La fissazione per il trauma in ogni storia
È diventato un tòpos letterario che tende ad appiattire trame e personaggi trasformandoli in stereotipi, sostiene il New Yorker
Nel 1924 la scrittrice Virginia Woolf affrontò nel saggio Mr Bennett e Mrs Brown il tema della costruzione e della struttura del romanzo, genere all’epoca considerato in declino a causa dell’incapacità degli autori e delle autrici di creare personaggi realistici. Woolf raccontò di aver a lungo osservato, durante un viaggio in treno da Richmond a Waterloo, una signora di oltre 60 anni seduta davanti a lei, chiamata signora Brown. Ne rimase affascinata, per la capacità di quella figura di evocare storie possibili e fare da spunto per un romanzo: «tutti i romanzi cominciano con una vecchia signora seduta in un angolo».
Immagini come quella della signora Brown, secondo Woolf, «costringono qualcuno a cominciare, quasi automaticamente, a scrivere un romanzo». Nel saggio Woolf provò ad analizzare le tecniche narrative utilizzate da tre noti scrittori inglesi dell’epoca – H. G. Wells, John Galsworthy e Arnold Bennett – per comprendere perché le convenzioni stilistiche dell’Ottocento risultassero ormai inadatte alla descrizione dei «caratteri» umani degli anni Venti.
In un lungo e commentato articolo del New Yorker, la critica letteraria e giornalista Parul Sehgal, a lungo caporedattrice dell’inserto culturale del New York Times dedicato alle recensioni di libri, ha provato a compiere un esercizio simile a quello di Woolf, chiedendosi come gli autori e le autrici di oggi tratterebbero la signora Brown. E ha immaginato che probabilmente quella figura non eserciterebbe su di loro una curiosità e un fascino legati alla sua incompletezza e al suo aspetto misterioso, ma con ogni probabilità trasmetterebbe loro l’indistinta e generica impressione di aver subìto un trauma.
Facendo riferimento non soltanto ai romanzi ma anche ai film, alle serie televisive e ad altri prodotti culturali della nostra epoca, il New Yorker si è chiesto se il trauma non sia diventato un cliché alla base di innumerevoli narrazioni stereotipate e incapaci di generare trame che siano sostanzialmente differenti le une dalle altre. Ciò che accomunerebbe quelle di film, serie e racconti attuali sarebbe il costante indirizzamento dell’attenzione e della curiosità del pubblico verso il passato dei personaggi, come se il presupposto di ciascuna di quelle storie fosse il danno psicologico subìto da ciascuno di essi.
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Per quanto riguarda i personaggi delle serie tv, Sehgal cita come esempi popolari e recenti il protagonista di Ted Lasso, la protagonista di Fleabag, Wanda Maximoff di WandaVision e Claire Underwood di House of Cards. Cita anche la protagonista di Chiamatemi Anna, recente adattamento di Netflix del romanzo Anna dai capelli rossi, che rivive attraverso una serie di flashback atti di violenza sessuale e di bullismo subiti quando era in orfanotrofio.
La predominanza del trauma come tòpos letterario e dispositivo alla base delle trame non dovrebbe sorprendere, secondo il New Yorker, tenendo conto di quanto questa nozione sia familiare anche fuori dall’universo della finzione letteraria. Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), noto in ambito medico fin dagli anni Ottanta e da Sehgal considerato la «tipica incarnazione clinica» del trauma, è la quarta malattia psichiatrica più diagnosticata negli Stati Uniti. Rispetto agli anni Ottanta, la definizione clinica è stata inoltre progressivamente estesa fino a comprendere oggi decine di migliaia di combinazioni possibili di sintomi riconducibili al PTSD.
Sehgal si è quindi chiesta in quali termini interpretare questa crescita delle diagnosi di PTSD, ipotizzando che ad aumentare non siano state le possibili cause di traumi nella vita moderna quanto la nostra capacità di individuarli e, in generale, la nostra attenzione alla «sofferenza umana in tutte le sue gradazioni». In «un mondo fissato con il vittimismo», il trauma sarebbe diventato una sorta di «status» distintivo.
A sostegno della tesi di una mutazione della percezione più che del vissuto delle persone, Sehgal fa riferimento all’evoluzione del rapporto del senso comune con i primi tipi di PTSD nel corso della storia. Cita il lavoro di John Eric Erichsen, chirurgo britannico della seconda metà dell’Ottocento, che individuò un insieme di sintomi particolari in alcuni passeggeri coinvolti in incidenti ferroviari, definendo la loro condizione sindrome della “colonna vertebrale ferroviaria” (railway spine). Quelle persone sostenevano di essere rimaste ferite pur non presentando prove evidenti di lesioni, e riferivano di provare stati di confusione, allucinazioni uditive e paralisi.
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Durante la Prima guerra mondiale, la condizione di alcuni soldati traumatizzati dall’esperienza dei bombardamenti e dei combattimenti in trincea – quella di Septimus Warren Smith, personaggio del romanzo La signora Dalloway della stessa Woolf – fu poi definita “shock da granate” (shell shock). All’epoca, ricorda Sehgal, quei soldati erano a volte etichettati come «invalidi morali» e processati dalle corti marziali. Fu soltanto a partire dalla Guerra del Vietnam e dallo studio delle condizioni dei reduci negli Stati Uniti che il trauma diventò un motivo di esteso interesse sociale e culturale, con l’introduzione del PTSD nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM).
Nella letteratura, l’attenzione al trauma corrispose a un incremento di interesse per la forma della «testimonianza» in ogni sua forma, interesse che dura ancora oggi. Tutto – autobiografie, racconti dei sopravvissuti, interviste nei talk show – ha contribuito a elevare il trauma «da segno di difetto morale a fonte di autorità morale, persino una sorta di competenza».
È probabile che la popolarità del trauma come fonte di storie abbia portato a un condizionamento dei termini stessi con cui descriviamo i traumi fuori dalla finzione letteraria. «Le parole che ci vengono sulla punta della lingua quando parliamo della nostra sofferenza sono sempre e soltanto nostre?», si chiede Sehgal. Forse no. E forse non è un caso, da questo punto di vista, che non esista una nozione di «flashback traumatico» precedente l’invenzione dei film, come se quell’espressione artistica avesse dato forma a una condizione clinicamente significativa ma priva di un nome specifico.
Per Sehgal, il personaggio di Jude del romanzo del 2015 Una vita come tante, scritto dall’americana di origini hawaiane Hanya Yanagihara, rappresenta il modello di estrema incarnazione del trauma. Abbandonato in un convento da neonato, Jude è poi stato vittima di violenze sessuali da parte dei frati, costretto a prostituirsi da ragazzo, rapito e torturato da un medico, prima di finire investito e subire danni permanenti alle gambe. La dimensione del trauma, secondo Sehgal, prevale su qualsiasi altra identità: «evacua la personalità e la ricostruisce a propria immagine», mentre il lettore è chiamato a partecipare come «testimone delle infinite mortificazioni di Jude».
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Solitamente i racconti che richiamano un trauma – anche quelli che non si spingono fino ai livelli di Una vita come tante – lo evocano seguendo uno stesso schema, e cioè promettendo al pubblico l’accesso a una qualche «camera insanguinata ben custodita», accesso che viene rimandato continuamente. Solo che man mano che lo schema diventava familiare al pubblico nel corso degli anni, sostiene il New Yorker, quella camera insanguinata ha finito per somigliare a una stanza generica e piuttosto anonima di un motel. Il trauma infantile di Ted Lasso svelato nella seconda stagione della serie, per esempio, appiattisce quella sua positività «quasi sinistra» rendendola un banale meccanismo di difesa.
Che la storia dei personaggi sia in buona sostanza diventata la storia di un trauma, secondo Sehgal, è un fenomeno con origini relativamente recenti. Lo scopo di molti dei personaggi dei romanzi di Woolf, di Jane Austen, di George Eliot o di Henry James, per esempio, non era colmare le lacune di ricordi parziali e per loro ossessivi: dal passato quei personaggi importavano soltanto i dettagli che potevano servire nel presente. E lo stesso valeva per molti personaggi del cinema classico hollywoodiano, che non erano tormentati da flashback, a differenza dei personaggi di oggi, continuamente «spediti nel passato in cerca di traumi».
L’attenzione al trauma come categoria e la tendenza letteraria a ricondurre ogni vissuto a una precedente esperienza traumatica, prosegue il New Yorker, hanno avuto tra le altre cose l’effetto di «appiattire» e omologare quelle esperienze, quando le narrazioni e le ricerche sui sopravvissuti e sulle persone che hanno subìto violenze indicano in verità una maggiore eterogeneità e complessità rispetto alla finzione. In contrasto con la narrazione letteraria tipica degli eventi traumatici, per esempio, alcuni studi inquadrano i traumi come eventi in grado in molti casi di generare non soltanto stress ma anche nuove prospettive individuali e cambiamenti psicologici positivi definiti “crescita post-traumatica” (Post-Traumatic Growth, PTG).
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Esistono inoltre numerosi esempi letterari di storie che, pur affrontando esperienze apertamente e massimamente traumatiche, definiscono caratteri complessi e non riconducibili unicamente al trauma vissuto. Sehgal fa l’esempio di Maus, il famoso e celebrato romanzo a fumetti dell’autore statunitense Art Spiegelman, pubblicato tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, che racconta la deportazione e lo sterminio degli ebrei attraverso i racconti del padre di Spiegelman, Vladek, sopravvissuto ai campi di concentramento. «Pensavo fosse stata la guerra a ridurlo così», dice Spiegelman di suo padre in un passaggio del romanzo rivolgendosi a sua madre Mala, la quale appoggiando i gomiti sul tavolo risponde: «Io sono stata nei campi. Tutti i nostri amici sono stati nei campi. Nessuno è come lui».
Sebbene i racconti incentrati su un trauma possano spesso essere facilmente schematizzati, conclude il New Yorker, non è detto che generino necessariamente storie in cui i caratteri siano ridotti a «sintomi». Il trauma può essere utilizzato soltanto come un inizio, come il primo gradino di una scala, in storie il cui centro e la cui fine sono poi da ricercare altrove. Allargando la prospettiva, è possibile per gli autori e per le autrici «uscire dal registro terapeutico per entrare in un registro generazionale, sociale e politico», come per esempio è avvenuto in anni recenti nella letteratura afroamericana delle statunitensi Toni Morrison, Yaa Gyasi e Saidiya Hartman.
Riprendendo l’esempio della signora Brown descritta da Woolf, Sehgal conclude che uno degli aspetti più potenti di quella immagine sia ciò che l’immagine non rivela, la parzialità della conoscenza che rende possibile. Ed è proprio la curiosità che suscita, l’elemento cruciale per la lettura. Le trame basate esclusivamente sul trauma, invece, «dimenticano i piaceri del non sapere, le dimensioni non scritte della sofferenza, le singolari spigolosità della personalità».