Il traffico di reperti archeologici non si è mai fermato
Ogni anno i carabinieri scoprono scavi clandestini e recuperano oggetti destinati un tempo ai musei, ora alle collezioni private
di Stefano Nazzi
Lo scorso 30 dicembre, 201 reperti archeologici sottratti all’Italia negli anni passati ed esportati illegalmente negli Stati Uniti sono stati restituiti. Sono vasi dipinti, busti in marmo, sculture e oggetti di vario tipo. C’è anche una statua romana, intercettata dai doganieri americani, che era destinata alla villa dell’influencer Kim Kardashian a Hidden Hills, a Los Angeles. I reperti hanno un valore di circa 10 milioni di dollari e sono stati sequestrati dalle autorità americane durante una serie di indagini su acquisizioni illecite e vendite poco limpide.
Il traffico di reperti archeologici dall’Italia verso l’estero, soprattutto Stati Uniti, Medio ed Estremo Oriente, continua infatti ancora oggi, nonostante l’aumento dei controlli e la collaborazione tra le polizie dei vari paesi. Nel 2020 i carabinieri hanno individuato 24 scavi clandestini, concentrati quasi esclusivamente nelle regioni dell’Italia del Sud.
La restituzione dei reperti è avvenuta grazie a un accordo tra Italia e Stati Uniti. Molti dei manufatti provenivano dal museo d’arte romana, greca ed etrusca della Fordham University, una prestigiosa università di New York. Nelle sale del museo i reperti erano arrivati grazie alla donazione di un ex alunno e collezionista, William D. Walsh. Ha scritto in una nota il procuratore distrettuale di Manhattan, Cyrus R. Vance: «Per anni prestigiosi musei e collezionisti privati negli Stati Uniti hanno messo in mostra questi tesori storici italiani, anche se la loro stessa presenza in America costituiva una prova di crimini contro il patrimonio culturale».
Walsh aveva acquistato gran parte dei pezzi della sua collezione da un antiquario di Roma che ha vissuto per molti anni negli Stati Uniti, Edoardo Almagià, già processato in Italia nel 2013 con le accuse di ricettazione, esportazione illegale di beni e partecipazione ad associazione a delinquere finalizzata al traffico di tali beni. Fu poi assolto per avvenuta prescrizione.
Almagià ora è accusato, secondo il New York Times, di aver trasportato illegalmente nel corso degli anni centinaia di manufatti negli Stati Uniti. Il sito TGcom24 ha riportato le sue parole: «Ci sono migliaia di reperti che viaggiano per il mondo senza documenti e in passato è sempre stato così. Solo ora le normative italiane e americane sono diventate più stringenti». Nel 2013, nonostante l’assoluzione, il tribunale di Roma ordinò la confisca delle antichità appartenenti ad Almagià sequestrate a New York, Napoli, Roma e anche di quelle non ancora rinvenute. Il presidente del tribunale descrisse il mercante, secondo quanto scritto dal Sole 24 Ore, come «protagonista di quello che è stato uno dei più grandi saccheggi del patrimonio culturale italiano». Aggiunse che lui e i complici avevano «strappato le pagine del libro della storia italiana».
A cercare di rintracciare in tutto il mondo i reperti archeologici rubati nel corso di molti decenni all’Italia è soprattutto il Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri (TPC), che nel 2020 ha recuperato 17.503 reperti archeologici e 93 paletnologici (relativi cioè alle culture preistoriche).
Difficile fare una stima complessiva di quanti siano i beni archeologici usciti illegalmente dall’Italia. Da qualche anno i controlli si sono intensificati e la collaborazione tra i vari paesi è più solida, ma nei decenni passati molti musei e case d’aste agivano con spregiudicatezza acquistando da mercanti e intermediari reperti di grande valore senza chiederne la provenienza. Erano i tempi in cui uno dei più famosi musei del mondo, il Getty Museum di Los Angeles, veniva maliziosamente chiamato “il museo dei tombaroli”, cioè i cercatori abusivi di reperti che scavano nelle aree archeologiche, anche in quelle non ancor ufficialmente scoperte, per rubare beni antichi. Marion True, storica curatrice del Getty Museum, finì sotto processo in Italia per traffico di reperti rubati. Il processo si trascinò a lungo e finì con la prescrizione dei reati contestati.
A True le autorità italiane erano arrivate dopo l’arresto di Giacomo Medici, condannato nel 2004 a otto anni di reclusione e a una multa di 10 milioni di euro per occultamento di beni rubati, esportazioni illegali e traffico criminale di arte greca, romana ed etrusca. Nel suo magazzino a Ginevra, in un’area del porto franco dell’aeroporto, vennero trovate centinaia di antichità greche, romane ed etrusche, e poi migliaia di foto degli oggetti venduti e la fitta corrispondenza con antiquari e curatori dei musei di tutto il mondo.
Nella sentenza di primo grado il giudice Guglielmo Muntoni scrisse di come il materiale ritrovato provasse «che Medici avesse una rete di rapporti, diretti e indiretti, con tombaroli operativi in Italia (…) Molti reperti sono inoltre ritratti nel momento in cui vengono ricevuti da Medici ancora avvolti in giornali italiani». E inoltre: «L’archivio fotografico conservato con tanta cura da Medici fornisce prova documentale e obiettiva della gran parte dei fatti di ricettazione contestati, evidenziando come in Svizzera i reperti siano giunti freschi di scavi compiuti in Italia e come egli ne abbia curato il restauro per poi offrirli in vendita ovvero custodirli al porto franco o presso terzi in attesa di un acquirente».
La Svizzera, che a lungo non aderì alla Convenzione Unesco del 1970 contro il traffico illecito di beni culturali, è stata per anni un paradiso dei trafficanti internazionali di opere d’arte e di reperti archeologici, che potevano commercializzarli senza doversi eccessivamente preoccupare di accertarne e dimostrarne la provenienza.
«I reperti appena trovati in Italia lasciavano illegalmente il paese e finivano in Svizzera per poi essere venduti con calma», spiega Fabio Isman, giornalista e scrittore, autore di molti libri sull’argomento (l’ultimo, Quando l’arte va a ruba, è edito da Giunti). «I direttori dei musei sapevano tutto, erano ben coscienti di acquistare beni sottratti illegalmente all’Italia. I mercanti di reperti archeologici avevano contatti diretti con i curatori dei musei che ben sapevano con chi avevano a che fare».
Serena Epifani, archeologa e giornalista, direttrice del Journal of Cultural Heritage Crime che racconta con regolarità le operazioni di recupero portate a termine dalle forze di polizia italiane, dice che ora «la situazione è molto cambiata: i musei prima di acquistare un reperto antico fanno controlli accurati, deve essere certificata la provenienza legale, devono essere evidenziati tutti i passaggi dalla scoperta alla vendita». Eppure, il traffico e i tombaroli esistono ancora. «I beni rubati», dice ancora Epifani, «non vengono venduti più a musei ma circolano ancora in alcune case d’asta e spesso finiscono in collezioni private».
Il Comando dei carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale da una parte cerca di rintracciare i reperti portati via dall’Italia nei decenni passati, e dall’altra si impegna a prevenire o a bloccare nuovi scavi clandestini, che non si sono fermati neppure durante la pandemia. Ha scritto nella relazione del 2020 il generale Roberto Riccardi, a capo del comando dei carabinieri: «Chi vede i beni artistici come una fonte di illecito profitto non si è arreso all’emergenza. Non lo hanno fatto le filiere degli scavi clandestini, dei furti, dei falsi».
Nell’ottobre del 2020 a Rosolini, in provincia di Siracusa, i carabinieri hanno scoperto in un’area vicina alla strada provinciale per Modica una fattoria di età ellenistica che risale al III secolo avanti Cristo. Il terreno era stato affittato da una persona che aveva avviato una campagna di scavi clandestina appropriandosi di oltre 2mila reperti archeologici distribuiti su un’area di 500 metri quadrati. Secondo la legge italiana «Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato (…) le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo».
Il 7 dicembre a Pompei sono stati scoperti due tunnel scavati per arrivare a una domus romana situata sotto un campo privato. In tutta l’area è in corso da tempo un censimento, avviato dopo la firma di un protocollo tra la procura di Torre Annunziata e la direzione del parco archeologico di Pompei, per monitorare, come ha scritto il procuratore Nunzio Fragliasso, «i tanti siti di scavi archeologici clandestini presenti nel territorio di Pompei e in altre località limitrofe».
«Quello del tombarolo è il mestiere più antico del mondo» secondo Isman. «C’è sempre stato e ci sarà sempre perché sempre ci sarà chi vorrà mostrare un reperto archeologico nel salotto di casa. Oppure il collezionista che non si farà scrupoli e non chiederà nulla sulla provenienza di un determinato manufatto». I tombaroli sono la manovalanza della filiera del mercato illegale dei beni archeologici, che parte da chi effettua lo scavo clandestino, passa dal piccolo mercante d’area e arriva fino al grande trafficante internazionale. A volte i tombaroli sono ben consapevoli di cosa hanno per le mani, altre volte non sanno nulla del valore di ciò che hanno trovato.
Secondo ciò che riporta Storia Senza Voce del Centro Studi Criminologici, Giuridici e Sociologi, il cratere di Assteas, un grande vaso raffigurante il mito del rapimento di Europa da parte di Zeus sotto le sembianze di un toro, trovato nei pressi di Sant’Agata dei Goti, in provincia di Benevento, fu venduto negli anni Settanta per un milione di lire e un maialino. Il vaso finì poi al Getty Museum nel 1981, pagato tra i 380mila e i 500mila dollari. Ufficialmente proveniva da una collezione privata svizzera.
Molti anni dopo, durante la ricerca di beni archeologici rubati, i carabinieri trovarono una fotografia polaroid del cratere di Assteas tenuto in mano dall’uomo che lo aveva trovato. Si chiamava Antimo Cacciapuoti, era un operaio edile che disse di aver rinvenuto il reperto durante gli scavi della rete fognaria. Accettò di collaborare con i carabinieri e ricostruì le modalità della scoperta e della prima vendita. Il cratere fu riportato in Italia nel 2005 ed è ora esposto nel Museo archeologico del Sannio Caudino a Montesarchio, in provincia di Benevento. I figli di Cacciapuoti hanno raccontato che il padre, almeno una volta al mese fino al giorno della sua morte, andava al museo per ammirarlo.
Nel 1977 un gruppo di scavatori clandestini trovò nelle campagne di Ascoli Satriano, in provincia di Foggia, un oggetto unico al mondo: un Trapezophoros, e cioè “un sostegno di mensa” (un supporto usato durante i riti funebri) proveniente da una tomba risalente al IV secolo avanti Cristo. Il Trapezophoros raffigurava due grifi alati, con testa di drago e corpo da leone, impegnati a dilaniare un cerbiatto. Per farlo entrare nel baule dell’auto i tombaroli ruppero a martellate il reperto in tre punti. Grazie al pentimento di un membro della banda, i carabinieri riuscirono poi a ricostruire il viaggio del reperto che era finito al Getty Museum. Dal 2010 il Trapezophoros è rientrato in Italia ed è esposto nel museo di Ascoli Satriano.
Il cratere di Eufronio, rinvenuto durante scavi clandestini nei pressi di Cerveteri, vicino a Roma, nel 1970 fu venduto per 80 milioni di lire a un mercante dai cinque tombaroli che l’avevano trovato. Nel novembre del 1972 il Metropolitan Museum of Art di New York annunciò con enfasi una nuova acquisizione di grande pregio: era proprio il cratere di Eufronio, pagato un milione di dollari, la cifra più alta sborsata fino ad allora per un reperto archeologico. In lire italiane si trattava di più di un miliardo e 710 milioni. Fu il New York Times a mettere in dubbio la legittimità dell’acquisizione. Un’inchiesta seguì il tracciato del reperto dall’Italia alla Svizzera, poi a Parigi e infine a New York. Il museo non ammise mai di aver acquistato il cratere di Eufronio illegalmente, ma nel 2008 lo restituì all’Italia. Ora si trova nel museo di Cerveteri.
Secondo Isman fu la vicenda del cratere di Eufronio a creare uno spartiacque: «Prima gli scavi clandestini erano considerati un po’ come “artigianato disonesto”. Da allora si capì che con il commercio dei beni archeologici venduti illegalmente si potevano fare molti soldi. Non per niente dopo droga, armi e falsi quello dei beni culturali trafugati è il quarto mercato criminale più redditizio al mondo».
Dal ritrovamento fino alla vendita finale il prezzo di un reperto archeologico può moltiplicarsi varie volte. Secondo un’elaborazione della Camera di commercio sui dati Interpol, Arca e Arma dei Carabinieri, si stima che in Italia avvengano 55 furti al giorno, pari a circa 20mila opere all’anno, con un giro d’affari nel mercato dell’arte illegale “non tracciabile” che, a livello globale, vale 9,3 miliardi di euro. Solo il Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri dall’anno della sua nascita, nel 1969, ha recuperato più di 3 milioni di reperti trafugati.
«Fare una stima di tutto ciò che dall’Italia è stato portato all’estero nei decenni passati è praticamente impossibile» dice Epifani. «Certo che il mercato purtroppo è stato ed è fiorente in tutto il mondo». Una tale possibilità di fare tanto denaro e correndo pochi rischi non poteva sfuggire alla criminalità organizzata. In Calabria, Campania e Sicilia dietro alla manovalanza dei tombaroli ci sono infatti le organizzazioni criminali. Secondo le ricostruzioni degli investigatori, Matteo Messina Denaro, il più ricercato tra i boss mafiosi latitanti italiani, ha diversificato le sue attività anche con il commercio di opere d’arte e beni archeologici. Suo padre, Francesco Messina Denaro, detto don Ciccio, prima di diventare capo mandamento della sua famiglia nella zona di Castelvetrano, in provincia di Trapani, era proprio un tombarolo.
Nel 1962 fu don Ciccio a iniziare la famiglia al furto d’arte quando rubò dall’ufficio del sindaco di Castelvetrano l’Efebo di Selinunte, una statua greca di bronzo alta 85 centimetri. La statua fu recuperata mentre stava per essere venduta per 30 milioni di lire. Nel 1998 anche il figlio, Matteo, tentò un furto simile: voleva rubare il Satiro Danzante di Mazara del Vallo, che era appena stato recuperato da un peschereccio nel canale di Sicilia. Un pentito raccontò che l’intenzione era quella di rivendere poi la statua «attraverso collaudati canali svizzeri». Il piano poi sfumò.
Il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, autore della strage di Capaci, ha detto ai magistrati che don Ciccio trasmise al figlio Matteo l’amore per l’archeologia. Dalle indagini emerse un legame tra Messina Denaro e Gianfranco Becchina, mercante d’arte di Castelvetrano, processato per traffico illegale di reperti archeologici (fu lui, secondo le ricostruzioni, ad acquistare il cratere di Assteas). Il reato andò in prescrizione. Secondo il racconto di un pentito, Giusepe Grigoli, Becchina gli consegnò tra il 1999 e il 2006 diverse buste piene di soldi da far arrivare al cognato di Messina Denaro, che doveva poi consegnarle a sua volta al boss. Qualche anno prima Becchina aveva ospitato nella sua casa di Castelvetrano Jiri Frel, predecessore di Marion True nel ruolo di curatore del Getty Museum.
Due anni fa il Journal of Cultural Heritage Crime pubblico l’intervista di un giornalista con un tombarolo, che raccontò come si svolgeva la sua attività: concentrata dopo il tramonto, quando con i complici si recava in una zona individuata in precedenza «con picconi, pale, torce, martelli da carpentiere, taniche d’acqua e sonde a T». La sonda, lunga 160 centimetri, veniva infilata nel terreno mentre un complice ammorbidiva il suolo con l’acqua. Erano riusciti così a individuare una necropoli al solo battere della sonda nel sottosuolo. I residui tufacei rimasti incastrati nella parte a vite della sonda erano attribuibili a un impianto funerario di epoca romana, mentre le tracce marmoree suggerivano la presenza di una tomba di epoca ellenistica.
Dal tombarolo, e prima di arrivare al grande trafficante, i beni archeologici rinvenuti illegalmente passano solitamente per le mani di un piccolo trafficante. Ai primi di dicembre i carabinieri hanno esposto i risultati di un’indagine, l’operazione Taras, durata tre anni e che ha portato all’individuazione di più di 2mila reperti archeologici della Magna Grecia risalenti al periodo compreso tra il sesto e il secondo secolo avanti Cristo. Tredici persone sono indagate per associazione a delinquere, ricettazione, scavo clandestino e illecito impossessamento di reperti archeologici.
A capo dell’organizzazione, secondo i carabinieri, c’era un ex maestro elementare arrestato nei Paesi Bassi. L’uomo partiva da Taranto in treno portando con sé i manufatti da vendere, si fermava a Monaco di Baviera per una notte e poi proseguiva per Bruxelles. Era stato fermato una prima volta al Brennero con un’anfora e un’altra volta a Monaco con un elmo corinzio. A Bruxelles è stata trovata una base con oltre mille reperti. Molti oggetti partivano poi per Delft, nei Paesi Bassi, verso un laboratorio di restauro.
L’attività di recupero da parte delle forze dell’ordine avviene anche monitorando costantemente le attività su internet, sia su cataloghi d’asta sia su siti di settore o generici. Nel 2020 sono stati 798 i reperti archeologici di provenienza illecita messi in vendita online e recuperati.
Al rinvenimento di reperti sottratti all’Italia si arriva in molti modi, anche casualmente. Nel 2013 Dario Del Bufalo, architetto e collezionista romano, era a New York per presentare un suo libro, Porphyry, sulla roccia rosso-viola utilizzata dagli imperatori romani. Nel libro c’era anche una foto del mosaico che una volta faceva parte del pavimento di una nave “da festa” commissionata da Caligola per galleggiare sul lago di Nemi, vicino a Roma, e affondata quando l’imperatore fu ucciso. Il mosaico era stato rinvenuto nel lago, ma poi durante la Seconda guerra mondiale se ne erano perse le tracce.
Secondo quanto raccontò il Guardian, mentre Del Bufalo firmava le sue copie sentì un uomo dire a una donna che quello che stava guardando era il mosaico usato come tavolino da caffè nel suo appartamento a New York. Helen Fioratti, commerciante d’arte, e suo marito, un giornalista italiano, raccontarono poi in un’intervista rilasciata al New York Times che avevano acquistato il mosaico da una famiglia nobile italiana negli anni Sessanta. «È stato un acquisto innocente», disse Fioratti al New York Times. «Era la nostra cosa preferita e l’abbiamo avuta per 45 anni». Quest’anno il mosaico è tornato in Italia, ora è esposto al Museo delle Navi Romane di Nemi.
Per contrastare il furto di reperti archeologici e più in generale di beni culturali è in attesa di essere approvato un disegno di legge che prevede tra l’altro un inasprimento delle pene. «L’Italia», dice Isman, «è l’unico paese che non ha modificato la propria legislazione. È assurdo, si rischia di più a rubare un paio di jeans che a portare via un reperto antico».
La proposta di legge prevede pene da 2 a 8 anni per il furto, da uno a 4 anni per l’appropriazione indebita, da 3 a 12 per la ricettazione, da 5 a 14 anni per il riciclaggio e da 10 a 18 anni per la devastazione e il saccheggio. Introduce poi la illecita detenzione, punita con la reclusione da 6 mesi a 5 anni, e la contravvenzione (con arresto fino a 2 anni) per il possesso ingiustificato di metal detector o di sonde in aree archeologiche. Il ddl prevede anche che sia consentito il ricorso ad agenti infiltrati. Saranno possibili dunque operazioni sotto copertura, che ora invece non si possono organizzare. In pratica carabinieri e poliziotti potranno fingersi compratori per avvicinare i trafficanti. Il ddl è stato approvato alla Camera il 18 ottobre 2018, approvato con modificazioni dal Senato il 14 dicembre 2021 e tornato alla Camera il 20 dicembre 2021. L’esame non è ancora iniziato.