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  • Domenica 16 gennaio 2022

Gli adolescenti stanno peggio

Con la pandemia, ragazzi e ragazze stanno affrontando una fase complessa della vita senza l’aiuto della comunità, con conseguenze rilevanti per la loro salute mentale

di Isaia Invernizzi

(AP Photo/Thibault Camus)
(AP Photo/Thibault Camus)

Visti da fuori, gli ambulatori e gli sportelli di ascolto che in Italia si occupano della salute mentale degli adolescenti non sembrano molto diversi rispetto a due anni fa: sono più o meno gli stessi, troppo pochi secondo molti addetti ai lavori. Del sostegno psicologico, della prevenzione e dell’ascolto si parlava poco prima e se ne parla poco anche oggi. Visti da dentro, con la percezione di chi ogni giorno ci lavora, le differenze rispetto al passato sono evidenti: i limiti e le mancanze strutturali nella tutela pubblica della salute mentale sono più preoccupanti, perché i ragazzi e le ragazze che hanno bisogno di un’assistenza urgente, con quadri clinici gravi, sono aumentati in modo significativo durante la pandemia.

Non lo dicono solo i dati degli studi nazionali e internazionali, inevitabilmente parziali. L’aumento generale di ansia, depressione, episodi di autolesionismo e tentativi di suicidio è confermato dalle testimonianze di psichiatri, psicologi, medici dei pronto soccorso e operatori sociali.

Ci sono più casi, più gravi, ma soprattutto l’epidemia ha causato un peggioramento generale della salute mentale di ragazzi e ragazze, con conseguenze per tutte le persone tra 12 e 18 anni: chi non aveva problemi ha dovuto affrontare fasi di smarrimento e disagio dovute alle limitazioni della socialità; per chi era già in una condizione critica sono diminuite le possibilità di chiedere un sostegno, e per il sistema sociosanitario è aumentato il rischio di non riuscire a intercettare e in parte anche gestire le richieste di aiuto prima che diventino più difficili da gestire.

Il risultato è che in tutta Italia gli ospedali sono stati costretti ad aumentare i posti letto nei reparti di neuropsichiatria infantile per accogliere un numero di persone che mai si era visto negli ultimi anni.

I dati italiani non sono ancora disponibili, ma le testimonianze dei neuropsichiatri infantili e degli psicologi mostrano che la situazione italiana non è molto diversa da quella di altri paesi dove invece i dati ci sono. Negli Stati Uniti, nei primi sei mesi del 2021 gli ospedali psichiatrici avevano segnalato un aumento del 45 per cento del numero di casi di autolesionismo e tentativi di suicidio tra 5 e 17 anni rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Un’indagine interessante sull’Italia è stata commissionata dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi (CNOP), pubblicata lo scorso ottobre: i risultati si basano sulle risposte di 5.621 psicologi e dicono che durante l’epidemia i pazienti in terapia con meno di 18 anni sono aumentati del 31 per cento.

«La psicopandemia non è una battuta, né una invenzione degli psicologi, è una realtà, ed è a tutti evidente che c’è un’onda lunga di disagio e disturbi psicologici che durerà anni e interessa quote importanti della popolazione», ha detto David Lazzari, presidente del CNOP. «Tra i giovani sino a 18 anni uno su due vive un disagio psicologico e uno su dieci manifesta un disturbo».

I segnali del peggioramento generale sono piuttosto chiari e condivisi tra chi si occupa di questi problemi. Al di fuori di questa comunità, invece, l’allarme sembra essere inascoltato, come molti altri: da due anni ormai l’epidemia da coronavirus sta causando conseguenze concrete e preoccupanti all’assistenza nei confronti di tutti i malati, in particolare le persone che hanno un disagio mentale. Ed è molto complesso capire quali saranno gli effetti in futuro.

Secondo Antonella Costantino, neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza, che fino a ottobre è stata presidente della SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza), la richiesta di interventi per la salute mentale in adolescenza è in aumento da almeno dieci anni e considerando tutti i disturbi, anche i più lievi, riguarda moltissime persone, tra il 12 e il 20 per cento della popolazione.

Con l’arrivo della pandemia e delle restrizioni, il ritmo di crescita è stato maggiore rispetto agli anni precedenti: «Abbiamo visto ansia e depressione generalizzata, e un aumento nettissimo degli autolesionismi di tutti i tipi, disturbi dell’alimentazione, aggressività. La situazione è peggiorata in generale: ragazzi e ragazze arrivano da noi più tardi, con sintomi difficili da gestire. Sono mancate molte delle risorse sociali e aggregative che di solito aiutano a intercettare questo disagio. La fascia d’età dell’adolescenza è stata molto trascurata negli ultimi due anni».

L’adolescenza è già di per sé una fase di vita piuttosto complessa, un’età di grandi cambiamenti e trasformazioni, in cui ragazzi e ragazze sono chiamati a ridefinire la propria personalità e i propri valori. È considerata, soprattutto dai genitori, un periodo misterioso e incontrollabile.

Capire i comportamenti non è semplice, scrive la psicologa Serena Pierantoni, perché spesso gli adolescenti sono lunatici, si comportano in modo bizzarro, apparentemente inadeguato, tendono ad adottare comportamenti rischiosi e si lasciano trascinare dal gruppo: «Per molti anni l’adolescente è stato descritto come sofferente, violento, antisociale, sollecitato dai media e dalla televisione. Oggi è possibile dare al fenomeno dell’adolescenza una spiegazione più complessa e completa, che tiene conto anche delle modifiche che avvengono a livello cerebrale».

Gli studi degli ultimi anni hanno consentito di spiegare meglio i cambiamenti che determinano la comparsa di quattro caratteristiche mentali, definite dal neuropsichiatra americano Dan Siegel: la ricerca di novità, il coinvolgimento sociale, la maggiore intensità emotiva e l’esplorazione creativa.

L’epidemia ha sconvolto queste caratteristiche, in particolare il coinvolgimento sociale che consente agli adolescenti di formare un’identità attraverso la relazione con i compagni, come un riflesso in cui rivedere le proprie paure e perplessità. Se in molti casi queste relazioni possono portare a comportamenti pericolosi per ottenere l’approvazione del gruppo, allo stesso tempo i legami creati possono diventare un sostegno essenziale nel corso della vita.

Negli ultimi due anni le limitazioni agli spostamenti, l’isolamento e il distanziamento, pur necessari per rispondere all’emergenza sanitaria, hanno ostacolato e in molti casi impedito il coinvolgimento sociale, con effetti non trascurabili.

(AP Photo/Martha Irvine)

Simona Felici è una delle cinque psicologhe che negli ultimi due anni hanno gestito lo sportello di ascolto per le persone con meno di 18 anni che vivono nell’area dell’ottavo municipio di Roma, nei quartieri Ostiense, Garbatella, Tormarancia, prevalentemente popolari, dove abitano 131mila persone. Lo sportello era nato poco prima dell’epidemia per dare a ragazzi e ragazze la possibilità di avere un canale di ascolto in più rispetto ai luoghi in cui è già possibile condividere le difficoltà, come la scuola.

Con l’arrivo dell’emergenza, nonostante le poche ore di attività settimanale, lo sportello è diventato un punto di riferimento, un luogo di prevenzione e tutela per i minori e le loro famiglie.

Felici dice che per gli adolescenti il problema più grande è stato ritrovarsi a esplorare e gestire una fase complessa della propria vita da soli. «Confrontarsi con i pari è essenziale perché definisce come mi presento al mondo, è un’esperienza che in qualche modo contribuisce ad acquisire consapevolezza di se stessi, della propria identità», spiega. «Mancando spazi di socializzazione, tutto quello che nel gruppo trova un contenimento, una manifestazione, è stato gestito in solitudine, senza gli strumenti adatti».

Questa mancanza si è rivelata in disturbi più o meno gravi. Felici dice di aver ricevuto molte richieste di aiuto in seguito ad attacchi di panico e ansia. In molti casi, ragazze e ragazzi hanno abbandonato la scuola: hanno deciso di isolarsi e non partecipare più alle lezioni, né in classe, né in didattica a distanza. «Molti di questi disagi, i meno preoccupanti, sarebbero stati affrontati nella normalità della vita, invece con il Covid c’è stato un peggioramento generale perché gli adolescenti hanno sentito di non avere risorse», dice. «Quelli che prima riuscivano a resistere solo con sforzi notevoli sono crollati».

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Con il lockdown della prima ondata, il coprifuoco nella seconda, la scuola in DAD e le restrizioni che continuano anche oggi sono state penalizzate attività considerate “non essenziali” che nella fase dell’adolescenza sono in realtà essenziali perché contribuiscono ai cambiamenti e a prevenire il disagio.

«L’aspetto più grave è stato il mancato riconoscimento di questa fatica, della grande rinuncia che è stata chiesta agli adolescenti», spiega Sara Campanile, neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza che lavora a Prato nel centro di Neuropsichiatria infantile dell’azienda sanitaria Toscana Centro. «Il punto è che nei casi più vulnerabili, più a rischio, il disagio creato dal distanziamento e dall’isolamento si è aggravato, diventando un disturbo con quadri clinici che vanno dall’ansia ai disturbi alimentari, fino all’autolesionismo e all’ideazione suicidaria».

Oltre all’annullamento del confronto come strumento per superare il disagio, la mancanza del gruppo e della comunità ha causato un altro tipo di problema: si sono ridotte le possibilità di intercettare in anticipo i segnali di difficoltà. Spesso la prima segnalazione di un disturbo può arrivare dagli insegnanti o dalle persone che fanno parte della comunità educante nello sport, nel volontariato, attività molto limitate negli ultimi due anni. «I genitori hanno avuto altre preoccupazioni dovute alle conseguenze economiche ed è mancata la parte della comunità», dice Campanile. «La rete di supporto è andata in crisi».

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L’assenza quasi totale della comunità educante e del gruppo è stata in parte compensata dalla maggiore consapevolezza di avere un disturbo. Se c’è una cosa buona che ha fatto la pandemia, dice Antonella Costantino, è che ha legittimato le richieste di aiuto. In un certo senso è stata data la colpa al coronavirus di molti disturbi che in questo modo sono emersi. Per anni, infatti, c’è stato il grande problema dello stigma e della fatica di molte persone nel chiedere un sostegno, oltre a una certa colpevolizzazione da parte dei genitori che spesso considerano l’aiuto psicologico come una debolezza.

In realtà questa legittimazione che si può considerare positiva ha causato anche un ampliamento del divario sociale ed economico nell’attenzione alla salute mentale. Chi aveva più risorse famigliari, economiche, spazi e reti sociali più solide è stato comunque male, ma in molti casi è riuscito a reggere con più efficacia rispetto a chi non aveva queste risorse.

Ragazzi e ragazze che avevano già difficoltà, in contesti più vulnerabili, hanno avuto conseguenze più gravi. «Di fatto per loro si sono sommati diversi elementi di stress, con un netto peggioramento della salute mentale e del benessere», spiega Costantino. «Già nella prima ondata abbiamo notato più problemi nei quartieri sovraffollati e nelle aree in cui i redditi sono più bassi. Avere uno spazio esterno a disposizione poteva fare una grande differenza, così come partire da una buona scuola o da una cattiva scuola, una buona DAD o una cattiva DAD, senza contare chi non ha avuto nessun tipo di DAD, né tanto meno una rete sociale».

È molto complesso valutare tutti questi effetti, perché l’epidemia non è ancora finita. Tra le altre cose, sarà importante capire quali siano le conseguenze dirette delle limitazioni o se piuttosto molti di questi disturbi fossero già presenti negli anni passati, ma nascosti.

L’aumento delle segnalazioni di ansia infatti può essere un indicatore affidabile, oppure la conferma che anche le generazioni precedenti avessero molti problemi di salute mentale, ma non la forza, il linguaggio, gli spazi e le opportunità per dichiararli. «Dobbiamo capire se c’è un’eccessiva psicopatologizzazione», spiega Paolo Rabaioli, psicologo che lavora allo Sportello TiAscolto di Torino, un’associazione che oltre a offrire supporto psicologico è impegnata nel contrasto alle disuguaglianze sociali e di salute.

(Stefano Guidi/Getty Images)

Secondo Rabaioli, l’epidemia ha portato a far emergere problemi latenti, tuttavia l’attenzione crescente sulla salute ha portato molte persone a considerare un problema psicologico aspetti che fanno parte delle fasi fisiologiche della vita, come il fatto di avere timore a confrontarsi con la sofferenza: «Anche molti genitori tendono a medicalizzare fenomeni normali che non devono essere per forza essere trattati da uno psicologo».

Al di là degli studi che verranno fatti su questi ultimi due anni, è diventato chiaro che ci siano molti problemi di accesso ai servizi di tutela della salute mentale. Operatori e operatrici concordano, come prevedibile: lo Stato dovrebbe dedicare più risorse economiche e professionali alla comprensione della salute mentale come elemento fondamentale per la salute generale.

In molte città e paesi mancano punti di primo ascolto, dove si può fare prevenzione. A Torino, dove già da tempo sono stati aperti spazi e canali a cui gli adolescenti possono chiedere un sostegno, Rabaioli e i suoi colleghi hanno aumentato le possibilità di contatto anche attraverso forme di comunicazione più accessibili, come WhatsApp. Sono stati organizzati incontri in cui ragazzi e ragazze hanno potuto parlare apertamente dei loro problemi.

Ma Torino sembra essere un caso a parte, perché in molte altre città italiane già prima dell’epidemia la rete psicologica e il Servizio sanitario riuscivano a rispondere solo in parte alle richieste di aiuto.

Lo scorso dicembre, un gruppo di senatrici e senatori di diversi partiti aveva proposto di introdurre una forma di sostegno per la salute mentale nella legge di bilancio con il cosiddetto “bonus psicologico”, bocciato al Senato. Molti esperti e molte esperte concordano nel dire che il bonus psicologico sarebbe stato un intervento di tamponamento necessario, ma insufficiente rispetto ai problemi del Servizio sanitario.

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La rete psicologica è molto carente e spesso le richieste sono accolte dai servizi sanitari di secondo livello come gli ambulatori che si occupano di salute mentale e i servizi di neuropsichiatria che negli ultimi due anni sono andati in affanno. «L’aumento dei casi ha messo a dura prova tutti gli operatori, perché abbiamo affrontato un notevole aumento dei casi con le stesse risorse», dice Sara Campanile. «È stato molto faticoso».

Lo stesso è avvenuto nelle comunità terapeutiche per minori, che trattano i casi più gravi, dove sono aumentati gli episodi di aggressività e le fughe.

Ma oltre al personale, alla rete psicologica e ai servizi di prossimità, un’altra cosa che è mancata e per certi versi manca ancora nell’affrontare l’epidemia e i suoi effetti è la consapevolezza collettiva del fatto che non tutto tornerà come prima.

«La confusione e le false speranze hanno disorientato moltissimo tutte le persone e in particolare gli adolescenti, con conseguenze sulla loro salute», spiega Antonella Costantino. «Negli ultimi due anni la società e l’informazione hanno spinto verso ricerca di pseudocertezze assolute, dando false speranze molto dannose per i ragazzi e le ragazze. Con quest’ultima ondata dovrebbe essere chiaro che sarà molto difficile tornare alla normalità: ne dovremo costruire un’altra, “abbracciare l’incertezza” e trovare nuovi buoni equilibri».

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