Che cos’è il traffico di influenze illecite
Il reato per cui è indagato Beppe Grillo è complicato sia da capire che da dimostrare: fu criticato fin dalla sua introduzione nel codice penale
Il fondatore del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo è indagato dalla procura di Milano per traffico di influenze illecite. L’ipotesi è che tra il 2018 e il 2019 l’armatore Vincenzo Onorato, proprietario della compagnia di navigazione Moby, abbia stipulato dei contratti pubblicitari con il blog di Grillo per ottenere l’illecita mediazione di Grillo in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby sui parlamentari del M5S, partito che a quel tempo era al governo.
Sulla storia si sa ancora poco, e si sa poco sulle informazioni di cui è entrata in possesso la procura. Ma c’è un’altra cosa che rende l’indagine e tutto il caso difficile da interpretare, e cioè che il reato ipotizzato sia quello di traffico di influenze illecite: un reato di per sé piuttosto complicato sia da capire che da dimostrare, e che venne criticato fin dalla sua recente introduzione nel codice penale.
Il traffico di influenze illecite
Il traffico di influenze illecite fu introdotto nel codice penale italiano solo nel 2012 con la cosiddetta legge Severino, una riforma in tema di prevenzione e repressione del reato di corruzione voluta dall’allora ministra della Giustizia del governo Monti, Paola Severino. La norma ha tra l’altro dato seguito a due convenzioni internazionali ratificate dall’Italia: la Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione del 31 ottobre 2003, la cosiddetta “Convenzione di Merida”, e la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa del 27 gennaio 1999, detta anche Convenzione di Strasburgo.
Nel 2019 fu poi introdotta la cosiddetta legge “spazzacorrotti”, promossa dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal governo di Giuseppe Conte sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega. La nuova legge riformulava il reato di influenze illecite in senso repressivo (furono cioè inasprite le pene) ma anche in senso estensivo. Fu quindi ampliato l’ambito della sua applicazione, includendo per esempio le condotte che prima erano riconducibili al millantato credito, che fu cancellato dal codice penale.
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Il traffico di influenze illecite si inserisce nella sezione dei “delitti contro la Pubblica amministrazione” del codice penale ed è regolato dall’articolo 346 bis. Dice:
«Chiunque, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, ovvero per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, è punito con la reclusione da 1 anno a 4 anni e 6 mesi. La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altra utilità.»
Il reato prevede una specie di triangolazione, cioè tre soggetti: il mediatore (spesso chiamato “faccendiere”), il committente della mediazione (un soggetto privato) e il pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. L’obiettivo della norma è punire le condotte di chi, dietro remunerazione e sfruttando o millantando un particolare rapporto con il soggetto pubblico, si impegna a fare da “mediatore” tra il soggetto privato e il soggetto pubblico, il quale potrebbe restare anche del tutto all’oscuro dell’accordo illecito fatto da altri.
Più nello specifico, il reato prevede due ipotesi, nelle quali è diverso il destinatario del denaro o dell’altra utilità ricevuta (“altra utilità” significa che non è necessario che la cosa data o promessa abbia un valore di carattere economico).
Nel primo caso, la cosiddetta “mediazione a titolo oneroso”, il committente dà o promette qualcosa al mediatore perché eserciti una influenza illecita sul soggetto pubblico: il denaro o l’altra utilità dati o promessi dal committente al mediatore sono dunque il prezzo dell’attività di mediazione stessa. Attività che il mediatore si impegna a esercitare sul pubblico agente per spingerlo a compiere un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio e in favore del committente.
La seconda ipotesi, la “mediazione a titolo gratuito”, prevede invece che il denaro o l’altra utilità vengano dati o promessi al mediatore per pagare direttamente il pubblico agente: il mediatore riceve dunque qualcosa, o la promessa di qualcosa, da dare al pubblico ufficiale, e sempre per spingerlo a compiere un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio e in favore del committente. In questo caso, per rimanere nell’ambito del traffico di influenze illecite e non ricadere nel reato di corruzione, quel qualcosa fornito al mediatore non deve essere effettivamente consegnato o promesso al soggetto pubblico.
Va tenuto presente che il traffico di influenze illecite si compie nel momento e nel luogo in cui il privato-committente e il mediatore raggiungono il loro accordo, senza cioè che sia necessario che l’atto al centro dell’accordo si concretizzi. È insomma penalmente rilevante il solo raggiungimento di un accordo che ha come obiettivo corrompere un soggetto pubblico: a prescindere che poi l’attività di mediazione abbia buon esito e che il soggetto pubblico compia un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio.
Va poi tenuto presente anche che la ratio della norma è preventiva: interviene cioè prima che l’accordo sull’influenza illecita abbia le sue conseguenze. Il reato di traffico di influenze illecite è quindi in un rapporto di subordinazione rispetto al reato di corruzione o altre forme di interferenza illecita: è una specie di reato “propedeutico” rispetto a condotte in senso lato corruttive.
I problemi
Secondo alcuni giuristi ed esperti, l’introduzione di questo specifico reato è stata positiva perché ha rafforzato l’azione di contrasto “preventivo” alla corruzione, colpendo tutta una serie di entrature improprie e non trasparenti che possono condizionare le decisioni pubbliche.
Ma la formulazione dell’articolo 346 bis, così come il reato stesso, presentano secondo molti altri diverse problematiche, a partire dalla ineffettività, come ha ricordato Mattia Feltri su La Stampa: secondo gli ultimi dati del ministero, dal 2013 al 2016 è stato condannato il 33 per cento delle persone finite a processo per traffico di influenze illecite, «e siccome i mandati a processo erano tre, il 33 per cento di tre è uno».
Innanzitutto, il confine tra il reato in questione e il lobbying lecito, cioè le attività di semplice mediazione, è indefinito. Il reato di traffico di influenze illecite si basa cioè sul concetto di mediazione illecita, ma senza che in Italia esista una legge che spieghi che cosa sia una mediazione lecita. In un’intervista al Foglio di qualche anno fa, Tullio Padovani, professore di Diritto penale all’Università Sant’Anna di Pisa, spiegava che la prima conseguenza negativa della formulazione della norma è che spetta al magistrato colmare, con ampi margini di discrezionalità, il vuoto normativo.
Come spiega un esperto sul tema, Vincenzo Mongillo, professore ordinario di Diritto penale all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, «la situazione dal punto di vista della determinatezza del precetto penale è persino peggiorata con la legge del 2019, la cosiddetta “spazzacorrotti”, perché è stato soppresso, nella fattispecie base, l’inciso secondo cui il traffico illecito doveva essere finalizzato all’ottenimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio da parte del decisore pubblico “bersaglio”. Eliminato questo elemento selettivo, è rimasta una “mediazione illecita”, il cui significato resta affidato interamente alle valutazioni della magistratura, con un elevato rischio di indagini che partono con grande clamore mediatico e che il più delle volte si risolvono nel nulla».
Il 12 gennaio scorso la Camera dei deputati ha approvato un disegno di legge che disciplina l’attività di lobbying e che si intitola “Disciplina dell’attività di relazioni istituzionali per la rappresentanza di interessi”. Ora la proposta passerà al Senato, e la sua approvazione potrebbe contribuire a superare questo specifico punto critico del reato di traffico di influenze illecite.
Un altro problema ha a che fare con la difficoltà a far emergere e a dimostrare che questo reato sia stato commesso.
Come abbiamo visto, per non arrivare al reato di corruzione il denaro e l’altra utilità fornita al mediatore per corrompere il funzionario pubblico non devono essergli effettivamente consegnati o promessi. Si rimane cioè nell’ambito dell’attività preparatoria del delitto di corruzione, che non si completa. Ma questo significa che l’incriminazione si basa tutta sulla finalità, come ha chiarito anche la Cassazione: «La mediazione è illecita quando è finalizzata alla commissione di un fatto di reato». Sempre secondo Padovani, però, la finalità «sta nella testa della gente, e come fai a stabilirla?».
C’è infine un terzo problema. Prima del 2019, prima cioè della modifica di questo specifico articolo del codice penale introdotta dalla legge “spazzacorrotti”, il reato di traffico di influenze illecite si affiancava a quello del millantato credito. Nel millantato credito il rapporto tra il “millantatore” e il soggetto pubblico non doveva, appunto, essere solo vantato ma doveva essere inesistente. Nel traffico di influenze illecite, invece, fino al 2019 l’influenza esercitata dal mediatore doveva nascere da relazioni effettivamente esistenti.
Dal 2019 il mediatore può avere un rapporto con il soggetto pubblico oppure può far credere al privato di averlo anche se non ce l’ha: in entrambi i casi la sanzione penale è la stessa. Non solo: la sanzione è la stessa anche per il soggetto privato che entra in contatto con il mediatore, indipendentemente dal fatto che venga ingannato dalla sua “millanteria”. Come si spiega qui, questo significa che «il soggetto privato non potrà più rivendicare (come invece accadeva prima del 2019, ndr) il suo status di “vittima” – come tale non punibile – per essere stato indotto a credere nell’esistenza di un potere di influenza del trafficante sull’agente pubblico che in realtà non è mai esistito».
Ammettendo la punibilità anche della vittima della millanteria (e varie sentenze della Cassazione hanno già condiviso questa linea di pensiero), l’assenza di distinzioni legislative tra relazioni esistenti e relazioni vantate potrebbe rendere ancora più complessi l’accertamento e la prova del reato, non potendo l’accusa nemmeno più contare sulla eventuale testimonianza del soggetto privato “ingannato” quale parte offesa.
In definitiva, come osserva ancora Vincenzo Mongillo, «la fattispecie era stata presentata come una sorta di panacea in grado di arginare il fenomeno corruttivo; finora però ha generato una serie di problemi interpretativi e pochissime condanne, a scapito dunque più che dei “faccendieri” che agiscono nell’ombra, dei professionisti seri che si trovano ad operare in un quadro normativo assai incerto. Alcune recenti decisioni della Cassazione hanno cercato di delimitare e di rendere più tassativo il reato; tuttavia le oscillazioni giurisprudenziali non mancano e la fattispecie rappresenta uno strumento assai malleabile nelle mani della magistratura inquirente».
Per Mongillo, il reato presenta per sua natura forti criticità: «In primo luogo sul piano della compatibilità con i principi costituzionali di legalità e necessaria offensività. E non è un caso che molti stati, tra cui la Germania o il Regno Unito, abbiano sinora rifiutato la sua introduzione negli ordinamenti interni. Invece che brandire spade un po’ alla cieca, il legislatore dovrebbe ricercare un equilibrio ragionevole tra esigenze contrapposte: un bilanciamento certo difficile da raggiungere, ma essenziale in settori cruciali come il rapporto tra democrazia, politica, impresa e finanziamenti privati».
I casi
I casi politici legati al reato di traffico di influenze illecite sono diversi, ma quello più recente e dalle conseguenze significative coinvolse Federica Guidi, ministra dello Sviluppo economico del governo Renzi.
Nel marzo del 2016 Gianluca Gemelli, ex compagno di Guidi, fu accusato di aver approfittato della carica di Guidi per interessi economici personali legati al progetto di un centro di estrazione petrolifera in Basilicata. L’inchiesta occupò per giorni le prime pagine dei giornali, e dopo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e l’indagine su Gemelli, aperta dalla procura di Potenza, Guidi, che non era mai stata indagata, si dimise.
Secondo la procura di Potenza, Gemelli aveva interessi commerciali legati all’avanzamento dei lavori per la costruzione dell’impianto di Tempa Rossa, in Basilicata, che ai tempi dell’indagine erano bloccati da molti mesi a causa delle proteste di associazioni e comuni legate ai pericoli di inquinamento ambientale.
L’ipotesi dell’inchiesta era che su pressione di Gianluca Gemelli nella legge di stabilità del 2015 fosse stato inserito un maxiemendamento che aggiungeva le opere come l’impianto di Tempa Rossa tra quelle la cui approvazione competeva al governo – precisamente al ministero dello Sviluppo economico, cioè a Federica Guidi – e non agli enti locali, rendendo così più facile lo sblocco dei lavori. Il ritocco normativo, poi di fatto approvato, sarebbe andato a favore della Total, che avrebbe poi ripagato la mediazione di Gemelli affidando alle sue aziende dei subappalti.
In un’intercettazione del 5 novembre 2014, Guidi era stata ascoltata mentre rassicurava Gemelli sul fatto che l’emendamento – che era stato bocciato in precedenza – sarebbe stato discusso nuovamente al Senato. In un’altra intercettazione Gemelli aveva chiamato al telefono il dirigente della Total Giuseppe Cobianchi per comunicargli la “buona notizia”, cioè che l’emendamento sarebbe stato inserito dal governo nel maxi-emendamento alla legge di stabilità e che quindi sarebbe stato approvato in breve tempo.
Guidi non era stata indagata ma Gemelli sì, per traffico di influenze: perché, avevano scritto i giudici, «sfruttando la relazione di convivenza» che aveva con la ministra «indebitamente si faceva promettere da Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total, vantaggi patrimoniali».
Dopodiché l’indagine venne archiviata: Gemelli aveva sfruttato «anche millantando, in modo più o meno esplicito, la possibilità di trarre vantaggio da tale sua condizione», cioè di essere legato con la ministra Guidi. Ma non era stato dimostrato che Gemelli avesse «mai richiesto compensi per interagire con esponenti dell’allora compagine governativa».