Il disastro della Costa Concordia, dieci anni fa
La storia degli errori e delle vigliaccherie che fecero naufragare sugli scogli del Giglio la più grande nave passeggeri della storia italiana
di Stefano Nazzi
La sera del 13 gennaio 2012, quando la Costa Concordia naufragò mentre navigava vicinissima all’isola toscana del Giglio, fu commessa una serie rovinosa di errori. Alcuni dipesero dalle incomprensioni tra chi dava ordini e chi doveva eseguirli, altri dalla superficialità e dall’imperizia delle persone coinvolte, altri ancora da una più semplice vigliaccheria. Furono errori che ebbero conseguenze disastrose: quella sera morirono 32 persone, e altre 157 furono ferite. Una nave da decine di migliaia di tonnellate, centinaia di metri e centinaia di milioni di euro si arenò a pochi metri dalle coste di una piccola isola, rimanendoci per anni.
La Concordia diventò la nave passeggeri più grande mai naufragata dai tempi del Titanic, che era affondato nell’Atlantico esattamente un secolo prima, e finì sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo, che seguirono per anni le vicende dei protagonisti di quel disastro, primo fra tutti il capitano della nave Francesco Schettino. Le conseguenze psicologiche per tanti che erano a bordo della nave continuano ancora oggi, a dieci anni di distanza.
La Costa Concordia era lunga 290,2 metri, larga 35,5 e alta 70. Quando il 7 luglio del 2006 a Civitavecchia le madrine Eva Herzigova e Antonella Clerici avevano scagliato la tradizionale bottiglia di champagne sulla fiancata, per inaugurarla, non si era rotta: un simbolo scaramanticamente interpretato come di cattivo auspicio. Al momento del varo, la Costa Concordia era la più grande nave mercantile italiana: era stata costruita dalla Fincantieri di Sestri Ponente ed era costata 450 milioni di euro. I numeri e le misure della nave furono ampiamente pubblicizzati per descriverne l’unicità: vuota pesava quanto 110 Boeing 747, la lunghezza dei cavi elettrici a bordo avrebbe potuto coprire cinque volte e mezza la distanza tra Roma e Milano, i rivestimenti di tek erano grandi come due campi di calcio e con le tovaglie dei ristoranti di bordo si sarebbe potuta apparecchiare una tavola lunga 27 km.
I ponti erano 17, di cui 13 aperti ai passeggeri. Le centrali elettriche potevano fornire energia sufficiente a una città di 50mila abitanti. La nave aveva 13 bar e cinque ristoranti, quattro piscine di cui due con tetto semovibile in cristallo. L’area termale era di 6mila metri quadrati, quella sport di 2mila. C’erano discoteche, cinema, teatri, sale giochi, aree per bambini, un percorso di jogging. Le cabine erano 1.500 di cui 505 con balcone, e 58 suite.
La Costa Concordia poteva ospitare 3.780 passeggeri; ci lavoravano 1.100 membri dell’equipaggio. La crociera di otto giorni costava, in cabina normale, 350 euro a persona, 1.100 euro nella suite. Sul sito della compagnia le fotografie della nave trasmettevano l’idea di una navigazione serena, su un mare blu e placido. Dal 13 gennaio 2012 in poi la nave sarebbe comparsa sui giornali di tutto il mondo adagiata su un fianco, con un enorme squarcio sul lato sinistro dello scafo.
A comandare la nave era il capitano Francesco Schettino, che allora aveva 52 anni. Nato in una famiglia di marinai a Castellamare di Stabia, in provincia di Napoli, si era diplomato all’istituto nautico Nino Bixio di Piano di Sorrento. Aveva lavorato per la Compagnia di navigazione Tirrenia e nel 2002 era stato assunto dalla Costa Crociere come primo ufficiale. Nel 2006 gli era stato affidato il comando della Concordia.
Nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012 la Costa Concordia avrebbe dovuto percorrere l’ultima tappa della Crociera “Profumi del Mediterraneo”. Otto giorni tra Savona, Marsiglia, Barcellona, Palma di Maiorca, Cagliari, Palermo, Civitavecchia e poi di nuovo Savona. A Civitavecchia la nave arrivò alle 8 del mattino del 13 gennaio, molti passeggeri scesero per andare a fare una gita a Roma. La partenza per Savona era prevista alle 19. Poco prima di lasciare il porto, il comandante Schettino diede ordine a un ufficiale di accogliere a bordo una sua ospite, Domnica Cemortan, moldava, ex hostess a contratto della Costa Crociere, con cui avrebbe cenato quella sera.
Nelle settimane successive al naufragio questo particolare fu molto raccontato e indagato dai media, anche internazionali. A lungo del disastro si sarebbe parlato trascurando la dinamica dei fatti, in certi casi ignorando le reali cause degli errori di quella sera e ingigantendo il ruolo di Cemortan. Fu un altro l’ordine di Schettino che causò la catena di eventi che portò al naufragio: il comandante disse ai suoi ufficiali che quella sera la nave avrebbe dovuto fare una piccola deviazione di rotta perché c’era da fare l’inchino all’isola del Giglio. «Amm’a fa l’inchino al Giglio», disse.
La pratica dell’inchino, consueta su molte navi, consisteva nell’avvicinarsi il più possibile alla costa per rendere omaggio a qualcuno sulla terraferma e dare la possibilità ai passeggeri di ammirare da vicino lo spettacolo dei paesi illuminati di notte. L’inchino al Giglio pare fosse una tradizione inaugurata nel 1993 dal comandante Mario Terenzio Palombo, originario dell’isola, che definì la consuetudine «emozionante e folkloristica». Quel giorno Schettino aveva promesso al maître, Antonello Tievoli, la cui madre abitava sull’isola vicino al porto, che l’inchino ci sarebbe stato. Diede anche indicazione di essere avvertito quando la nave si fosse trovata nelle vicinanze del Giglio: voleva essere lui a eseguire la manovra.
Poco prima di partire da Civitavecchia, un ufficiale comunicò i dati di bordo alla capitaneria di porto. Sulla nave c’erano 3.208 passeggeri e 1.023 membri dell’equipaggio. L’arrivo a Savona era previsto alle 7.12 del mattino successivo.
I passeggeri erano di 60 nazioni diverse. L’equipaggio era composto in larga parte da filippini e indiani. Quella sera il programma era quello abituale a bordo di una nave simile: due turni di cena nei ristoranti, animazione per i bambini, musica al piano bar, quiz, giochi di società, lezioni di ballo e due spettacoli di un prestigiatore, il mago Martin, alle 19.30 e alle 21.30.
La nave salpò da Civitavecchia con tre minuti di anticipo, alle 18.57. Alle 21.04 iniziò la deviazione dalla rotta abituale per avvicinarsi all’Isola del Giglio. Schettino mandò a dire di rallentare un po’, perché voleva finire di cenare in pace. Alle 21.19 un ufficiale avvertì il comandante che la nave era a sei miglia dall’isola. Schettino attese ancora qualche minuto, lasciò il ristorante e salì in plancia di comando insieme al maître. In plancia c’erano altre sei persone. Ciò che avvenne dal momento in cui il comandante arrivò in plancia di comando è stato ricostruito grazie alla scatola nera su cui rimasero impresse le voci di Schettino e di chi era con lui, almeno fino a un certo momento della serata.
La nave doveva passare vicino alla costa Est dell’isola, tenendosi a 0,5 miglia nautiche, circa 800 metri, evitando Le Scole, un gruppo di tre scogli granitici: il più grande è quello centrale, lungo 100 metri e distante dall’isola del Giglio pochi metri; il più lontano, che è anche il più piccolo, invece è a 280 metri dall’isola. Attorno agli scogli il fondale è roccioso, e fin dall’antichità è noto come un punto pericoloso per la navigazione, segnalato in qualsiasi mappa nautica. I marinai che percorrono la rotta tirrenica conoscono quegli scogli e quel fondale.
Alle 21.37 Schettino disse al maître di telefonare al capitano in pensione Palombo, anche lui originario dell’isola. L’inchino doveva essere anche in suo onore. Palombo però era, come ogni inverno, a Grosseto, sul continente. La telefonata fu breve, la scatola nera registrò la voce di Schettino che chiedeva se fosse possibile avvicinarsi all’isola a 0,4 o 0,3 miglia nautiche. Non si sente la voce di Palombo ma al termine della telefonata il comandante disse di aver capito, e che si poteva stare tranquilli. Alle 21.39 Schettino diede l’ordine: «comandante al timone».
Iniziò la manovra di maggiore avvicinamento al Giglio. La velocità era di 16 nodi, circa 30 km orari. Schettino diede l’ordine «starboard», cioè di virare a dritta, a destra. Disse «325 gradi». Il timoniere indonesiano, Jacob Rusli Bin, capì 315. Fu la prima incomprensione: ne seguirono altre, peggiori. Alle 21.42 Schettino capì che si stava avvicinando troppo agli scogli. Iniziò a dare ordini per modificare la direzione della nave, virando a destra prima di 10 poi di 20 gradi fino all’«hard to starboard», cioè tutto a dritta, tutto a destra. Così facendo però la nave puntò con la prua verso il mare aperto, mentre la poppa, e cioè la parte posteriore, si avvicinava inesorabilmente agli scogli.
Schettino ordinò 10 gradi e poi 20 gradi «port», cioè a sinistra, nel tentativo di riallineare la nave. Il timoniere capì «starboard», cioè destra, e virò ancora di più. L’errore durò 13 secondi, dopo i quali un ufficiale intervenne e cambiò rotta. Schettino continuò a dare ordini ravvicinati, sempre più a raffica, e il timoniere continuò a non capirli, o a capirli solo parzialmente. Schettino disse «350 starboard, altrimenti andiamo sulle rocce». Arrivarono nuovi ordini, «starboard 10» poi «starboard 20», poi barra a dritta, quindi «port 10» e dopo «port 20», poi un altro ordine: «hard to port», tutto a sinistra. Tutti i comandi furono registrati abbastanza chiaramente dalla scatola nera.
L’impatto avvenne alle 21.45. Il punto di collisione fu dietro la barra antirollio, un’aletta stabilizzante sul fianco dello scafo: causò una deformazione nello scafo di circa 60 metri per 7,3 metri di altezza, nel punto più alto, con uno squarcio principale lungo 35,859 metri ed altri cinque minori, otto metri sotto la linea di galleggiamento. La forza dell’impatto causò una sbandata di 20 gradi in senso antiorario, e la nave rallentò visibilmente. Intanto il comandante continuava a dare ordini per cercare di raddrizzarla. Ripeté più volte «hard to port». La falla interessò tre compartimenti stagni, in uno dei quali si trovava la sala macchine. L’acqua raggiunse anche altri compartimenti. Ci fu un blackout immediato poi entrò in funzione l’alimentazione d’emergenza.
Il timone restò bloccato in posizione di virata a dritta e la nave iniziò ad andare alla deriva, per inerzia. La corrente e il vento di Grecale la fecero ruotare di 180 gradi invertendo la rotta: fece in pratica un’inversione a U, circostanza che impedì che la nave continuasse la deriva verso il largo, cosa che avrebbe addirittura peggiorato la situazione. Nel malaugurato caso di un naufragio, infatti, essere vicini alla costa è un evidente vantaggio.
La poppa iniziò ad affondare, la nave perse stabilità, arrivò vicino alla costa, urtò il fondale e si inclinò verso destra. Ci fu un’altra rotazione di 90 gradi e infine si appoggiò sulla murata di dritta, cioè sul lato destro. A quel punto saltò anche il generatore d’emergenza. Toccando un piccolo terrazzamento, la nave si fermò con un’inclinazione di circa 70 gradi.
L’acqua entrò violentemente dalla falla, si allagarono subito i compartimenti 4, 5, 6, 7. L’8 si allagò poco dopo. Schettino diede subito l’ordine di chiudere le porte stagne a poppa. Alle 21.51 il comandante chiamò il direttore di macchina Giuseppe Pilon che gli disse che l’acqua stava entrando direttamente in sala macchine. Schettino ordinò di mettere in azione le pompe di svuotamento, che però erano fuori uso. Schettino chiese se almeno un motore poteva ripartire, ma il direttore di macchina rispose che era tutto allagato: bisognava andarsene. La scatola nera registrò questa frase di Schettino: «Stemm ienn a funn, praticamente», «Stiamo andando a fondo». Erano le 21.51 e 53 secondi, la nave aveva colpito gli scogli sei minuti prima.
I passeggeri nel frattempo avevano sentito come una scossa, un rumore sordo, poi avevano capito che la nave stava rallentando, che faceva strane manovre, che ruotava su sé stessa e tornava indietro. Chi guardava dal lato destro vedeva l’isola del Giglio vicinissima, e pensò che ci fosse qualcosa di strano, di sbagliato. Un comunicato dagli altoparlanti, però, rassicurò i passeggeri. Schettino aveva dato ordine di parlare solo di un blackout:
«Signore e signori attenzione, vi parlo a nome del comandante. Abbiamo avuto un problema tecnico ai generatori della nave. C’è stato un blackout…I tecnici stanno lavorando all’inconveniente… Mantenete la calma, la situazione è sotto controllo…».
I passeggeri si tranquillizzarono un po’, almeno molti di loro. In realtà la nave si stava inclinando sempre di più, e si capì presto che quel comunicato aveva mentito. In quei minuti, avrebbero testimoniato in seguito alcuni passeggeri, in alcuni ambienti si sentiva in filodiffusione la celebre colonna sonora del film Titanic, “My Heart Will Go On” di Celine Dion. L’equipaggio della Concordia, che si spostava da un punto all’altro della nave cercando di capirci qualcosa, continua a ripetere “stiamo risolvendo”. Schettino avrebbe dovuto dare ordine di infilare i giubbotti di salvataggio e di radunarsi nei punti prefissati. E poi, nel caso, avrebbe dovuto dare l’ordine di evacuazione.
A quel punto Schettino telefonò all’unità di crisi della Costa Crociere. Rispose il coordinatore Roberto Ferrarini. Il comandante, imprecando, diede la colpa a Mario Terenzio Palombo, dicendo che l’inchino era stato fatto per lui e che era stato lui a dirgli che ci si poteva avvicinare così tanto all’isola. Ferrarini poi, interrogato dai magistrati, disse che Schettino gli aveva proposto di mentire, di dire alle autorità che era andato contro gli scogli per colpa di un blackout. Dal canto suo Ferrarini, pur sapendo ciò che stava accadendo, non consigliò al comandante di dare l’ordine di evacuazione.
Intanto la nave si inclinava sempre di più: i passeggeri avevano capito che non si trattava di un semplice blackout, a bordo il caos era totale. Il frastuono di piatti, bottiglie e oggetti che si erano rovesciati era stato assordante. I più calmi si avvicinarono al punto di raccolta sul ponte 4, molti cercarono di individuare la scialuppa assegnata alla loro cabina. Una donna telefonò ai parenti che erano a casa, a Prato, che a loro volta chiamarono i carabinieri. Dalla stazione dei carabinieri di Prato partì una telefonata alla capitaneria di porto di Livorno che a sua volta, alle 22.12, si mise in contatto con la Concordia: «Cortesemente, avete dei problemi a bordo?». Era passata quasi mezz’ora dall’impatto.
La risposta fu l’ennesima negazione di quanto stava avvenendo: «Abbiamo un blackout, stiamo verificando le condizioni». L’ufficiale insistette, dicendo che aveva notizia di giubbotti di salvataggio indossati ma la risposta fu sempre la stessa: «È solo un blackout». Dalla nave dissero anche: «Rimaniamo in zona per capire il blackout», come se fosse possibile andare altrove.
Dai passeggeri continuavano intanto le telefonate ai carabinieri e alla polizia. Segnalavano che la nave era inclinata ma che nessuno stava dando loro indicazioni. I carabinieri dissero che la Guardia costiera era stata avvertita, chiesero se i passeggeri indossassero i giubbotti di salvataggio. La risposta fu: qualcuno sì, qualcuno no.
Intanto Schettino continuava con le telefonate all’unità di crisi della Costa Crociere per decidere cosa dire alle autorità. Dai ponti sottostanti gli ufficiali avvertivano che l’acqua stava salendo, e aveva invaso il ponte zero. Altri ufficiali in plancia fecero pressioni su Schettino perché lanciasse l’emergenza. Il segnale fu dato dagli altoparlanti alle 22.36, 50 minuti dopo l’urto: «Signore e signori recatevi al vostro punto di ritrovo sul ponte 4, eseguite le istruzioni del personale».
Non era però l’ordine di abbandonare la nave. Alcuni passeggeri furono fatti salire sulle scialuppe di salvataggio, ma poi furono fatti scendere. Schettino aspettava, sperava che la nave si appoggiasse sul fondale. Alle 22.51 Schettino prima disse «Chi me lo ha fatto fare?», e poi diede infine l’ordine di abbandonare la nave. L’ordine fu trasmesso alle 22.54 e 10 secondi, con almeno 50 minuti di ritardo dal momento in cui si era capito che la situazione era irrimediabile. Un’ora e dieci minuti dopo l’impatto con lo scoglio.
Chi era sul lato destro della nave vedeva l’acqua del mare sempre più vicina, chi era sul lato sinistro la osservava allontanarsi sempre di più. Su quel lato le scialuppe, man mano che la nave si inclinava, venivano calate con difficoltà sempre maggiori, i cavi si incagliavano, le barche sbattevano contro la fiancata e si fermavano senza aver raggiunto il mare. Di scialuppe ce n’erano molte, a sufficienza per tutti: il problema fu che non c’era nessuno che cercasse di mantenere l’ordine, che gestisse l’evacuazione con razionalità.
Nelle motivazioni della sentenza del processo, i magistrati scrissero che «parte dell’equipaggio destinato a incarichi chiave non conosceva i propri compiti in caso di emergenza». Le testimonianze parlarono di una bolgia: ci furono spintoni, pugni, calci per riuscire a salire su una scialuppa. La corsa per prendere i giubbotti di salvataggio fu un «tutti contro tutti», con donne tirate per i capelli e bambini spinti a terra.
Un gruppo di persone che era sul lato sinistro, dove le scialuppe non potevano più essere calate, cercò di spostarsi sul lato destro. Era un percorso difficile, in discesa: fu organizzata una catena umana, con i passeggeri che si reggevano come potevano ai corrimani. Ci furono altri scossoni, e 18 persone morirono cadendo nella zona allagata del ponte 4 o sparendo nel vano degli ascensori. Altre 13 persone si gettarono in mare o caddero dai ponti, sul lato destro, morendo annegate risucchiate dal gorgo prodotto dal rovesciamento della nave. Una passeggera affogò nella zona di poppa del ponte 3. La vittima più giovane aveva sei anni, la più anziana 86.
Molte lance di salvataggio rimasero bloccate sulle murate. Dal porto dell’isola del Giglio iniziarono intanto a partire le imbarcazioni private per raccogliere i naufraghi e portare soccorsi. Si posizionavano sul lato destro e i passeggeri saltarono a bordo dal ponte 3, praticamente al livello del mare. Arrivarono motovedette e traghetti, il pattugliatore della Guardia di Finanza Apruzzi alle 00.18 comunicò che la Costa Concordia stava per capovolgersi. Subito dopo passeggeri e membri dell’equipaggio che erano ancora a bordo iniziarono a lanciarsi in mare.
Poco dopo la mezzanotte il comandante Schettino salì su una scialuppa assieme ad altri ufficiali. Alle 00.32 fu raggiunto dalle telefonate in cui dalla capitaneria di Livorno il capitano di fregata Gregorio de Falco gli intimò di tornare sulla nave per coordinare le operazioni di evacuazione, pronunciando il celebre «vada a bordo, cazzo».
Schettino rispose che stava coordinando tutto da una lancia perché la nave era ormai impraticabile. Interrogato dai magistrati, il comandante avrebbe raccontato in seguito di aver abbandonato la plancia e di essere andato sul ponte 11 per vedere meglio ciò che stava succedendo. Disse di essere riuscito a malapena a schivare gli oggetti che gli volavano addosso e poi di aver raggiunto la sua cabina per prendere i registri di bordo. Dalla cabina, disse ancora, raggiunse con grandi difficoltà il lato destro della nave, semisommerso. Lì vide una lancia piena di persone che però era bloccata mentre un marinaio filippino cercava di disincagliarla. Disse di essersi fermato ad aiutarlo e di essere poi caduto sul tetto dell’imbarcazione. Spiegò che non aveva nemmeno il giubbotto di salvataggio perché «la mia vita in quel momento era distrutta, cioè a me non interessava il giubbotto, per me era finita».
Schettino ha scritto un libro, Le verità sommerse, in cui dà la sua versione dei fatti e parla di numerose omissioni ed errori che secondo lui causarono l’abbandono della nave. Accusò molti membri dell’equipaggio di non aver capito o recepito i suoi ordini e di non averlo informato opportunamente sulla gravità della situazione. Accusò l’unità di crisi della Costa Crociere dicendo che da Genova gli era stato intimato di non chiamare i rimorchiatori perché sarebbero costati troppo.
I naufraghi vennero portati in un primo punto di raccolta, in chiesa, poi negli alberghi. Molti abitanti aprirono le proprie case per dare aiuto. Schettino fu portato in taxi in albergo: l’autista disse poi che sembrava «un cane bastonato», e che chiese soltanto dove poteva comprare delle calze asciutte. Alle cinque del mattino le operazioni di evacuazione terminarono. Mancavano 32 persone. La ricerca dei corpi dei dispersi andò avanti a lungo: l’ultimo cadavere, quello di un marinaio indiano, fu trovato il 3 novembre 2014 sotto i mobili di una cabina del ponte 8.
Schettino fu arrestato nei giorni successivi al naufragio. Con lui vennero indagati altri ufficiali, il timoniere, il responsabile dell’unità di crisi di Costa Crociere, il presidente e il vicepresidente della società. Tutti, tranne il comandante Schettino, chiesero il rito abbreviato. Gli ufficiali subirono condanne relativamente lievi, al massimo di un anno e 11 mesi. Scrisse il giudice: «Per espressa previsione normativa che gerarchizza il rapporto tra i soggetti operanti nell’organizzazione medesima, le singole possibilità di intervento nell’ambito delle rispettive posizioni di responsabilità e garanzia, cedono il passo a fronte di scelte decisionali di segno differente e opposto adottate dal titolare del comando».
In pratica, fu stabilito che la responsabilità era di Schettino, e di nessun altro. Il timoniere Jacob Rusli Bin fu condannato a un anno e otto mesi. Roberto Ferrarini, responsabile dell’unità di crisi, fu condannato a due anni e dieci mesi. La posizione del presidente di Costa Crociere, Pierluigi Foschi, fu archiviata. Lasciò l’incarico di amministratore delegato della società il 1° luglio 2012.
Francesco Schettino fu condannato a 16 anni di reclusione per omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, naufragio colposo, abbandono della nave. Sta scontando la sua pena nel carcere di Rebibbia, a Roma. Dalla prigione fanno sapere che la sua condotta è esemplare.
Nel luglio del 2014 la Costa Concordia fu rimossa dal luogo del naufragio con un’operazione piuttosto complessa e riuscita perfettamente. Venne trasportata a Genova, dove il 7 luglio 2017 fu terminata l’opera di demolizione.
Un anno dopo il naufragio arrivarono alla Costa Concordia numerose richieste di poter acquistare le imbarcazioni di salvataggio usate nell’evacuazione del 13 gennaio 2012. Erano state ammassate, incustodite, dietro la spiaggia di Talamone. C’erano lance, tender, battelli, scialuppe. La Costa Crociere diede l’autorizzazione alla vendita vietando però di usare le imbarcazioni come cimeli e ordinando che dalla fiancata fosse rimosso il nome Costa Concordia.
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