Guarderemo con orrore a come trattiamo gli animali di cui ci nutriamo?

Conosciamo e perlopiù accettiamo il funzionamento degli allevamenti intensivi, come le società passate facevano con pratiche che oggi giudichiamo disumane

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Un allevamento di polli ruspanti a Elstorf, in Germania, il 7 gennaio 2011 (Joern Pollex/Getty Images)
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Secondo le stime dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) circa 80 miliardi di animali terrestri – in larghissima parte pollame, poi suini, ovini e bovini – sono destinati ogni anno alla macellazione. A questo numero va aggiunto quello dei pesci da allevamento uccisi ogni anno, secondo alcune stime compreso tra 51 e 160 miliardi.

Le modalità e le condizioni in cui molti di questi animali vengono allevati intensivamente, così come le sofferenze a cui sono sottoposti durante la loro esistenza e fino alla morte, rappresentano l’argomento centrale di un esteso dibattito sui loro diritti ormai da tempo avviato in molti paesi industrializzati. A margine di questo dibattito ne esiste uno affine ma più laterale, di ordine generale, che riguarda sia l’eterogeneità delle diverse sensibilità individuali considerate in uno stesso contesto storico e sia, soprattutto, l’evoluzione delle sensibilità collettive nel tempo e l’evoluzione del dibattito sui diritti che quelle sensibilità si portano dietro.

In molti paesi sono oggi considerate inaccettabili e violente pratiche e parole che fino a qualche decennio fa, in alcuni casi anche meno, rientravano nelle abitudini di un’estesa parte della popolazione di quegli stessi paesi, senza che all’epoca vi fosse alcuna percezione largamente condivisa della violenza che oggi viene loro attribuita. Oggi potrebbe essere generalmente più difficile immaginare che una simile evoluzione possa in futuro continuare a riguardare con la stessa rapidità anche il pensiero sui diritti degli animali, ma è pur sempre una questione di prospettive.

Come scrisse l’autore britannico Benjamin Zephaniah in un articolo sul Guardian nel 2007, «è sempre difficile guardare alle violenze di oggi e immaginarle attraverso gli occhi critici delle generazioni future, così come coloro che 200 anni fa vendettero centinaia di migliaia di schiavi umani lungo il Tamigi probabilmente non potevano immaginare come sarebbe stata vista oggi quell’industria».

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Sia nei dibattiti più impegnativi che nelle conversazioni più spensierate ha in genere un suo senso autonomo, indipendentemente dal tema specifico trattato di volta in volta, la domanda riguardo a quali tra le cose che fanno parte dei nostri costumi attuali e che oggi non consideriamo inaccettabili potrebbero un giorno sembrare un’inspiegabile violenza. Ed è una discussione che trova nel dibattito sui diritti degli animali e sulle nostre particolari predisposizioni culturali verso alcuni di essi una delle sue esemplificazioni più chiare e più note, ma che riguarda evidentemente anche il modo in cui formuliamo ipotesi ed esprimiamo giudizi – spesso perentori – sul passato, sulle tradizioni culturali e sulle sensibilità diverse dalle nostre.

Nonostante la nostra capacità di scegliere alternative che non implichino la violenza e nonostante le numerose prove scientifiche della capacità di molti animali di provare dolore, gioia, paura e altre emozioni, ogni anno miliardi di animali macellati sono costretti a un’esistenza fatta di un certo numero variabile di violenze. E questo succede regolarmente, scriveva Zephaniah rafforzando il parallelismo con le forme presenti e passate di oppressione e violenza tra esseri umani, «perché gli animali non hanno il potere di fermarci».

Fin dall’Illuminismo, raccontava l’Economist in un articolo nel 2005, il modo in cui trattiamo gli animali è stato concepito come una «misura dell’umanità dell’umanità». E, da questo punto di vista, non sorprende che riformisti come William Wilberforce, leader del movimento che nel 1833 portò all’abolizione della schiavitù nell’impero britannico, abbiano contribuito a fondare negli anni Venti dell’Ottocento la Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals (RSPCA), uno tra i più noti e antichi enti animalisti britannici. L’idea che sia un dovere morale non arrecare dolore a chi è in grado di provarlo e ha la capacità di soffrire, secondo l’Economist, portò gradualmente le persone a estendere anche ad altre specie, seppure tra varie distinzioni culturali e contraddizioni, un tipo di considerazione e rispetto in precedenza riservato soltanto agli esseri umani.

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«Il modo in cui trattiamo gli animali da allevamento oggi sarà visto, credo, come un difetto morale distintivo della nostra epoca», ha scritto recentemente sul New York Times l’americano Ezra Klein, ex giornalista del Washington Post e cofondatore del sito Vox, parlando degli allevamenti intensivi e delle conseguenze dell’industrializzazione e dello sviluppo delle tecnologie applicate alla produzione di carne.

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Un allevamento di maiali a Drahnsdorf, in Germania, il 28 aprile 2016 (Carsten Koall/Getty Images)

Se è vero che gli esseri umani cacciano, allevano e mangiano animali praticamente da sempre, afferma Klein, a cambiare nell’ultimo secolo sono state le nuove prospettive di produzione della carne – e di sofferenza per gli animali – aperte dal progresso scientifico. Mai prima d’ora era stato possibile, senza gli attuali antibiotici e prodotti disinfettanti, tenere così tanti animali ammassati in un determinato spazio: d’altri tempi, le malattie avrebbero decimato greggi e armenti così numerosi. Oggi gli allevamenti intensivi responsabili della gran parte della produzione mondiale di carne sono invece il risultato di numerosi progressi scientifici e tecnologici.

Rispetto agli anni Cinquanta, a fronte dell’abbassamento dei costi e della straordinaria crescita della domanda, i polli da macello sono oggi circa quattro volte più grandi di dimensioni e raggiungono il loro peso finale in sei settimane anziché 15: «non sono soltanto polli, sono invenzioni». E, oltre all’allevamento, sono cambiate attraverso perfezionamenti progressivi anche le modalità con cui gli animali vengono uccisi.

Il metodo prevalente negli allevamenti intensivi di pollame, lo sgozzamento, prevede una precedente fase di stordimento di gruppo che avviene immergendo i polli in rapida successione in vasche d’acqua attraverso cui viene fatta passare una certa quantità di corrente elettrica. I polli ci arrivano dopo essere stati capovolti e appesi per le zampe – spesso da lavoratori sottopagati, aggiunge Klein – a un nastro di forche ravvicinate che li trasporta attraverso le varie fasi della macellazione.

Può capitare che qualcosa vada storto lungo il processo, che gli animali rimangano feriti, che non venga loro somministrata una quantità di corrente elettrica sufficiente a stordirli e che siano quindi coscienti al momento dello sgozzamento o anche dopo, durante la scottatura in acqua bollente, come reso noto nel corso degli anni attraverso inchieste e video impressionanti da numerosi enti e associazioni impegnate contro il maltrattamento degli animali da allevamento.

Nonostante i tentativi di alcune aziende di ostacolare il lavoro sotto copertura delle associazioni, è difficile ipotizzare che questi video non abbiano avuto sufficiente circolazione in tutti questi anni e non abbiano quindi potuto condizionare le sensibilità di un gran numero di persone. È più verosimile che un gran numero di persone educate e sensibili all’argomento, pur rimanendo impressionate dalle immagini degli animali nei mattatoi e pur disapprovando le modalità di gestione degli allevamenti intensivi, non trovi quelle condizioni una ragione sufficiente a smettere di mangiare carne ricavata attraverso quelle modalità.

È altrettanto ragionevole credere che in un certo numero di casi e per ragioni anche molto eterogenee, a seconda delle varie realtà culturali, sociali ed economiche, le alternative alla carne da allevamento non rappresentino strade concretamente percorribili. In altri casi ancora, anche in presenza di alternative, alla base del persistente consumo di carne da parte di milioni di persone nel mondo – anche quelle impressionate dalle immagini degli allevamenti intensivi – potrebbero esserci banalmente preferenze di gusto. È possibile che tra quelle persone in pochi giustificherebbero le sofferenze degli animali da macello e che ciononostante in pochi sarebbero oggi disposti a mangiare qualcosa di diverso in attesa della fine di quelle sofferenze.

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Pesci in vendita in un ristorante a Essaouira, in Marocco, il 1° agosto 2007 (Chris Jackson/Getty Images)

In un certo senso, scriveva l’Economist, che ci sia un’incoerenza di fondo è forse inevitabile: se dopo centinaia di anni di riflessione «le persone non riescono a trovare un accordo su un sistema di diritti reciproci», le cose non possono che complicarsi ulteriormente quando si tratta di includere gli animali in quel sistema. E quindi consideriamo normale che persone che non si sognerebbero mai di chiudere in una gabbia i loro cani e i loro gatti mangino regolarmente uova e carni ricavate da allevamenti intensivi. Così come consideriamo normale che le persone sensibili che mangiano carne tendano a evitare di vedere immagini e video troppo dettagliati sui metodi di macellazione attraverso i quali è stata prodotta.

Un tempo, evitare la visione di procedure e operazioni che mostravano o lasciavano immaginare forme di violenza sugli animali sarebbe stato molto più complicato, ha raccontato sul New York Times Victoria Johnson, docente di politiche urbane all’Hunter College a Manhattan. Nel XIX secolo, a New York come presumibilmente in altre parti del mondo, i bovini venivano condotti lungo le strade della città fino ai recinti del bestiame. Per non dire del trattamento riservato agli animali randagi: Johnson riferisce della pratica di rinchiudere i cani in gabbie metalliche e annegarli in gruppo nell’East River.

In quel particolare contesto urbano newyorkese fu un facoltoso cittadino chiamato Henry Bergh, oggi noto per aver fondato nel 1866 l’American Society for the Prevention of Cruelty to Animals (ASPCA), a stimolare i sensi sopiti delle persone e attirare le loro attenzioni sulle sofferenze di quegli animali che avevano tutti i giorni davanti agli occhi, trasportati vivi da una parte all’altra della città e spesso maltrattati pubblicamente. Bergh ci riuscì «sfidando il ridicolo, le aggressioni e le minacce di morte per oltre due decenni», in un’epoca in cui molte persone pensavano che gli animali non potessero provare emozioni e neppure dolore.

Come riportato in una recente biografia scritta dallo storico americano Ernest Freeberg, durante le sue operazioni quotidiane di ricerca e contrasto delle situazioni in cui gli animali in città venivano sottoposti alle sofferenze Bergh cercò e ottenne l’attenzione di un pubblico sempre più vasto. Inizialmente fu spesso ridicolizzato, ma la popolarità crescente del suo lavoro rese progressivamente familiari alcuni argomenti: improvvisamente, senza che si fossero mai posti prima la domanda, «gli americani discutevano se gli animali avessero dei diritti».

Secondo Bergh, se fosse stato possibile per le persone imparare a smettere di pensare agli esseri umani in termini di proprietà, obiettivo dei grandi movimenti di riforma della sua epoca, sarebbe stato possibile insegnare a quelle persone a smettere di trattare in quei termini anche gli animali, che definiva «i nostri schiavi senza parole».

Quando le prime invenzioni utili per il congelamento degli alimenti e quindi della carne emersero come parziale alternativa al trasporto di animali vivi, Bergh approvò quel genere di innovazione, sia per le sofferenze che avrebbe evitato agli animali sia perché quell’innovazione avrebbe progressivamente sottratto la visione «moralmente corrotta» degli animali maltrattati dalla vista di tutte le persone fuorché quelle che lavoravano nell’industria della macellazione. Oggi, è soltanto «quando una creatura disperata riesce a liberarsi e a correre per New York  che ci ricordiamo del costo nascosto dei nostri gusti», commenta Johnson.

Secondo il filosofo australiano Peter Singer, peraltro autore del libro del 1975 Liberazione animale, considerato un testo di riferimento per il movimento animalista, sarebbe un errore presumere che una qualsiasi forma di discriminazione sia l’ultima forma di discriminazione. E può essere considerato un errore nella misura in cui chiunque tra noi, anche tra le persone più impegnate contro situazioni riconosciute di maltrattamento e oppressione, potrebbe inconsapevolmente partecipare a un’oppressione che non siamo ancora in grado di riconoscere.

Nel caso degli animali da allevamento, riconoscere la violenza è un atto evidentemente ostacolato dalla radicata convinzione della superiorità degli interessi della specie umana rispetto a interessi che siano simili ma espressi da animali non umani, un atteggiamento di pregiudizio definito da Singer “specismo”, nell’ambito delle filosofie animaliste. È del tutto comprensibile, afferma Singer, e non è specismo, che un essere dotato della capacità di pensare a sé stesso nel tempo e di pianificare la propria vita abbia un interesse maggiore a continuare a vivere rispetto a un essere non dotato di tale capacità.

Lo specismo è invece ritenere quegli interessi umani superiori sempre e comunque, a prescindere da qualsiasi condizione, e fornisce un esempio per chiarire il concetto:

Su tale base, si potrebbe sostenere che uccidere un essere umano normoabile che vuole continuare a vivere sia più gravemente sbagliato che uccidere un animale non umano. Che sia valida o meno, questa affermazione non è specista. Ma dato che alcuni esseri umani – più ovviamente quelli con profonde disabilità intellettive – mancano di questa capacità, o ne dispongono in misura minore rispetto ad alcuni animali non umani, sarebbe specista affermare che è più gravemente sbagliato, sempre e comunque, uccidere un membro della specie Homo sapiens che uccidere un animale non umano.

Una delle differenze sostanziali tra lo specismo e il razzismo, il sessismo o la discriminazione contro le persone con disabilità, secondo Singer, è proprio la nostra capacità di riconoscere i fenomeni del secondo gruppo come qualcosa di sbagliato, al punto da promulgare leggi per contrastarli e prevenirli. Con lo specismo, siamo molto lontani da quel punto, e se dovessimo confrontare gli atteggiamenti specisti di oggi con gli atteggiamenti razzisti del passato, prosegue Singer, «dovremmo dire di essere tornati ai tempi in cui la tratta degli schiavi era ancora legale, sebbene messa in discussione da alcune voci illuminate».

Alcune associazioni contro il maltrattamento degli animali da allevamento, come The Human League e Mercy for Animals, cercano da alcuni anni di raggiungere obiettivi da molti considerati più realistici e immediati rispetto all’ambizione di terminare la produzione e il consumo di carne nel mondo: migliorare le condizioni degli animali da subito e minimizzarne le sofferenze. Una delle loro campagne più note è quella che aspira a persuadere le aziende di allevamento a cambiare le modalità di stordimento degli animali, passando alla somministrazione di gas in grado di indurre in modo graduale l’incoscienza per ipossia, un metodo ritenuto preferibile rispetto al bagno di gruppo nelle “vasche elettriche”.

Come chiarito nel regolamento 1099/2009 dell’Unione Europea (pdf), che disciplina l’abbattimento degli animali allevati o detenuti per la produzione di alimenti, lana, pelli, pellicce o altri prodotti, «ogni tecnica di stordimento presenta inconvenienti». E l’abbattimento – definito come qualsiasi processo applicato intenzionalmente che determini la morte dell’animale – può provocare dolore, ansia, paura o sofferenze di altro tipo agli animali «anche nelle migliori condizioni tecniche». È quindi opportuno che gli operatori addetti all’abbattimento adottino i provvedimenti necessari a evitare e ridurre al minimo l’ansia e la sofferenza degli animali durante il processo di macellazione.

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Un’intenzione simile a quella espressa nel regolamento dell’Unione Europea è alla base del lavoro di associazioni come The Human League e Mercy for Animals. È un approccio che procede per compromessi, un «attivismo che non concede a sé stesso le consolazioni della purezza», ha scritto Klein nell’articolo sul New York Times. Anziché ambire a evitare la morte degli animali, si punta a rendere il più possibile indolori per gli animali i processi di stordimento e macellazione. Per queste associazioni, afferma Klein, questo tipo di lavoro significa vedere gli animali da allevamento trattati «in un modo che è molto al di sotto di ciò che considerano sia morale, ma molto al di sopra di ciò che è diventato normale».

Klein ha anche riportato la risposta che David Coman-Hidy, presidente di The Human League, gli ha dato alla domanda su come riuscisse a sopportare di trascorrere il suo tempo a negoziare soluzioni di fine compromesso riguardo alla macellazione dei polli. «L’esperimento mentale che mi ha aiutato è questo: se potessi morire, io o un membro della mia famiglia, per eutanasia tramite gas o nel modo che ho appena descritto [il metodo imperfetto del “bagno elettrico”], cosa darei per avere il gas? La risposta è: tutto», ha detto Coman-Hidy.

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Galline ovaiole in un allevamento a Turner, nel Maine, il 1° luglio 2010 (AP/Robert F. Bukaty)

Negli Stati Uniti l’impegno di queste associazioni ha prodotto nel tempo effetti paragonabili, per esempio, a quelli prodotti da diverse direttive dell’Unione Europea – come la 1999/74/CE (pdf), la 2002/4/CE (pdf) e la 2007/43/CE (pdf) – che stabiliscono norme per la protezione sia delle galline ovaiole che dei polli allevati per la produzione di carne. Le attuazioni di quelle direttive in Italia stabiliscono, tra le altre cose, che la densità massima di allevamento dei polli da macello in ogni capannone dello stabilimento non superi in alcun momento 33 kg/m2 e che le gabbie delle galline ovaiole abbiano una superficie di almeno 750 cm2 per gallina e un’altezza minima di 20 cm, e dispongano di uno spazio separato (nido) per le uova.

In attesa di un’annunciata proposta definitiva da parte della Commissione Europea per l’eliminazione delle gabbie da tutti gli allevamenti di animali, diverse aziende del settore alimentare o della ristorazione hanno già escluso dalle loro catene di approvvigionamento – o si sono impegnate a farlo entro il 2025 – le uova prodotte da allevamenti che fanno uso di gabbie. Lo hanno fatto anche decine di aziende multinazionali come Unilever e catene come Pizza Hut negli Stati Uniti, dove le gabbie negli allevamenti sono già vietate o lo saranno in breve tempo in 9 stati (California, Colorado, Massachusetts, Michigan, Ohio, Oregon, Rhode Island, Utah e Washington).

In nessun modo, chiarisce Klein, questo tipo di impegno rende «comoda» la vita delle galline, la cui sofferenza non sarà eliminata bensì soltanto ridotta dall’eliminazione delle gabbie. È comunque meglio di niente, partendo dal presupposto che «non c’è modo di allevare così tanti uccelli in modo umano, in spazi così ravvicinati». Per questa ragione, oltre all’approccio basato sul tentativo di migliorare le condizioni e ridurre le sofferenze degli animali, ne esiste uno diverso e più radicale, sostenuto da altre associazioni: aspirare alla completa sostituzione della carne dai pasti degli esseri umani.

Klein si chiede se allo stato attuale sia effettivamente ancora necessario un pollo per fare un nugget o una mucca per fare un hamburger. In un certo senso, osserva, «quando macellavamo una mucca per ottenere carne macinata, usavamo la mucca come una macchina per trasformare in carne le piante che la mucca mangiava». Quindi la domanda è se sia oggi possibile sostituire in quella stessa relazione la mucca con qualcosa di diverso ma ugualmente in grado di trasformare le piante in carne.

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Bovini da carne in un pascolo a Middletown, nell’Illinois, il 12 settembre 2011 (AP Photo/Seth Perlman)

Sul piano del gusto, secondo Klein, il progresso intorno alla carne di origine vegetale è a buon punto per quanto riguarda hamburger, salsicce e nugget, ma ancora indietro per quanto riguarda bistecche, pancetta e tonno, carni strutturalmente più difficili da riprodurre. Esiste poi un intero settore della ricerca dedito alla coltivazione di carne sintetica, un prodotto ricavato in laboratorio da cellule animali ancora estremamente costoso rispetto alla carne ottenuta tradizionalmente. Klein ha detto di aver provato del pollo prodotto in questo modo dall’azienda californiana Upside Foods e di non aver percepito alcuna differenza di sapore rispetto a un pollo normale.

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Attualmente le perplessità intorno a queste forme di sostituzione della carne riguardano principalmente la sostenibilità economica e le difficoltà tecniche di un’eventuale applicazione su larghissima scala, se sia cioè concretamente possibile completare questa sostituzione per le centinaia di milioni di tonnellate di carne che consumiamo ogni anno. «Ma i benefici della coltivazione diretta della carne, su larga scala, sarebbero incalcolabili, e non soltanto per gli animali», afferma Klein, descrivendo la produzione di carne come un macroscopico agente del cambiamento climatico, della deforestazione e del rischio di pandemie e di resistenza dei batteri agli antibiotici.

Per Klein, i progressi nel campo della sostituzione della carne dovrebbero essere parte di una strategia collettiva, un obiettivo delle società piuttosto che un’iniziativa lasciata al capitale privato: in questo settore, «esiste troppa poca scienza di base, e troppi progressi sono brevettati e protetti». Ma, anche grazie al lavoro di associazioni e gruppi impegnati contro il maltrattamento degli animali, è quantomeno possibile immaginare oggi come la crudeltà contro gli animali potrebbe un giorno finire.

«Forse stiamo vivendo in quell’intervallo tra il tempo in cui è diventato possibile trattare gli animali senzienti come input industriali e il tempo in cui diventerà inutile e forse indecente farlo, perché saremo in grado di coltivare o riprodurre la maggior parte della carne con meno coinvolgimento animale, e i maltrattamenti nei confronti degli animali saranno più facili da esecrare», conclude Klein.