Cambiare nome alla schizofrenia può aiutare a superare lo stigma?
Alcuni paesi lo hanno fatto e in altri se ne sta discutendo, ma non tutti pensano che sia la soluzione al problema
A dicembre di quest’anno la rivista scientifica Schizophrenia Research ha pubblicato i risultati di un questionario sottoposto a più di un migliaio di persone per indagare su quanto sia percepita l’esigenza di cambiare nome alla schizofrenia per superare l’immaginario stigmatizzante che la accompagna. Il questionario ha ravvivato un dibattito già esistente: c’è chi ritiene che cambiare il nome alla malattia possa aiutare a superare i pregiudizi, e chi pensa che sia più utile investire in cure e terapie e fare un lavoro graduale di educazione.
Il termine “schizofrenia” deriva dal greco – schízein (scissione) e phrén (mente) – ed è tradotto in modo simile in tantissime lingue. Fu coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler nel 1908, per indicare una serie di sintomi accomunati dalla perdita di associazione tra funzioni psichiche come pensiero, memoria e affettività, che portano a disturbi nella strutturazione del pensiero, della dinamica affettiva e nel rapporto con l’ambiente circostante. Il termine sostituiva ed estendeva il concetto di dementia precox, secondo Bleuler non adatto a identificare le caratteristiche principali e più importanti del disturbo in questione, legate appunto alla dissociazione.
Le prime attestazioni dei sintomi successivamente associati al termine “schizofrenia” risalgono a migliaia di anni fa, e la definizione che ne diede la medicina moderna portò a classificarne le tipologie e a continuare a studiarle per sviluppare terapie. A livello culturale, però, il concetto di “schizofrenia” si è progressivamente legato a una serie di pregiudizi e immagini stigmatizzanti, fino a diventare, nel linguaggio comune, anche una forma di insulto. Come ha detto una paziente recentemente intervistata dal New York Times, «il termine schizofrenia non è evoluto allo stesso modo delle terapie».
Tra i pregiudizi più radicati nei confronti delle persone affette da schizofrenia c’è quello secondo cui sarebbero persone violente: si tende a pensare che chi soffre di schizofrenia sia un pericolo per gli altri, possa diventare improvvisamente e inaspettatamente manesco e vada per questo isolato e separato dalle altre persone. Lo si vede anche nei media, dice un’analisi al riguardo, sui quali le persone affette da schizofrenia vengono citate soprattutto come aggressori, quando è molto più frequente che siano loro stesse a subire violenza. Gli stessi comportamenti violenti, poi, hanno spesso cause eterogenee, e il modo in cui si manifesta il disturbo mentale resta molto diversificato e variabile da persona a persona.
Le conseguenze di questi pregiudizi hanno spesso un impatto diretto sulla salute mentale dei pazienti. Per questo da anni e in più paesi diverse associazioni di pazienti chiedono che venga cambiato il nome del disturbo, secondo loro irrimediabilmente associato a una connotazione negativa e ingiustificata. Propongono che venga scelta una definizione più neutra e descrittiva, come tra l’altro suggeriscono alcune linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità rispetto alle malattie in generale. In alcuni paesi asiatici è stato fatto: il Giappone è stato il primo, e nel 1997 ha chiamato la schizofrenia “disturbo di integrazione”, ma lo hanno fatto anche Corea del Sud, Taiwan e Hong Kong, con soluzioni simili.
Negli Stati Uniti, uno dei gruppi di pazienti che chiedono di cambiare il nome alla schizofrenia è stato oggetto del questionario pubblicato a dicembre da Schizophrenia Research, insieme a un ampio gruppo comprendente altri pazienti, i loro familiari, e numerosi esponenti della comunità scientifica, della politica e del pubblico generale. In totale sono state intervistate quasi 1.200 persone.
Nel questionario si chiedeva se si ritenesse necessario o meno cambiare il nome alla schizofrenia, e si proponevano nove alternative di nomi più neutri. Tra questi, “disturbo di percezione alterata”, “disturbo di sintonizzazione”, “sindrome di disconnessione”, “disturbo di integrazione” o “disturbo dello spettro della psicosi”. Altre ipotesi proposte da ricercatori favorevoli al cambio del nome sono espressioni come morbo o sindrome “di Bleuler”.
Secondo il 71 per cento delle persone intervistate il termine “schizofrenia” è stigmatizzante, e il 74 per cento si è detto favorevole a sceglierne uno nuovo, anche se nessuno di quelli proposti ha ottenuto una maggioranza netta di preferenze.
Se si decidesse di cambiare nome alla schizofrenia, negli Stati Uniti la decisione spetterebbe alla American Psychiatric Association, la più grande associazione psichiatrica al mondo, che col consenso dei propri esperti dovrebbe inserire il nuovo termine nel suo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (noto anche DSM). In passato è stato fatto – per esempio con alcune forme di disabilità e depressione – ma in questo caso sia la comunità scientifica che gli stessi pazienti sono ben lungi dall’essere d’accordo.
I pazienti che sostengono il cambio della nomenclatura ritengono che possa aiutare a superare i pregiudizi a cui sono sottoposti: «le persone sentono la parola “schizofrenia” e pensano “violento, amorale, sporco”», ha detto al New York Times Linda Larson, che dopo una diagnosi di schizofrenia e svariati tentativi di suicidio, anche grazie alle cure mediche è riuscita a convivere col proprio disturbo, diventando anche una poetessa. I medici, da parte loro, sostengono soprattutto che lo stigma sociale porti a un ritardo nella diagnosi e nelle cure mediche.
Raquelle Mesholam-Gately, psicologa dell’Università di Harvard che ha condotto lo studio sui risultati del questionario, dice infatti che a causa della percezione della malattia alcuni medici esitano nel comunicare le diagnosi, con un conseguente ritardo nell’inizio delle cure. Pur non essendo convinto sul fatto che cambiare il nome possa risolvere il problema, su questo concorda anche William Carpenter, psichiatra dell’Università del Maryland. Che lo stigma legato alla schizofrenia coinvolga anche le stesse strutture mediche che dovrebbero curarla, in generale, è stato oggetto di studi, e ce ne sono alcuni che dicono che nei paesi in cui è stato cambiato il nome alla schizofrenia le diagnosi sono aumentate e l’atteggiamento delle persone verso il disturbo è migliorato (lo studio ha comunque posizioni caute sull’utilità complessiva dell’operazione).
D’altra parte, chi è contrario a cambiare nome alla schizofrenia sostiene che sia un’operazione parzialmente inutile, se non dannosa. Alcuni pazienti temono per esempio che possa complicare le procedure per accedere alle coperture assicurative e agli assegni di invalidità; altri che possa portare a definizioni troppo ampie, col rischio di applicarle anche a persone che non soffrono di questo disturbo; altri pensano semplicemente che il termine “schizofrenia” sia ormai completamente radicato nella cultura e nel linguaggio comuni e non possa essere sostituito.
Lisa Dailey, direttrice del Treatment Advocacy Center, un’organizzazione non profit che si occupa di salute mentale, ha detto: «Il linguaggio è importante, ma il modo migliore per rimuovere lo stigma sulla schizofrenia è sviluppare terapie migliori per sempre più persone».
Per quanto riguarda la comunità scientifica, alcuni ritengono che cambiare l’immaginario collettivo della schizofrenia ed eradicare i pregiudizi e le discriminazioni ad essa legate debba essere un lavoro graduale, che non può prevedere soltanto il cambio del nome. Chi è contrario sostiene anche che cambiare nome alla schizofrenia sia un processo burocraticamente lungo e complesso, e che i risultati potenziali siano così limitati che non vale nemmeno la pena di affrontarlo.
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