La scrittrice che si è rovinata la vita cercando di dimostrare l’innocenza di un uomo
La storia notevole di Sara Gruen, che ha scritto “Acqua agli elefanti”, e del suo tentativo di riaprire un caso di quasi 40 anni fa
Tra il 2006 e il 2007 la scrittrice canadese-americana Sara Gruen ottenne un grande successo internazionale grazie al suo terzo romanzo, Acqua agli elefanti (Water for Elephants), che parla di un circo itinerante negli anni Trenta e che vendette più di 10 milioni di copie in tutto il mondo. Nel 2021, a 52 anni, Gruen si è definita però «completamente al verde», «seriamente malata» e «indietro di anni» sul termine per la consegna del suo nuovo libro: tra le altre cose, ha ipotecato la casa e ricevuto minacce di morte che l’hanno portata a lasciare la sua famiglia per mesi.
Per Gruen le cose iniziarono ad andare male nel 2015, quando si convinse di potere e dovere dimostrare l’innocenza di Charles ‘Chuck’ Murdoch, un uomo condannato all’ergastolo in California che le aveva scritto una lettera dopo aver letto il suo romanzo. In un lungo articolo pubblicato lo scorso marzo su The Marshall Project – un’organizzazione non profit di giornalismo che si occupa di questioni relative alla giustizia negli Stati Uniti – la giornalista Abbott Kahler, sua amica, ha descritto il tormento, le paranoie e tutto quello che Gruen è arrivata a fare per cercare di provare l’innocenza di Murdoch, anche a scapito della propria salute.
Nel 2015 Gruen aveva appena pubblicato il suo quinto romanzo e viveva da qualche anno nel North Carolina assieme al marito Bob, a uno dei tre figli e a vari animali, tra cui capre e cavalli.
Dopo il grande successo di Acqua agli elefanti, che aveva ispirato un film con Reese Witherspoon e Robert Pattinson (ed era stato pubblicato anche in Italia nel 2011), Gruen iniziò a ricevere decine di lettere da parte di vari fan. Ne ricevette una anche da Murdoch, che la colpì particolarmente perché diceva che quando era piccolo suo nonno gli raccontava di aver fatto parte di un circo itinerante assieme alla sua giovane moglie Lottie, un’acrobata: e Gruen aveva effettivamente fatto ricerche sulla vita di un’acrobata chiamata Lottie per costruire la protagonista del proprio romanzo.
Nella lettera Murdoch raccontava di essere stato condannato all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale per una rapina con omicidio del 1983, ma sosteneva di essere innocente e che anche un giudice della Corte d’Appello competente avesse definito la sua «condanna (ingiusta) ‘un clamoroso errore giudiziario’».
Gruen cercò online qualche informazione in più sul suo caso, scoprendo che la sentenza si era basata su una confessione forzata, su prove insabbiate e su testimoni poco affidabili.
Lei e Murdoch cominciarono a scriversi molto spesso e a raccontarsi le storie delle rispettive vite: ma soprattutto, come ha detto Bob Gruen, il marito di Sara, sua moglie si convinse di poter usare la propria immagine pubblica per far rivedere la decisione della condanna: «Fu subito ovvio che questo non sarebbe accaduto», ha detto Bob a Kahler, che ha seguito le sue vicende negli ultimi anni.
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Murdoch era cresciuto a Long Beach, in California, dove negli anni Ottanta era conosciuto come il “Baskin-Robbins Bandit” per via delle sue rapine nelle gelaterie della zona (Baskin-Robbins è una multinazionale americana che produce gelati). Rapinava le gelaterie con una pistola calibro 38 che a suo dire non era mai stata carica e sceglieva i negozi dove lavoravano studenti per evitare grossi problemi, chiedendo sempre un cono gelato prima di andare via.
Nel 1994 però fu implicato in una rapina in un locale di Long Beach che risaliva a oltre dieci anni prima e alla quale lui disse di non aver mai partecipato.
Nella rapina, compiuta il 17 maggio del 1983, un cliente del locale fu ucciso e un altro accoltellato. Anni più tardi le analisi del DNA, che non erano disponibili all’epoca dei fatti, permisero di individuare sul registratore di cassa alcune impronte digitali riconducibili a Dino Dinardo, un amico del fratello maggiore di Murdoch, che nel 1994 fu arrestato assieme a Murdoch e giudicato in un processo separato. Dinardo ottenne uno sconto di pena per aver indicato Murdoch come principale responsabile della rapina, ma in una lettera privata scritta al proprio avvocato disse di essere stato costretto a farlo dalla polizia, che gli aveva promesso una pena più lieve in cambio di collaborazione per incastrarlo: Murdoch infatti era un rapinatore noto e le prove per condannarlo facevano comodo.
Dinardo, che conosceva Murdoch solo di vista, diventò così il testimone chiave nel caso assieme a una delle bariste del locale, che inizialmente non aveva riconosciuto Murdoch nella foto segnaletica che le era stata mostrata subito dopo la rapina, e che però nel 1994 disse di essere sicura che fosse lui il rapinatore. La giuria inoltre non sapeva dell’esistenza della lettera in cui Dinardo diceva di essere stato costretto dalla polizia a indicare Murdoch, che così fu condannato definitivamente.
Quando Gruen ricevette la prima lettera di Murdoch, la Corte d’Appello della California aveva già confermato la sua condanna definitiva e la Corte Suprema dello stato aveva respinto una successiva richiesta di riaprire il caso. Nel frattempo, lui era stato incriminato anche per possesso di armi pericolose per via di un accoltellamento avvenuto in carcere, perché a suo dire si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Mentre i due continuavano a scriversi – lui le mandava poesie e biglietti di auguri, spesso decorando le lettere con disegni di fiori e animali; lei gli raccontava delle sue idee per i prossimi romanzi e gli confidava di aver vissuto in strada quando aveva 15 anni –, Gruen decise di contattare un avvocato per provare a dimostrare la sua innocenza. Una delle sue tesi in favore dell’innocenza di Murdoch era che lui si era sempre dichiarato colpevole dei reati che aveva commesso, ma non l’aveva fatto per la rapina del 1983.
Kahler ha descritto Gruen come «estremamente competitiva, assolutamente ostinata e straordinariamente ossessionata dal raggiungimento dei propri obiettivi»: secondo lei, per Gruen liberare Murdoch era diventata una sfida.
Gruen andò a trovare Murdoch per la prima volta nel novembre del 2015: lui aveva 57 anni, un tutore al ginocchio e camminava con un bastone. Oltre alla parcella dell’avvocato, stimata attorno ai 78mila dollari, si offrì di pagargli una risonanza magnetica per dimostrare che non avrebbe potuto muoversi agilmente e aggredire qualcuno. Al contempo, trasformò il suo ufficio in un archivio di documenti, articoli di giornale e presunte prove che secondo lei avrebbero potuto scagionarlo, lasciando indietro il lavoro di scrittrice e iniziando a far preoccupare famiglia e amici.
Col passare del tempo però Gruen si accorse che le spese legali stavano aumentando e i suoi sforzi per far scagionare Murdoch non stavano portando a niente. Licenziò l’avvocato che aveva assunto – che raccontò a Kahler di aver risposto a qualcosa come 500 mail di Gruen, che arrivavano a tutte le ore del giorno e della notte – e si rivolse a un nuovo team di esperti legali di altissimo livello, accettando di pagare una parcella da 20mila dollari al mese.
Con l’aiuto dei nuovi esperti, Murdoch riuscì a patteggiare la causa per possesso di armi pericolose. L’obiettivo di Gruen però rimaneva quello di scagionare Murdoch dalla condanna per la rapina del 1983, malgrado il caso fosse chiuso da tempo: così le indagini sul caso di Murdoch, che secondo il marito intanto si era innamorato di lei, divennero il suo lavoro principale.
Nel giro di pochi mesi Gruen arrivò a spendere più di 250mila dollari e dovette ipotecare la casa (il marito, di 25 anni più grande di lei, era in pensione, e i suoi due figli più grandi erano già all’università).
Intanto cominciò anche a soffrire di capogiri legati allo stress, ma nonostante i debiti e i problemi di salute continuò a lavorare al caso di Murdoch. A un certo punto mandò anche un video a Phil McGraw, psicologo e conduttore del popolarissimo talk show americano Dr Phil, pregandolo di fare qualcosa e dicendo che «se mai ci fosse stata una situazione davvero rotta e da sistemare era quella».
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Gruen provò a rintracciare Dinardo (che era tornato libero da tempo) e persone della sua famiglia aprendo profili fasulli su Facebook. Cercò anche la barista del locale dove era stata compiuta la rapina, sperando di poterla convincere a ritrattare la sua testimonianza: scoprì però che viveva da tempo in una clinica psichiatrica dell’Arizona, dove era stata ricoverata per episodi psicotici e disturbo schizoaffettivo, problemi che causano alterazioni nella percezione o nell’interpretazione della realtà.
Secondo Gruen non poteva essere considerata attendibile nemmeno la testimonianza dell’uomo che era stato accoltellato nel locale, che disse di essere stato talmente ubriaco da non ricordarsi nemmeno di essere stato accoltellato.
Nel dicembre del 2016, per recuperare parte dei soldi che aveva investito nelle parcelle legali e per cercare nuove prove, Gruen spese oltre 23mila dollari per comprare 156 esemplari di un giocattolo molto richiesto per Natale con l’obiettivo di rivenderli su eBay a un prezzo più alto di quello a cui li aveva acquistati. In un lungo post su Facebook spiegò di averlo fatto dopo aver passato «quasi due anni a lottare per un uomo che aveva trascorso gli ultimi 23 anni in carcere per un reato che non aveva commesso e che non era stato neanche lontanamente sottoposto a un processo giusto». Alla fine riuscì a recuperare i soldi spesi e guadagnarci 6mila euro.
La sua storia finì sui giornali e lei fu ampiamente criticata e “accusata” di volersi arricchire; alcune persone lanciarono appelli per boicottare i suoi libri e ricevette anche minacce di morte e di stupro. «Vorrei soltanto indietro la mia vita», disse a Kahler in quel periodo. Allo stesso tempo si era convinta che il caso su cui stava indagando fosse «molto più grande di quello che aveva immaginato».
Hatchimals scheme 'ruins' novelist Sara Gruen and angers Christmas shoppers https://t.co/MsyKHusAmp
— The Guardian (@guardian) December 8, 2016
Gli insulti e le minacce che aveva ricevuto la spinsero a non avere fiducia di nessuno e a temere per la sua sicurezza e quella della sua famiglia. Si convinse di essere intercettata al telefono e che qualcuno la seguisse ogni qual volta andasse a trovare Murdoch.
A un certo punto fu contattata sui social network da un tizio che diceva di avere informazioni sulla persona che era stata accoltellata in carcere, e pensò che qualcuno si volesse vendicare dell’aiuto che aveva dato a Murdoch: comprò una pistola finta e un cane da guardia, e montò delle telecamere di videosorveglianza all’esterno della casa, che aveva già una recinzione elettrificata per allontanare eventuali intrusi.
Non disse nulla a Murdoch per evitare di aggravare la sua posizione in carcere, ma dopo aver ricevuto strani pacchi a casa decise di trasferirsi temporaneamente in un appartamento che aveva comprato per il padre. Nonostante volesse far conoscere la storia della condanna che riteneva ingiusta a quante più persone possibili, rifiutò l’offerta di una società di produzione che voleva girare un documentario sulla vicenda per paura di complicare ulteriormente la situazione e per evitare che il pubblico potesse pensare che tra lei e Murdoch ci fosse una relazione sentimentale.
Una volta rientrata a casa sua, nel periodo natalizio del 2017, soffrì di una perdita temporanea della memoria. Quando Murdoch le inoltrò una lettera minatoria che aveva ricevuto in carcere, e che aveva il nome e cognome di lei come mittente, andò nuovamente via di casa. Utilizzò un’identità fittizia e cambiò sei appartamenti in cinque mesi, rimanendo sempre a circa 500 miglia da casa: usciva solo per far passeggiare il cane che aveva portato con sé, e per non farsi trovare indossava delle parrucche e condivideva informazioni false sui social network.
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Alla fine del 2018 gli avvocati la convinsero che dovesse essere lei a parlare col procuratore distrettuale per provare a far riaprire il caso di Murdoch. Gruen tornò a casa e preparò un dossier di 50 pagine in cui illustrava le conclusioni a cui era arrivata grazie alle indagini che aveva svolto negli ultimi tre anni e spiegava tutto quello che aveva passato per arrivarci.
Nel frattempo però le sue condizioni di salute si erano deteriorate. I capogiri erano tornati, iniziò a soffrire di emicrania e in più prese l’influenza e poi la polmonite.
All’inizio del 2019 Gruen non riusciva a mangiare o se ne dimenticava: era arrivata a pesare 43 chili, sveniva tutti i giorni e aveva sempre la pressione bassissima, ha raccontato Kahler. Non riusciva a lavorare e passava le giornate sdraiata in una stanza al buio per evitare di vomitare gli antibiotici, in una situazione che lei stessa descrisse come «assolutamente terrificante». Quando Kahler andò a trovarla, nell’agosto del 2019, Gruen «praticamente non c’era».
Secondo la figlia del primo matrimonio del marito, che fa la veterinaria alla North Carolina State University, i problemi di salute di Gruen potrebbero essere collegati almeno in parte a un’infezione trasmessa da un gatto che l’aveva graffiata quando aveva 11 anni, a causa di un batterio che può provocare vari problemi di salute anche dopo molti anni, specialmente in condizioni di forte stress e vulnerabilità.
A ogni modo, secondo Kahler, dal 2016 Gruen è in «uno stato costante di emergenza» che ha «quasi completamente rovinato la sua vita»: al momento in cui veniva pubblicato il suo articolo, non usciva di casa da circa tre anni e le sue condizioni restavano precarie.
Nell’autunno del 2020, dopo moltissimi tentativi diversi, gli avvocati che avevano collaborato con lei erano riusciti a incontrare la commissione della contea di Los Angeles che si occupa di rivedere i casi chiusi e archiviati. Lei non era riuscita ad andare, ma al suo posto c’era il marito. Gruen non condivide notizie su Facebook dalla fine del 2017 e il suo ultimo commento su Twitter risale alla fine del 2019. Dall’articolo dello scorso marzo non si hanno notizie su di lei e non si sa nulla neanche dell’eventuale riapertura del caso di Murdoch.