I lockdown in Cina stanno mettendo ancora più in crisi i commerci globali
Le restrizioni hanno costretto diverse aziende a rallentare o a fermare del tutto la produzione, e le cose potrebbero peggiorare
La decisione del governo cinese di mettere intere città in lockdown dopo la scoperta di poche decine di casi positivi da coronavirus (la cosiddetta “strategia zero-Covid”) sta peggiorando una delle più grosse crisi emerse nel 2021: quella dei commerci globali, o più precisamente della “supply chain” (letteralmente “catena dell’approvvigionamento”). I lockdown, che stanno riguardando città da milioni di persone, hanno già provocato la chiusura o il rallentamento della produzione di aziende internazionali che hanno fabbriche in Cina, e hanno aggravato i ritardi delle spedizioni marittime, su cui si basa buona parte del commercio globale.
Finora la crisi della “supply chain”, dovuta in buona parte alla mancanza di beni prodotti in Cina, come i microchip nel settore elettronico, ha causato un aumento generale dei prezzi, portando nelle principali economie mondiali l’inflazione ai massimi da vari decenni.
Negli ultimi giorni, per esempio, l’azienda giapponese Toyota e la tedesca Volkswagen hanno dovuto interrompere la produzione nei propri impianti di Tianjin, una grande città a circa 100 chilometri da Pechino, dal cui porto passa circa l’1,7 per cento delle esportazioni cinesi. La decisione delle due aziende automobilistiche è stata presa dopo che domenica nella città era stato imposto un test di massa ai circa 15 milioni di abitanti.
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A differenza di altre grandi città, Tianjin non è stata messa in lockdown, ma il test di massa è stato deciso a causa di un focolaio in una scuola in cui sono stati rilevati due contagi dovuti alla variante omicron. Sempre a causa di un piccolo focolaio, Volkswagen ha interrotto la produzione anche in un altro impianto, a Ningbo, nella provincia dello Zhejiang.
La sudcoreana Samsung e la statunitense Micron, due tra le più importanti società al mondo che producono microchip, stanno invece avendo diversi problemi nelle loro fabbriche di Xi’an. Il lockdown imposto nella città ha infatti impedito in molti casi alle persone di andare al lavoro: le due aziende hanno quindi avuto rallentamenti nella produzione, anche se per ora non l’hanno interrotta.
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A Ningbo per alcuni giorni hanno chiuso invece gli impianti dello Shenzhou International Group, che fornisce materiale per grandi aziende di abbigliamento come Nike, Adidas e Uniqlo. Altre interruzioni potrebbero esserci nei prossimi giorni negli impianti di Foxconn, la grande società taiwanese che produce smartphone e altri dispositivi per conto di aziende come Apple, Samsung e Microsoft.
Una delle fabbriche più importanti è a Zhengzhou, capoluogo dello Henan, dove sono stati rilevati 103 contagi. Anche qui, come a Tianjin, non è stato imposto un lockdown generale, ma solo alcune restrizioni e un test di massa ai 10 milioni di abitanti.
C’è poi un altro problema che potrebbe peggiorare la situazione nelle prossime settimane, e che riguarda il sistema delle esportazioni.
Già adesso, a causa delle restrizioni, in alcuni importanti porti come quello di Ningbo si stanno registrando ritardi nelle spedizioni, e le cose potrebbero aggravarsi intorno al 1º febbraio, giorno del Capodanno cinese, quando di solito molte fabbriche chiudono per circa una settimana. Oltre che a rallentare la produzione, la chiusura delle fabbriche potrebbe causare un ulteriore intasamento dei porti che devono spedire i container con i prodotti cinesi nel resto del mondo.
Secondo Frederic Neumann, che si occupa di analisi economiche nel mercato asiatico per la holding bancaria HSBC, rispetto ai mesi passati la variante omicron potrebbe aggravare la crisi della “supply chain”, dato che in questi due anni di pandemia la centralità della Cina nei commerci mondiali è diventata ancora più significativa. La pandemia ha reso evidente quanto i consumi dei paesi occidentali dipendano dalla produzione cinese.
Secondo Neumann le restrizioni per la variante omicron nel prossimo futuro potrebbero creare un’enorme interruzione della catena di approvvigionamento, che lui ha definito «la madre di tutti i blocchi della “supply chain”».
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