Omicron sembra infettare meno i polmoni
E questo potrebbe spiegare almeno in parte perché in molti casi la variante causi sintomi più lievi, dicono le prime ricerche
Dall’identificazione della variante omicron nell’Africa meridionale alla fine di novembre, numerosi gruppi di ricerca in giro per il mondo hanno raccolto campioni e fatto esperimenti di laboratorio per valutare l’entità dei sintomi che causa e metterla a confronto con quelli dovuti ad altre varianti. Le analisi svolte finora, che richiederanno ulteriori approfondimenti, sembrano confermare quanto osservato in diversi paesi, fuori dai laboratori: omicron ha la capacità di diffondersi molto più velocemente rispetto alle precedenti varianti, ma sembra causare per lo più sintomi lievi, con minori rischi di sviluppare seri problemi respiratori a carico dei polmoni.
In generale, le infezioni da coronavirus iniziano nel naso e si diffondono poi verso la gola, causando per lo più un’infiammazione della parte alta del tratto respiratorio. Nei soggetti più a rischio, perché anziani o con particolari predisposizioni, l’infezione può proseguire verso il resto del sistema respiratorio, causando seri danni ai polmoni.
L’arrivo del coronavirus nei polmoni può portare a una reazione eccessiva da parte del sistema immunitario, che causa forti infiammazioni attaccando non solo le cellule infette, ma anche quelle sane. Questo processo danneggia il tessuto polmonare, portando alla formazione di cicatrici che rendono meno efficienti i polmoni nella respirazione. In queste condizioni, il coronavirus può inoltre finire più facilmente nella circolazione sanguigna, andando a causare danni in altre parti del corpo.
Un gruppo di ricerca dell’Università di Glasgow, in Scozia, ha notato che una particolare proteina (TMPRSS2) – presente sulla superficie delle cellule che costituiscono i polmoni e che può aiutare il coronavirus a eludere le difese cellulari – non interagisce facilmente con la variante omicron. L’ipotesi, condivisa da altri centri di ricerca, è che questa sia una delle cause alla base del minor numero di infezioni a livello polmonare rispetto ad altre varianti, come la delta. Nella parte alta dell’apparato respiratorio, i coronavirus riescono ad aggirare le difese delle cellule con maggiore facilità, anche in assenza della proteina.
Per la variante omicron, il vantaggio evolutivo nell’essere presente soprattutto nel naso e nella gola è la possibilità di diffondersi più facilmente, poiché una parte consistente delle particelle virali viene emessa quando l’infezione riguarda il tratto superiore del sistema respiratorio. Queste ipotesi devono però ricevere ancora conferme e spiegano solo parzialmente la grande velocità di diffusione della variante, la più rapida finora osservata in numerosi paesi.
La scorsa settimana, una collaborazione di ricerca internazionale che ha coinvolto laboratori negli Stati Uniti e in Giappone ha diffuso uno studio sui primi esperimenti con omicron, condotti su criceti e topi. Gli animali sono stati infettati con la variante o con versioni precedenti del coronavirus, già studiate. Nella maggior parte dei test, criceti e topi hanno mostrato di sviluppare con minore frequenza problemi polmonari e perdita di peso, con una minore incidenza dei decessi rispetto ad altre varianti.
I gruppi di ricerca hanno nel complesso rilevato sintomi più lievi, anche in una particolare specie di criceto (criceto dorato, Mesocricetus auratus), nota per ammalarsi gravemente nel caso di esposizione al coronavirus.
Altri studi hanno portato a risultati simili, facendo rilevare una carica virale da omicron nel naso dei criceti paragonabile a quella riscontrata con altre varianti, i livelli erano invece fino a un decimo più bassi nei polmoni. I test di laboratorio sembrano quindi confermare una minore aggressività della omicron a livello dei polmoni, ma è bene ricordare che saranno necessarie altre verifiche e che criceti ed esseri umani hanno non poche differenze.
Consapevole della necessità di verificare sui tessuti umani gli effetti della nuova variante, un gruppo di ricerca dell’Università di Hong Kong ha utilizzato una dozzina di campioni prelevati da polmoni umani sufficientemente esposti ad alcune varianti. È emersa una velocità di crescita più lenta di omicron rispetto a delta e altre varianti. Anche in questo caso saranno necessari altri studi, dedicati anche all’analisi di ciò che avviene fuori dai laboratori, con tutte le difficoltà del caso dovute alle maggiore variabili da tenere in considerazione.
Tra fine novembre e inizio dicembre, quando omicron si stava diffondendo soprattutto nel Sudafrica, le prime esperienze cliniche (quindi dall’analisi sulle persone ricoverate o comunque sotto sorveglianza sanitaria) avevano già indicato sintomi più lievi di omicron rispetto ad altre varianti, con minori ricoveri. I dati erano però pochi e non era nemmeno chiaro se la circostanza fosse dovuta alle caratteristiche del virus o al fatto che la maggior parte degli individui fosse giovane e immunizzata, o tramite vaccinazione o con più frequenza in seguito a una precedente infezione.
Anche se meno aggressiva, una variante molto contagiosa può causare un numero più alto di casi gravi, perché in termini assoluti si ammalano molte più persone ed è quindi inevitabile che aumentino anche quelle che presentano sintomi importanti e tali da avere necessità di assistenza medica e un ricovero in ospedale. Il problema riguarda naturalmente anche il personale sanitario: un maggior numero di medici, infermieri e altri operatori infetti riduce gli organici, mettendo ulteriormente sotto pressione i sistemi sanitari.
I dati dicono che in generale le persone che hanno ricevuto il richiamo (cioè la terza dose o la seconda per chi era stato vaccinato con Johnson & Johnson) sono più protette rispetto a chi ha ricevuto soltanto la seconda dose e molto di più rispetto a chi non è vaccinato.