Il Movimento 5 Stelle è allo sbando
Nello stesso giorno ha espresso tre posizioni diverse sul nuovo presidente della Repubblica, sintomo di alcune note difficoltà che restano irrisolte
Lunedì, a circa tre settimane dal momento in cui potrebbe risultare decisivo nell’elezione del presidente della Repubblica, il Movimento 5 Stelle ha preso tre posizioni diverse su quella che probabilmente sarà la sua decisione politica più rilevante da qui alla fine della legislatura.
Nel pomeriggio il leader del partito, Giuseppe Conte, aveva fatto trapelare ai giornali di non avere «alcun veto o pregiudizio» nei confronti dell’attuale presidente del Consiglio, Mario Draghi. Poche ore dopo l’assemblea dei senatori del Movimento ha però approvato una mozione per chiedere la rielezione dell’attuale presidente, Sergio Mattarella. In mattinata il ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli, uno dei più in vista della delegazione governativa del partito, ha invece auspicato parlando col Piccolo che Draghi rimanga presidente del Consiglio e sostenuto sia «giunta l’ora di un profilo femminile».
Le tre prese di posizione diverse nel giro di poche ore riflettono la confusione che da mesi esiste all’interno del partito, che siede al governo ininterrottamente da quasi quattro anni e che ancora oggi controlla la delegazione parlamentare più numerosa, dopo avere stravinto le elezioni politiche del 2018.
Neanche l’elezione a leader di Giuseppe Conte, arrivata ad agosto dopo grandissime tensioni e polemiche che avevano coinvolto direttamente anche il fondatore Beppe Grillo, è riuscita a garantire un po’ di stabilità al partito, e forse l’ha addirittura reso ancora più disunito. «Nel 2018 i Cinque stelle hanno avuto la possibilità di svoltare, ma con il loro 33 per cento ci hanno fatto il brodo», ha sintetizzato di recente Aldo Giannuli, politologo e fino a pochi anni fa vicinissimo a Beppe Grillo, fondatore del Movimento. «Adesso forse c’è la conclamazione della chiusura di un’epoca, ma il vero problema è che non si apre un’altra fase», ha spiegato allo HuffPost.
Dall’inizio della legislatura ad oggi il Movimento 5 Stelle ha appoggiato un governo con la Lega e uno col Partito Democratico e i partiti di sinistra, e oggi è fra i principali sostenitori del governo di coalizione guidato da Draghi. I continui ribaltamenti hanno alienato un elettorato assai composito – che nel frattempo si è molto rimpicciolito – e alimentato tensioni interne fra i gruppi parlamentari del partito, che fin dalla sua fondazione rivendica di non avere un meccanismo centrale di selezione della classe dirigente. Dal 2018 a oggi il M5S ha perso un centinaio fra deputati e senatori, praticamente uno su tre fra quelli eletti.
L’elezione di Conte era stata celebrata come l’occasione per un rilancio del partito, ma finora non ha portato le conseguenze sperate, nonostante secondo i sondaggi Conte rimanga uno dei politici col consenso più alto in Italia.
Oggi Conte ha una presa quasi inesistente sui parlamentari del M5S – non siede in Parlamento e come durante la sua esperienza da presidente del Consiglio si circonda di pochi fidati collaboratori e alleati – e non è riuscito a dare al programma politico del Movimento 5 Stelle una forma coerente. Nel frattempo ha promosso una scelta simbolica e dolorosa che però non ha avuto conseguenze concrete.
A novembre il partito aveva infatti deciso di incassare il 2 per mille attraverso le dichiarazioni dei redditi dei cittadini, nonostante sia stato a lungo contrario a ogni forma di sostegno pubblico dei partiti. La decisione aveva provocato dei malumori nello zoccolo duro della base elettorale del partito, ancora molto legata ai principi antisistema delle origini. Pochi giorni fa però si è saputo che è stato tutto inutile: il M5S non potrà ricevere alcun fondo perché non è iscritto al registro nazionale dei partiti, come stabilito da una legge del 2013.
Sull’altra grossa questione di cui nel M5S si discute da anni, la possibilità di superare il limite di due mandati imposto dal regolamento interno del partito, Conte non si è ancora espresso con chiarezza. Sarebbe a sua volta una grossa contraddizione rispetto ai valori su cui si era fondato il partito, ma sempre più militanti la considerano necessaria per conservare una dirigenza che include tra gli altri Luigi Di Maio, probabilmente l’esponente più popolare del M5S insieme a Conte.
– Leggi anche: Il Movimento 5 Stelle non potrà ricevere i soldi del 2 per mille
Il fatto che Conte non riesca a controllare le molte fazioni del suo partito è stato evidente fin dai primi giorni della sua elezione. Le trattative interne per nominare dei vicepresidenti del partito erano durate settimane e si erano concluse soltanto a dicembre con la nomina di ben cinque vicepresidenti. A novembre Conte non era nemmeno riuscito a imporre i suoi parlamentari più fedeli come capigruppo alla Camera e al Senato, dove oggi siedono rispettivamente un deputato considerato in rapporti personali con Grillo, Davide Crippa, e una senatrice vicinissima al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, Mariolina Castellone.
Conte non è nemmeno riuscito a definire in maniera più netta i contorni della piattaforma politica del Movimento, nonostante al momento della sua elezione avesse promesso che nei mesi successivi il partito avrebbe lavorato alla definizione del «più partecipato e importante programma di governo che sia mai stato elaborato» e che il M5S avrebbe fatto parte stabilmente del centrosinistra.
Negli ultimi tempi il M5S sta lavorando per entrare nella delegazione del Partito Socialista Europeo al Parlamento Europeo, la stessa di cui fa parte il Partito Democratico, e ha sostenuto proposte di stampo progressista come il cosiddetto ddl Zan contro l’omotransfobia e un’estensione del reddito di cittadinanza, la proposta cardine del suo programma politico nel 2018.
Al contempo però nelle ultime settimane si è speso soprattutto per l’estensione del cosiddetto superbonus edilizio, una misura che secondo diverse analisi garantisce benefici soprattutto alle fasce più ricche, e non è riuscito a consolidare l’alleanza col Partito Democratico a livello locale, come emerso dalle recenti elezioni amministrative.
Alcuni ipotizzano che il compito di Conte sia semplicemente impossibile: dopotutto il Movimento 5 Stelle è un partito nato più di dieci anni fa attorno ad alcune proposte e posizioni che nel tempo sono state abbandonate o assorbite dagli altri partiti, come la generica ostilità verso i corpi intermedi e la classe politica, o per certi versi una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale. In altre parole, potrebbe avere esaurito in maniera naturale la sua spinta propulsiva.
Sembra pensarla così anche Giannuli: «Oltre ai deputati, stiamo assistendo allo scioglimento della comunità: non esiste più il popolo pentastellato. Una parte di questa comunità orfana andrà a votare Fratelli d’Italia […]; una parte tornerà a votare estrema sinistra o i verdi; forse poi Di Battista formerà un partito con Casaleggio che potrebbe intercettare una fetta di questi esuli. La stragrande maggioranza dei vecchi elettori del Movimento andranno verso l’astensionismo. Si procederà in ordine sparso», ha detto a True News.
È la stessa modalità con cui il Movimento si avvicina all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. È noto che una parte consistente dei parlamentari del Movimento sia interessata principalmente a evitare le elezioni anticipate. Il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, fortemente voluto dal partito e approvato nel 2020, finirà infatti con ogni probabilità per penalizzare paradossalmente soprattutto il M5S. È il partito che in proporzione sembra destinato a vedere più ridotto il suo consenso elettorale alle prossime elezioni politiche, cosa che combinata alla diminuzione dei seggi disponibili farà sì che decine dei suoi attuali 232 parlamentari non saranno rieletti.
A orientare la scelta di una parte della delegazione del M5S che eleggerà il prossimo presidente della Repubblica, quindi, sarà l’istinto di autoconservazione: molti sceglieranno cioè chi votare sulla base delle garanzie che offre per quanto riguarda il prolungamento dell’attuale legislatura fino alla sua fine naturale, nel marzo del 2023. Senza Draghi come presidente del Consiglio, nell’eventualità quindi di una sua elezione al Quirinale, in molti prevedono che l’attuale maggioranza si romperà portando a elezioni anticipate.
Anche per questo si spiega il voto di lunedì sera del gruppo parlamentare dei senatori a favore della rielezione di Mattarella, che potrebbe garantire maggiori sicurezze per la tenuta della maggioranza. Ma Mattarella ha già fatto sapere in ogni modo che non vuole essere rieletto, e infatti al momento quest’ipotesi sembra superata, nonostante il voto di lunedì dell’assemblea dei senatori del M5S.