Mancano ancora medici e infermieri
A due anni dall'inizio della pandemia non si è risolto il problema della mancanza di personale negli ospedali italiani: c'entrano i tagli e una programmazione inadeguata
Quando i reparti e le terapie intensive sono tornate a riempirsi per la diffusione della variante omicron, in molti ospedali italiani è stata seguita la stessa strategia delle prime tre ondate: sono state rinviate diverse operazioni programmate, annullate tutte o parte delle ferie degli operatori sanitari, aumentate le ore di lavoro straordinario, e sono stati aggiunti posti letto e riconvertiti interi reparti. «Siamo ormai a quasi 20mila ricoverati, un numero non lontano dai 25mila dello tsunami della prima ondata», ha avvertito qualche giorno fa la Federazione internisti ospedalieri (FADOI).
Medici e infermieri non sono più impreparati come a marzo 2020, ma sono praticamente gli stessi di allora: solo più stanchi e provati da un lungo e faticoso periodo di emergenza. A due anni di distanza dall’inizio della pandemia, la carenza di personale che era diventata evidente durante i primi mesi dell’epidemia non è stata ancora risolta.
Mancano anestesisti, medici nei pronto soccorso, chirurghi, infermieri specializzati nell’assistenza delle persone ricoverate in terapia intensiva.
Il problema, molto preoccupante secondo le associazioni che rappresentano gli operatori sanitari, è storico e negli ultimi due anni è stato affrontato solo in parte grazie all’assunzione di migliaia di medici e infermieri con contratti a tempo determinato. Oltre ai contratti, anche gli interventi decisi dal governo sono stati parziali: pensati per il brevissimo periodo, e non strutturali. Il personale che aveva prestato servizio durante l’emergenza è stato stabilizzato solo in parte con l’ultima legge di Bilancio: la misura servirà a coprire le carenze nei prossimi mesi, non a programmare il futuro dell’assistenza sanitaria ospedaliera.
È complesso stimare con precisione quanti medici e infermieri manchino oggi negli ospedali, perché non esistono dati aggiornati che mostrino con esattezza quanti siano attualmente in servizio.
Secondo Carlo Palermo, segretario dell’ANAAO Assomed, uno dei principali sindacati di medici ospedalieri, oggi la situazione è preoccupante non solo a causa del coronavirus: i problemi c’erano già prima dell’epidemia. «Tra il 2009 e il 2019, ultimo anno in cui sono disponibili i dati, sono stati tagliati 46mila posti tra gli operatori sanitari, tra cui circa 6.000 medici», dice. «Siamo arrivati all’appuntamento con la storia indeboliti, in condizioni stremate, perché dovevamo rientrare nei parametri economici dell’Unione Europea. Considerando le pensioni, le dimissioni e i nuovi ingressi, possiamo stimare che negli ospedali italiani manchino 15mila medici, come minimo».
Negli ultimi due anni uno degli errori più grossolani, dicono sindacati e associazioni, è stato discutere degli spazi più che delle professionalità. Si è dato grande peso all’aumento dei posti in terapia intensiva e negli altri reparti senza considerare chi avrebbe lavorato intorno a quei letti.
Ogni paziente, infatti, deve essere assistito da un numero adeguato di operatori sanitari, un rapporto che non è stato quasi mai rispettato se non spostando medici e infermieri da altri reparti, limitando altri servizi sanitari come esami e operazioni programmate. È uno dei danni collaterali più sottovalutati dell’epidemia, causato dalla carenza di operatori sanitari, e con effetti difficilmente calcolabili nei prossimi anni.
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Dall’inizio dell’epidemia sono stati aggiunti circa mille posti letto effettivi nelle terapie intensive dopo che per anni erano stati tagliati. Nella prima fase dell’emergenza il divario tra numero di letti e operatori è stato meno gravoso perché nelle terapie intensive arrivarono molti medici che negli altri reparti avevano meno lavoro a causa del lockdown, per esempio i medici e gli infermieri dei reparti i traumatologia.
Ma oggi la situazione è molto diversa: all’emergenza coronavirus si sono aggiunti incidenti stradali, infarti, infortuni più o meno gravi.
Negli ospedali dove la pressione di malati di COVID-19 è diventata insostenibile sono state concentrate le risorse nelle terapie intensive, rimandando l’attività ordinaria.
«Nella prima ondata abbiamo fatto fronte all’aumento di posti in terapia intensiva facendo i salti mortali con turni infiniti, saltando ferie e riposi», ha detto Alessandro Vergallo, presidente di AAROI EMAC, l’organizzazione sindacale dei medici di Anestesia e Rianimazione, 118 e pronto soccorso. «Arrivati alla quarta ondata, i nostri colleghi sono duramente provati da quasi due anni pesantissimi. Non è possibile continuare a scaricare sugli ospedali l’intero peso di un’emergenza che, come ormai abbiamo visto, è ciclica».
Vergallo ha spiegato che nelle terapie intensive degli ospedali italiani possono essere gestiti al massimo 7.500 posti letto.
Secondo AGENAS, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, al momento i posti sono 9.637. Questo numero è stato raggiunto dopo l’aumento dei posti letto deciso dalle Regioni nelle ultime settimane, con l’obiettivo di non rientrare nei criteri stabiliti dal governo per passare nella zona di colore successivo, con misure restrittive maggiori: alcune volte questo aumento è avvenuto in maniera improvvisa, con centinaia di posti creati in un solo giorno.
Secondo molti medici e infermieri sentiti dal Post in realtà non è cambiato nulla, perché ai posti aggiunti non c’è stato un aumento proporzionale di personale: sono cresciute solo le ore di lavoro.
Vergallo ha definito i passaggi di quello che ritiene un circolo vizioso: «Aumentare i posti “teorici”, allentare le restrizioni, far circolare la malattia in forma anche grave continuando a sovraccaricare l’intero sistema ospedaliero, compresi i pronto soccorso, anche relativamente all’assistenza extra Covid. Un vero gioco al massacro al quale non abbiamo intenzione di prestarci, e relativamente al quale non escludiamo azioni di protesta».
Negli ultimi due anni, un aiuto è arrivato grazie all’assunzione straordinaria di 66mila operatori precari. Può sembrare un numero rilevante, in realtà oltre agli ospedali vanno considerati tutti i nuovi servizi che hanno richiesto nuovo personale come il contact tracing, i tamponi e la campagna vaccinale. Nel totale, inoltre, sono compresi anche tecnici di radiologia, di laboratorio, assistenti sanitari, biologi, medici abilitati non specializzati, specializzandi iscritti al quarto e al quinto anno. Insomma, nei reparti ospedalieri la coperta è rimasta comunque molto corta.
Una parte consistente del personale che era stata assunta a tempo determinato è stata stabilizzata con un provvedimento approvato nell’ultima legge di Bilancio. Le stime della FIASO, la Federazione italiana delle aziende sanitarie ospedaliere, dicono che in totale i professionisti interessati dalla stabilizzazione sono 47.994. In particolare il provvedimento riguarda 8.438 medici, 22.507 infermieri e 17.049 operatori sociosanitari e altro personale sanitario.
Anche in questo caso potrebbe sembrare un’ottima notizia, ma ai calcoli sul bilancio dei prossimi anni vanno sottratti i professionisti che andranno in pensione. Secondo uno studio della FIASO, tra il 2020 e il 2024 termineranno il loro lavoro 35.129 medici, 58.339 infermieri, 38.483 unità di altro personale. Analizzando i flussi in uscita con quelli in entrata, rappresentati da coloro che hanno concluso la formazione, tra il 2020 e il 2024 ci saranno circa 8.299 medici e 10.054 infermieri in meno a disposizione del servizio sanitario nazionale.
Un altro problema non trascurabile riguarda medici e infermieri che si sono dimessi, sono passati alle strutture private, sono andati all’estero o hanno addirittura cambiato lavoro.
Pierino Di Silverio, responsabile nazionale di ANAAO Giovani, sostiene che gli abbandoni aumenteranno sempre di più perché le condizioni di lavoro negli ospedali sono diventate proibitive e in alcune realtà perfino disumane. «È inammissibile che un paziente abbia la libertà di entrare in pronto soccorso, picchiare medici e infermieri, e andare via senza che nessuno dica niente», dice. «I turni sono molto più lunghi e faticosi, il guadagno è relativo. Siamo sfruttati e malmenati. In queste condizioni è normale che dopo la specializzazione il 30 per cento dei medici scelga di lavorare nelle strutture private».
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Sindacati e associazioni concordano: c’è carenza di medici e infermieri perché negli ultimi dieci anni è stata sbagliata la programmazione.
A fronte delle iscrizioni ai corsi di laurea in Medicina e Chirurgia non è stato finanziato un numero adeguato di contratti formativi, cioè le specializzazioni. Questo squilibrio è stato chiamato “imbuto formativo”. Molti studenti non sono riusciti ad accedere a un percorso formativo post laurea, indispensabile per entrare nel mondo del lavoro, e sono così rimasti bloccati in un limbo di precarietà. «Negli ultimi dieci anni sono rimasti esclusi circa 12mila neolaureati», spiega Palermo. «Ogni anno circa 1.500 giovani professionisti preferiscono emigrare piuttosto che rimanere bloccati».
Solo recentemente sono stati adeguati i finanziamenti e le previsioni: il ministero della Salute ha finanziato 17.400 contratti di formazione specialistica post laurea. I problemi, però, non sono stati risolti del tutto perché a questo aumento di professionisti deve seguire un accurato lavoro di programmazione delle regioni che finora è stato piuttosto approssimativo. Il rischio è che alcune specializzazioni, come gli anestesisti e la medicina d’urgenza, rimangano comunque scoperte.
Prima della pandemia, il sindacato AAROI EMAC stimava una carenza di almeno 4.000 tra anestesisti e rianimatori negli ospedali.
Anche nel lavoro di programmazione si dovrebbe tenere conto delle persone, più che degli spazi. Molte regioni, invece, hanno dato priorità ai progetti legati al PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza, quindi agli spazi. I 20 miliardi previsti per la Sanità, infatti, sono destinati quasi esclusivamente alla ricostruzione della sanità territoriale e in particolare alla costruzione di nuove Case e ospedali di comunità.
Secondo molte associazioni di medici, non basta discutere di quante strutture costruire, ma di come ripensare la sanità nelle strutture nuove e in quelle esistenti perché i problemi causati dall’epidemia continueranno anche nei prossimi anni. «Servirebbero strutture multispecialistiche con spazi adeguati a gestire un’emergenza epidemica, con reparti e percorsi “puliti”, e personale aggiuntivo, già formato, da spostare senza chiudere o limitare gli altri servizi», dice Palermo. «Altrimenti, come sta accadendo a due anni dall’inizio dell’epidemia, continueremo a negare il diritto alla cura ai malati oncologici, ai cardiovascolari, a chi ha bisogno di una protesi a un ginocchio o a un’anca, a chi ha avuto un aneurisma o ha una valvola cardiaca da sostituire».