La moda e il prezzo di una borsa
Come mai la "Speedy" di Louis Vuitton costa uno sproposito per alcuni mentre è un prodotto accessibile per molti altri
di Andrea Batilla
Chi si ferma davanti alla vetrina di un marchio del lusso resta a volte esterrefatto per i prezzi esorbitanti dei prodotti esposti. Alcune categorie di prodotti, a seconda della formazione, genere, provenienza e status sociale di chi le giudica, lasciano sorpresi più di altre: e capita di attribuire un valore più alto ad oggetti in materiali preziosi e uno più basso ad oggetti comuni di cui può essere molto difficile ricostruire, nei pochi secondi davanti alla vetrina, il valore della catena produttiva.
Nella moda la differenza tra valore reale e valore immateriale è quasi sempre indistinguibile e ragionare sul perché un abito o un paio di scarpe costano così tanto è alquanto complesso.
«A prima vista, una merce sembra una cosa banale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici». Marx nel Capitale fu tra i primi ad avvertire che uno dei riflessi della nuova società capitalistica fosse la scissione tra il valore di una merce dato dalla quantità di lavoro e il suo valore feticistico, cioè inventato, costruito intorno all’idea che abbiamo dell’oggetto. Già nel 1867 si poneva il problema di come una parte intangibile potesse contribuire ad accrescere il valore percepito di un oggetto e quindi ad alzarne a dismisura il margine, cioè il guadagno del produttore.
Per accertarsi di come il “sovrasensibile” sia ancora oggi la chiave fondamentale per ricavi stratosferici basta andare sul sito di Louis Vuitton o in uno dei suoi 400 negozi nel mondo e trovare una delle sue borse più note e “iconiche”, la Speedy Bag, un bauletto con la famosa stampa del monogramma che fu inventato nel 1924 come borsa da viaggio. La Speedy, nella sua versione più classica costa 1.030 euro anche se di fatto è un piccolo quasi parallelepipedo di tela di cotone stampata e gommata, con un manico e una zip. In questo caso il valore materiale non sembra assolutamente coincidere con il prezzo di vendita, eppure è una delle borse più vendute al mondo, con una platea potenziale di clienti enorme. Si calcola (è impossibile ottenere dati certi) che questa, come molte altre borse in circolazione, abbia subito un ricarico fino a 12 volte rispetto al costo di produzione.
È su questo tipo di prodotto e non su quelli da 2.000 o 3.000 euro che il gruppo LVMH, l’agglomerato del lusso più importante al mondo, costruisce gran parte della sua marginalità.
Il gruppo LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy) è una multinazionale di proprietà della famiglia francese Arnault che incorpora una settantina di marchi che vanno da Vuitton a Dior a Fendi e Givenchy, passando per Bulgari, Moët et Chandon, Sephora e anche per la pasticceria Cova, e che nel 2019 era arrivata alla favolosa cifra di 53,7 miliardi di euro di fatturato annuo. LVMH è quotata in borsa e, oltre che alla famiglia Arnault, risponde ad una serie di piccoli e grandi azionisti che, intendendola esclusivamente come un veicolo di investimento, vogliono solo vederla crescere economicamente.
Il marchio Louis Vuitton, il più popolare e redditizio all’interno dei possedimenti LVMH, è al nono posto nella classifica dei brand che valgono di più al mondo ed è il primo nel settore lusso con una cifra stimata di 47,3 miliardi di dollari. Giusto per fare dei paragoni: Disney che è al settimo posto ha un valore stimato di 61,3 miliardi mentre Nike, tredicesima, ne vale 39,1. Subito sotto Vuitton, per quanto riguarda il lusso, c’è Gucci che però è solo al trentunesimo posto con un valore di 22,6 miliardi.
Tutta questa ricchezza viene prodotta pensando e vendendo prodotti che hanno un’alta marginalità e che possono sopportare prezzi ben al di sopra di quelli realistici perché intorno a loro è stato costruito uno storytelling attraente “pieno di sottigliezza metafisica e di capricci teologici”, come direbbe Marx. Il caso delle borse, e di questa in particolare, è uno dei più emblematici perché sempre più persone sono disposte a comprarsi un pezzo di status sociale pagandolo molto e cancellando momentaneamente la loro capacità di compiere una realistica analisi del valore.
Nel 2019 il mercato delle borse ha generato un fatturato globale di circa 56 miliardi di euro: e se nel 2003 era il 18% del mercato globale del lusso, oggi è arrivato a valere più del 30%. Questo, in parole povere, vuol dire che qualunque marchio, per essere profittevole deve passare attraverso la vendita massiccia di borse.
Nel mondo del lusso le categorie di prodotti che danno più marginalità sono profumi, cosmetica, occhiali e, appunto, borse. Nessuna di queste ha problemi di taglia, di spazio occupato in magazzino o sugli scaffali e spesso anche di stagionalità (la Speedy Bag è la stessa dal 1924). Sulle borse si investe quindi molto in termini di comunicazione perché sono un oggetto facile da far comprare, di uso intenso e maggiore degli abiti, e che, pur rappresentando l’idea di esclusività del brand, riescono ad essere accessibili a clientele molto grandi. E soprattutto perché i margini, nel caso delle borse, possono arrivare fino a 20 volte il costo di fabbricazione del prodotto.
Naturalmente bisogna indovinare cosa sia che spinge tante donne e uomini a comprarsi proprio quella borsa, la Speedy Bag, e non un’altra: e cioè come sia stata costruita intorno ad un oggetto di relativamente basso valore un’idea di desiderabilità globale. Per rispondere a questa domanda bisogna uscire dalla dimensione economica e pratica ed entrare in quella storico-sociologica.
La società Louis Vuitton nasce nel 1854 come produttrice di valigie solide e inscalfibili per la nuova classe borghese europea e americana che trova nel viaggio una delle massime espressioni di affermazione sociale e di conseguente uso del denaro. Il vapore che da poco alimenta locomotive e transatlantici rende gli spostamenti per diletto enormemente più facili ma al contempo alimenta anche le fabbriche di cotone che producono la tela che diventerà la base del tessuto monogram. Una semplice tela di cotone, una spalmatura di gomma e una stampa che la rende riconoscibile e quindi difficilmente falsificabile, diventano le componenti fondamentali di valigie e borse da viaggio che trasportano l’acquirente in un mondo di sogno, di esclusività, di cene sull’Orient Express e di assassini sul Nilo.
L’idea geniale dei Vuitton di sostituire la pelle, cedevole, sporchevole e fragile con un materiale resistente, facile da pulire ma istantaneamente riconoscibile, è di fatto uno dei primi esperimenti riusciti di marketing del lusso, così tanto che ancora oggi sono molto pochi i clienti del marchio francese che, con una borsa monogram tra le mani, abbiano la consapevolezza di possedere un oggetto che da un punto di vista produttivo e dei materiali non ha niente di lussuoso.
La Speedy Bag e tutte le sue sorelle attraversano il Novecento diventando ogni decennio sempre più iconiche e agganciando, dagli anni ’70 in poi, la loro esistenza a quella delle tantissime celebrities che le usano per creare il proprio status. Classico ed esoticamente europeo, il monogram di Vuitton (come la staffa di Gucci o la doppia C di Chanel) diventa un simbolo di distinzione della nuova classe borghese americana che attraverso il cinema di Hollywood ha assorbito i nuovi codici dell’eleganza globale e li ha trasformati in uno strumento di dominazione culturale.
Senza questo passaggio molti dei grandi marchi del lusso che conosciamo (Dior, Gucci, Pucci, Givenchy) non avrebbero raggiunto il successo mondiale che oggi hanno e, in un’era pre-globalizzazione, non sarebbero diventati universalmente riconoscibili. Tra gli anni ’50 e gli anni ’80 è il mercato americano a creare gran parte della fenomenologia dei brand che ancora oggi frequentiamo.
Per la storia della Speedy Bag, però, l’anno del vero cambiamento è il 1997, quando alla direzione creativa di Louis Vuitton viene chiamato un giovane americano di nome Marc Jacobs. Che ha 34 anni, è figlio della cultura pop americana ma è anche figlio di una ricca famiglia ebrea che vive nell’Upper West Side di New York, ed è quindi in grado di capire sia la miseria che la nobiltà della materia che il gruppo LVMH gli ha appena messo nelle mani. Decide di rompere la sacra classicità delle borse monogramma ribaltandone completamente l’estetica, usando vernice, plastica, denim, ricami e stampe e sostanzialmente risignificando in chiave contemporanea tutto l’immaginario di Vuitton. Da un punto di vista strettamente semiotico solo un’icona poteva resistere alla pressione di un cambiamento così schiacciante senza perdere il suo significato originale ma anzi inglobandone centinaia di nuovi.
Marc Jacobs introdusse il concetto di lusso ai giovani e aprì di fatto le porte dei negozi Vuitton ad una massa di persone che fino a quel momento l’avevano considerato inavvicinabile. Lentamente ma inesorabilmente la platea di acquirenti della Speedy Bag si allargò fino a comprendere chi si mette religiosamente da parte cento euro al mese per raggiungere la cifra necessaria ad accaparrarsi un accessibile biglietto d’entrata a quelle convenzioni dell’accettazione sociale. Questo è il momento in cui viene di fatto creato il concetto di it bag, la borsa iconica che stagione dopo stagione ogni persona interessata a quelle convenzioni dovrebbe avere, e su cui dovrebbe investire una ragguardevole parte del proprio stipendio. Oggi la Speedy Bag viene venduta in 31 declinazioni diverse che possono arrivare a costare 2.500 euro.
Un’ultima cosa: se prendete una Speedy in mano vedrete che il logo monogram è dritto solo su un lato della borsa, mentre sull’altro è rovesciato. Per averli dritti entrambi sarebbero necessari una cucitura sul fondo e maggiori costi di materiale e lavorazione.