Da quando la settimana è così importante?
È un’unità di misura diffusa da oltre due millenni, ma fino a un paio di secoli fa non modellava quanto oggi la nostra percezione del tempo
A differenza di giorni, mesi, stagioni e anni, cioè unità di misura del tempo che richiamano anche intuitivamente una serie di nozioni basilari di astronomia, la settimana è un periodo cronologico rispetto al quale non percepiamo correlazioni evidenti con un qualche fenomeno o ciclo naturale. Abbiamo anzi un’esperienza continua e inconscia dell’eccezionalità della settimana negli scarti che produce il tentativo di sovrapporla ad altre unità di tempo. Non ci aspettiamo che ogni mese abbia sempre lo stesso numero di domeniche, per esempio, né che la fine di un mese coincida con la fine di una settimana.
Parlando di misure del tempo è più forte e condivisa, nel caso della settimana, la sensazione che la diffusione e l’uso di questa unità siano più una questione di prassi e abitudini umane che non di ragioni di ordine naturale. Da dove salti fuori il numero sette, e perché la settimana sia una forma così diffusa di strutturazione del nostro tempo, rappresenta quindi una delle domande più frequenti non soltanto nella ricerca storica ma anche in molte conversazioni comuni.
In un libro uscito a novembre e intitolato The Week: A History of the Unnatural Rhythms That Made Us Who We Are, lo storico David Henkin, docente all’università della California, Berkeley, ha scritto di come la settimana sia diventata un’unità di cronometraggio del tempo predominante quanto le unità legate ai cicli naturali e sia arrivata a modellare la nostra percezione del tempo. È un processo, spiega Henkin, che risale al XIX secolo e occupa quindi un periodo relativamente breve di storia recente, molto meno esteso rispetto al periodo complessivo di adozione ufficiale di questo sistema nel mondo.
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La settimana per come la intendiamo ancora oggi, e cioè un periodo cronologico composto da sette giorni e suddiviso in giorni di lavoro e giorni di riposo, esiste da almeno duemila anni. Secondo una delle ipotesi più diffuse, la scelta di questo numero sarebbe da ricondurre alle quattro fasi della Luna (nuova, crescente, piena e calante), ciascuna delle quali ha appunto una durata di circa sette giorni (le fasi si ripetono in un intervallo di tempo di circa 29 giorni). Uno schema babilonese di suddivisione del mese in quattro sotto-periodi fu probabilmente il modello di riferimento utilizzato dalla religione ebraica per l’istituzione della settimana di sette giorni che prevedeva la celebrazione del riposo durante il settimo, lo Shabbat.
Oltre al periodo settenario usato dagli Ebrei, le cui origini risalgono alla Genesi e il cui significato è quello di commemorare il riposo di Dio dopo i sei giorni della creazione, era molto diffusa nel Mediterraneo ai tempi degli antichi Romani un’altra settimana di sette giorni. Definita e adottata ad Alessandria d’Egitto, è quella di cui sono rimaste ancora oggi tracce in pressoché tutte le lingue indoeuropee e che associava a ciascun giorno il nome di uno dei cinque pianeti allora conosciuti, del Sole e della Luna.
La tradizione cristiana mantenne la settimana ebraica spostando però il giorno di riposo alla domenica, giorno della risurrezione di Cristo secondo i Vangeli. Sia l’influenza giudaico-cristiana che quella dell’astronomia egizia finirono poi per fondersi e radicarsi nella cultura dell’Impero romano, rendendo progressivamente predominante in tutto il mondo la settimana di sette giorni, adottata poi anche nella tradizione islamica. «Per gran parte della sua lunga storia, la settimana di sette giorni ha ampliato la sua estensione geografica lungo percorsi di conquista, commercio e proselitismo plasmati dall’islamismo e soprattutto dal cristianesimo», scrive Henkin.
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Eppure diversi storici, tra i quali lo stesso Henkin, concordano nel ritenere che fino a circa 200 anni fa, sebbene fosse da secoli un’unità profondamente significativa per le religioni, la settimana non fosse per le persone di molte parti del mondo un modo essenziale quanto lo è oggi di misurare il tempo, né di determinare il senso di dove le persone si trovino all’interno di un flusso temporale. A farne un sistema utile a coordinare e pianificare appuntamenti sociali e commerciali, condivisi tra cerchie sempre più estese di conoscenti o anche di persone estranee l’una all’altra, contribuì la rivoluzione industriale e l’urbanizzazione, fenomeni trainanti per lo sviluppo delle società occidentali.
Man mano che le città crescevano e le società diventavano più evolute, le persone «diventavano diversamente e più intensamente orientate alla settimana, in modi che ora possiamo riconoscere come moderni», scrive Henkin. E sapere quale giorno della settimana fosse diventò molto più importante, rispetto a quando la maggior parte delle persone abitava in fattorie o in piccoli villaggi e non aveva bisogno di coordinare molte attività con persone che non vedeva abitualmente.
Il lavoro in fabbrica e il giorno di paga alla fine della settimana diventarono via via abitudini più diffuse e condivise, così come l’istruzione scolastica e la didattica basata sull’insegnamento delle materie secondo una ricorrenza settimanale. Sempre più persone cominciarono a leggere giornali e riviste che chiamavano “settimanali”. E le tipografie, non ultima Letts of London, iniziarono a stampare elenchi organizzati per settimane – le prime agende – utili a registrare le presenze e per fissare appuntamenti. Tutti elementi che consolidarono una scansione del tempo più simile a quella prevalente ancora oggi.
Il singolo sviluppo tecnologico che più di ogni altro contribuì a rendere la settimana di sette giorni uno standard «insuperabile», secondo Henkin, arrivò a metà del XX secolo: il palinsesto televisivo. L’organizzazione dei programmi televisivi, scrive Henkin, ebbe un ruolo fondamentale nella strutturazione della settimana più di quanto non fosse avvenuto un secolo prima con la programmazione degli spettacoli teatrali, perché i programmi televisivi «raggiunsero molte più persone e senza affrontare grande concorrenza».
Secondo Jill Lepore, docente di storia americana all’Università di Harvard e giornalista del New Yorker, l’importanza delle settimane fu storicamente molto influenzata anche da un manufatto non citato da Henkin: la pillola anticoncezionale.
«Se me lo avessero chiesto quando avevo dieci anni avrei detto che la settimana di sette giorni derivasse dal ciclo mestruale, che mia madre chiamava sempre “monthlies” [una delle parole inglesi utilizzate al posto di “menstrual cycle”] ma che, ispezionando le scatole di contraccettivi negli armadietti dei medicinali delle case in cui facevo la baby sitter, appresi essere una faccenda settimanale», scrive Lepore. Questa fondamentale strutturazione del tempo, per decenni annotata dalle donne su agende e calendari, è peraltro ancora oggi alla base del funzionamento di molte app per smartphone per il monitoraggio del ciclo mestruale.
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Negli ultimi 250 anni la settimana di sette giorni ha resistito anche a diversi tentativi di riformarla per rendere la misurazione del tempo più omogenea e meno irregolare. Nel 1792, tre anni dopo la presa della Bastiglia, i rivoluzionari francesi adottarono settimane da dieci giorni, istituendo un calendario formato da dodici mesi da 30 giorni, e cinque o sei giorni extra alla fine di ogni anno. Soppresso da Napoleone nel 1805, il calendario rivoluzionario francese fu poi brevemente ripristinato nel 1871, durante la Comune di Parigi, e infine messo definitivamente da parte.
È noto anche il caso del calendario rivoluzionario sovietico, adottato in Unione Sovietica tra il 1929 e il 1940 secondo le politiche antireligiose del governo. Le settimane da sette giorni furono abolite e sostituite con settimane da cinque giorni, ma nelle zone rurali la tradizionale settimana da sette giorni continuò a essere utilizzata.
Uno degli obiettivi di alcuni tentativi di riformare la settimana fu quello di adattarla alle altre unità di misura del tempo ed evitare, per esempio, che mesi, trimestri e anni abbiano, com’è inevitabile, un numero variabile di settimane. Una delle soluzioni più note fu quella proposta dall’abate italiano Marco Mastrofini e poi in seguito promossa dalla riformatrice Elisabeth Achelis nel 1930: il calendario mondiale. «È piuttosto inquietante avere cinque sabati in un mese ogni tanto», scriveva Achelis, che il New Yorker nel 1939 descriveva come un personaggio anche «particolarmente contrario alla Pasqua errante».
Il calendario mondiale prevedeva che l’anno fosse composto da 364 giorni, cioè quattro trimestri da 91 giorni ciascuno, e che ciascun giorno dell’anno fosse sempre associato a uno stesso giorno della settimana (che il 2 gennaio fosse ogni anno lunedì, per esempio). Oltre ai 364 giorni, ogni anno avrebbe incluso 2 giorni extra, contraddistinti da una lettera – W come Worldsday, giorno del mondo – anziché da un numero e non contati come parte delle settimane da sette giorni.
Un tentativo precedente era stato presentato nel 1902 dallo studioso di statistica inglese Moses B. Cotsworth, e prevedeva la divisione dell’anno solare in 13 mesi da 28 giorni ciascuno, con un giorno in più dopo l’ultimo giorno di dicembre e uno in più, alla fine di giugno, negli anni bisestili. Riforme di questo tipo furono lungamente sostenute fin dalla fine del XIX secolo per interessi economici legati all’aumento della produttività, oltre che in parte della comunità scientifica, ha raccontato Henkin all’Atlantic.
Fu lo stesso periodo in cui furono istituiti la linea internazionale del cambio di data e i fusi orari. I movimenti favorevoli alla riforma della settimana convinsero i governi a utilizzare l’ora media di Greenwich come fuso orario di riferimento della Terra ma non riuscirono a portare avanti la riforma della settimana, secondo Henkin, a causa di reticenze sostenute dalle credenze religiose e dai capi dei culti basati sul ciclo settimanale.
Nel 1955, quando le Nazioni Unite proposero che un altro gruppo di studio riprendesse a occuparsi del calendario mondiale, il Dipartimento di Stato americano si oppose, così come il Congresso. L’allora membro della Camera dei rappresentanti del Michigan e non ancora presidente americano Gerald Ford, disse: «Il Congresso non è dell’umore giusto per manomettere il calendario».
Henkin condivide l’idea secondo cui in anni recenti la settimana sia diventata un’unità di misura del tempo meno influente che in passato, ma ritiene che continuerà comunque a condizionare le nostre percezioni. Anche la pandemia lo ha dimostrato, in un certo senso: durante il lockdown, «le persone erano disorientate perché non sapevano quale giorno della settimana fosse, e quell’esperienza era un segno rivelatore del loro essere disancorate dal tempo».