario: il primo scambio diretto di messaggi wireless tra Stati Uniti e Gran Bretagna, con due firme illustri, il presidente Theodore Roosevelt e re Edoardo VII. Mesi di stress e di superlavoro hanno fiaccato la sua fibra, tanto che una sera in albergo si sente male e chiamano il medico del papa, dottor Mazzoni: gli trova novantacinque pulsazioni al minuto, una frequenza a rischio, dovrebbe darsi una calmata. Ma che importa, gli impianti di Cape Cod e di Poldhu hanno fatto il loro dovere, in Borsa le azioni della sua Company riprendono quota. E anche il governo italiano si decide finalmente a mettere in cantiere una stazione radiotelegrafica di grande potenza, a Coltano, vicino a Pisa».

I ruderi della stazione radio voluta da Marconi (Tommaso Merighi/Il Post)

Ancor prima dell’inaugurazione ci furono delle trasmissioni verso il Canada e verso Mogadiscio (in Somalia).

Il 19 novembre del 1911 la stazione radiotelegrafica intercontinentale a onde lunghe fu inaugurata. Si trattava di un impianto d’avanguardia, all’altezza di quelli inglesi o americani.

Tutto funzionò bene, compreso il messaggio di saluto indirizzato via etere dal Canada a re Vittorio Emanuele III.

Le cose a Marconi andarono peggio il giorno dopo, nel viaggio che lo avrebbe dovuto portare a Genova, quando guidando ad una velocità eccessiva la sua Fiat 50 cavalli andò a sbattere contro un’altra auto e per le conseguenze dell’incidente perse un occhio.

Il 12 ottobre del 1931, dal centro radio di Coltano passò il segnale con cui Marconi accese le luci della statua del Cristo Redentore a Rio de Janeiro, in occasione delle celebrazioni per i 439 anni della scoperta dell’America.

Intorno alla costruzione furono realizzate 16 torri di ferro, le cui antenne raggiunsero l’altezza di 254 metri.

La stazione ricevente di Nodica (un paese nel Comune di Vecchiano, in provincia di Pisa, distante 24 chilometri) era collegata alla stazione emittente di Coltano tramite un cavo sotterraneo. Nodica poi, si collegava con tutti gli impianti telegrafici dei piroscafi che viaggiavano verso New York, Buenos Aires, Valparaíso, Vancouver, Shanghai.

Oggi la stazione è in rovina.

Campo di lavoro per ebrei

Guido Cava ha quasi 92 anni, è stato a lungo presidente della comunità ebraica di Pisa, e racconta che: «a Coltano ci sono stati anche i campi di lavoro forzato per gli ebrei pisani e livornesi».

Cava è uno dei pochi che può ricordare questa storia.

«Sono nato a Spezia, ma mio padre fu presto trasferito a lavorare a Genova. Nel capoluogo ligure ho fatto le prime due classi elementari».

Qualche giorno dopo la promulgazione delle leggi razziali, nel 1938, il padre di Cava, Augusto, convocò Guido e suo fratello maggiore Enrico per dire loro che dal giorno dopo non potevano andare più a scuola.

«Ma perché? Chiedemmo al babbo e la risposta fu: “Perché è così”, non ci spiegò altro».

Nei primi tempi Augusto Cava mantenne l’incarico di ingegnere per le Ferrovie. A Pisa i Cava avevano dei parenti e per potere gestire la situazione con il resto della famiglia vi si trasferirono. Peraltro la madre doveva partorire da lì a poco. Cava ottenne il trasferimento per lavorare al porto di Livorno.

«In fretta e furia gli ebrei di Pisa organizzarono una scuola per un gruppo di bambini, accanto alla sede della comunità: eravamo tutti in un’unica stanza dove si facevano lezioni dalla prima elementare alle superiori. Anche la nostra maestra era stata allontanata dal suo lavoro».

Quella pisana è una comunità ebraica antica e il rapporto con la città è sempre stato positivo.

Anche dopo la promulgazione delle leggi razziali, che peraltro furono firmate dal re nella tenuta di San Rossore, a quattro chilometri dal centro della città.

«Non si può dire che Pisa sia stata una città antisemita al 100 per cento. Nel centro c’erano molti negozi gestiti da ebrei e siamo riusciti a sopravvivere alla meno peggio – racconta Cava – sì, capitava che i fascisti spaccassero le vetrine, ma avevano ordini per farlo».

Nel 1942 il prefetto, che aveva in mano le liste con tutti gli ebrei di Pisa, emise un provvedimento secondo il quale tutti gli ebrei dai diciotto ai quarant’anni dovevano andare a lavorare la terra a Coltano.

«Mi ricordo che alle 8 del mattino arrivava un camion in Piazza della Berlina, caricava mio padre e tutti gli altri membri della comunità ebraica e li portava a Coltano. Alle cinque della sera tornavano. Da noi gli ebrei erano quasi tutti commercianti, non erano adatti a lavorare la terra. Meno male che c’era un fattore che li dirigeva con cui stabilirono un rapporto positivo. Ovviamente non venivano pagati, ma ogni tanto, mosso da compassione, distribuiva loro un po’ di patate e qualche prodotto dell’orto».

Del campo di lavoro di Coltano non ci sono documenti, ma certamente per mesi gli ebrei di Pisa furono obbligati a lavorare.

Questo sistema repressivo e di sfruttamento non è entrato a far parte della memoria locale, né tantomeno di quella nazionale. I campi di lavoro e di concentramento italiani sono un buco della memoria.

Nel ’43, a seguito del disastroso bombardamento del 31 agosto, la famiglia Cava, come gran parte della popolazione, lasciò la città. Arrivò a Calci, un comune a meno di dieci chilometri da Pisa. Il capoluogo sarebbe stato liberato il 2 settembre del 1944. In quei dodici mesi la città fu oggetto di almeno altri 50 bombardamenti che la distrussero quasi completamente.

Centro di detenzione dei repubblichini

Dall’estate del 1944, man mano che le forze Alleate risalivano l’Italia, furono allestiti dei campi dove concentrare i militari italiani e tedeschi catturati.

Fino ad allora, nell’Italia meridionale, funzionavano dei campi di smistamento dove le persone catturate si fermavano per pochi giorni per poi essere trasferite nel PWE 211 a Cap Matifou (vicino Rouïba, in Algeria) o negli Stati Uniti (soprattutto a Hereford, Texas).

Gli arrestati civili per attività in favore del regime fascista venivano inviati nei campi «R» (che sta per recalcitrans, o non-cooperatori) a Collescipoli (in provincia di Terni), Padula (Salerno) o ad Afragola.

Dal maggio del 1945 vennero allestiti dei campi per prigionieri di guerra, i PWE (che sta per Prisoners of War Encampments).

Il primo fu a Scandicci (PWE 334), in provincia di Firenze, divenuto dopo l’estate un campo solo femminile.

Dal giugno 1945 venne utilizzato l’ex campo occupato in precedenza da prigionieri alleati a San Rossore (PWE 339), in provincia di Pisa, e nello stesso periodo vennero aperti altri tre campi nella tenuta di Coltano, ciascuno dell’estensione di una quarantina di ettari: il PWE 336, riservato ai soldati germanici; il 337, alla pineta delle Serre, destinato agli italiani; e il 338 nel podere Biscottino, riservato a chi era accusato di aver collaborato con l’esercito tedesco (in particolare polacchi e sovietici).

A dirigere il campo furono i soldati americani della Buffalo, una divisione della Quinta Armata formata da soldati bianchi, neri, asiatici e nativi americani. Curiosamente ad occuparsi della gestione dei servizi per far funzionare la vita quotidiana dei campi di lavoro (registrazione degli ingressi, distribuzione del cibo, gestione delle misure disciplinari e funzionamento del piccolo ospedale da campo) fu destinato un gruppo di prigionieri della Wehrmacht.

Da luglio del 1945 tutti i prigionieri italiani concentrati nei vari PWE in Toscana furono trasferiti nel PWE 337 a Coltano, che divenne il più grande campo in Italia e, fino al settembre 1945, ospitò circa 32.000 prigionieri aderenti alla Repubblica sociale italiana. Mario Avagliano e Marco Palmieri nel loro libro L’Italia di Salò: 1943-1945 hanno calcolato che nel campo di Coltano «furono internati 3.472 ufficiali dell’esercito della RSI, 359 civili, 24.717 soldati di truppa, 994 prigionieri che dichiaravano di essere partigiani e 2.506 disertori dell’esercito».

Il punto di vista di questi prigionieri è, tra l’altro, raccontato in un libro del giornalista Pierluigi Battista, Mio padre era fascista, dove si trovano degli stralci del diario del padre Vittorio, ufficiale dell’esercito della RSI, internato a Coltano.

«È la fine. Sento di non essere padrone dei miei nervi. Ho l’impressione del vuoto e del buio. Tutto è finito. Tutto quello che avevamo sognato, tutto cade intorno a noi… Tutto finito. Tutto cade… Abbiamo contro non solo lo straniero tracotante ma anche buona parte del popolo italiano».

In quelle note – osserva Pierluigi Battista – trapela l’angoscioso crescendo di umiliazioni che fece tracollare il padre in un «tutto» fatto a pezzi, in un incubo da cui non riuscirà mai più ad affrancarsi.

Battista nel libro confessa il sospetto «che su quegli appunti mio padre sia intervenuto nel corso degli anni aggiustandoli, integrandoli, rimaneggiandoli, dando loro una forma meno frammentaria». Il loro impatto accompagna il lettore nella disperazione della sconfitta, «nell’incubo da cui non riuscirà mai più ad affrancarsi», considerando che: «basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte».

Tra i prigionieri rinchiusi a Coltano c’erano persone che nel corso della propria vita avrebbero ottenuto notevoli risultati. I futuri parlamentari del MSI Ezio Maria Gray e Mirko Tremaglia, e il futuro senatore di AN Giuseppe Turini. Lo scrittore Marco Ramperti, l’orientalista Pio Filippani Ronconi, i giornalisti Mauro De Mauro (che lavorò all’ufficio stampa della Decima MAS e riuscì a fuggire insieme alla moglie sull’auto della madre, vivendo per due anni in clandestinità) e Enrico Ameri. L’olimpionico di marcia Pino Dordoni. Il calciatore che poi giocò centravanti nell’Inter, Benito Lorenzi detto Veleno. Il bersagliere Walter Annichiarico che divenne noto con il nome d’arte di Walter Chiari e gli attori Enrico Maria Salerno, Raimondo Vianello. Persino Dario Fo, che non ha mai voluto ricordare quella storia, e Giorgio Albertazzi.

Molti prigionieri di Coltano furono liberati nei mesi di settembre e ottobre del 1945.

Ezra Pound

Il più celebre dei detenuti di Coltano fu Ezra Pound.

Nella classificazione dei prigionieri c’erano quelli definiti incorreggibili, e a loro veniva riservato un trattamento un trattamento orribile: venivano chiusi nelle cosiddette “gabbie dei gorilla”, un metro e ottanta per due, un fondo di calcestruzzo, e sbarre di acciaio con una rete spinata e un tettuccio di lamiera.

Nei confronti del poeta americano il trattamento fu particolarmente rigido. Nei quindici giorni che passò a Coltano non gli fu mai concesso di uscire. Restò scalzo e con in dotazione una coperta, che gli serviva anche per ripararsi dai fari che durante la notte venivano puntati sulle gabbie.

Dopo questo regime disumano fu trasferito nel PWE 335, al Disciplinary Training Center of the Mediterranean Theater of Operations, destinato ai prigionieri americani, a Metato, una frazione del comune di San Giuliano Terme, una località ad una ventina di chilometri a nord, sempre in provincia di Pisa.

Le regole che si erano dati gli americani prevedevano che un cittadino statunitense accusato di tradimento non potesse essere detenuto insieme ai prigionieri fascisti.

Fu qui che Pound scrisse i Canti pisani.

Oggi a Coltano del centro di detenzione per i prigionieri di guerra fascisti non restano tracce visibili.

Si raggiunge dalla via dei Pini e per lasciarne il ricordo è posto un cippo meta di nostalgiche rievocazioni e di immancabili polemiche.

Campo profughi

Nel 2011 Coltano tornò di attualità perché gli uffici dell’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni, avevano individuato l’area toscana per realizzare una tendopoli, dove dare prima accoglienza ai migranti in una fase di emergenza.

Il progetto fu accantonato su richiesta della Regione Toscana.

Meglio una gallina oggi

L’area del lago delle Tamerici dell’Azienda agricola Furio Salvatori è al centro delle tenute di Coltano.

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