Sta diventando sempre più difficile tornare all’accordo sul nucleare iraniano
I colloqui in corso a Vienna per ripristinare la storica intesa del 2015 stanno mostrando quanto le cose siano cambiate da allora
di Elena Zacchetti
Lunedì sono iniziati a Vienna, in Austria, i nuovi colloqui sul nucleare iraniano, che coinvolgono l’Iran e tutti i paesi che avevano firmato lo storico accordo del 2015, quando alla presidenza degli Stati Uniti c’era ancora Barack Obama. Il nuovo giro di colloqui, l’ottavo, ha l’obiettivo di ripristinare quell’accordo, che riduceva la capacità dell’Iran di sviluppare la tecnologia per la creazione di un’arma nucleare in cambio della rimozione di alcune delle sanzioni imposte dalla comunità internazionale sul paese. L’intesa era stata affossata tre anni dopo da Donald Trump, che aveva ritirato unilateralmente gli Stati Uniti e aveva reintrodotto le vecchie sanzioni sull’Iran, aggiungendone di nuove.
I diplomatici a Vienna stanno provando a tornare al punto di sei anni fa, ma le cose non sembrano andare per niente bene: i colloqui stanno procedendo a rilento e tra i negoziatori c’è la sensazione diffusa che rimanga poco tempo, forse solo qualche settimana. Rispetto al 2015 è cambiato tutto: c’è un nuovo regime in Iran, l’amministrazione americana di Joe Biden deve fare i conti con le politiche adottate negli anni di Trump, e tra le parti si è sviluppata una profonda diffidenza che sembra difficile da superare. E se la diplomazia fallisse, il rischio è l’inizio di un confronto militare, di cui è difficile prevedere la durata e la portata.
I colloqui in corso a Vienna, come tutti i precedenti, non sono diretti tra tutte le parti: finora l’Iran si è sempre rifiutato di far parlare i propri diplomatici direttamente con quelli statunitensi, una scelta che sta rallentando i negoziati, perché costringe soprattutto i paesi europei – Regno Unito, Francia, e Germania, più i rappresentanti dell’Unione Europea – a fare da mediatori.
C’è un altro grosso problema che sta bloccando i negoziati sul nascere: l’Iran sta continuando a porre come condizione di partenza che vengano rimosse tutte le sanzioni imposte da Trump negli ultimi tre anni, mentre gli Stati Uniti non sono della stessa idea. Il governo americano vorrebbe che i colloqui partissero da una situazione più equilibrata, dove le sanzioni venissero negoziate insieme al resto dell’accordo: cioè, tra le altre cose, i limiti sulla produzione di centrifughe e sulla soglia di arricchimento dell’uranio, e la possibilità di svolgere controlli regolari nelle centrali nucleari iraniane, tutte cose già contenute nell’intesa del 2015 e considerate necessarie per rallentare in maniera significativa la produzione dell’arma nucleare da parte dell’Iran.
Le difficoltà nei negoziati stanno mostrando in maniera chiara quanto le condizioni per arrivare a un accordo siano però molto cambiate, e molto peggiori, rispetto a quelle che c’erano nel 2015.
La prima grossa differenza riguarda la politica iraniana. Sei anni fa in Iran governava il presidente Hassan Rouhani, moderato, che aveva fatto dell’accordo sul nucleare uno dei più importanti obiettivi del suo mandato. Rouhani aveva superato anche le resistenze di Ali Khamenei, la Guida suprema dell’Iran, cioè la carica politica e religiosa più importante del paese e rappresentante massima della fazione ultraconservatrice. Khamenei si era inizialmente opposto a qualsiasi accordo con gli Stati Uniti, ma con la crisi sempre più grave in cui versava l’economia iraniana aveva cambiato idea, sperando che la rimozione delle sanzioni potesse risolvere in parte il problema.
Oggi quelle condizioni non sono più replicabili in Iran. A guidare il governo c’è Ebrahim Raisi, ultraconservatore e “protetto” di Khamenei, eletto lo scorso giugno in un voto molto contestato dalle opposizioni. Il controllo degli ultraconservatori sul paese si è rafforzato, e si è pian piano diffuso un sentimento nazionalistico che prima era meno forte, e che è stato alimentato soprattutto dalle politiche estremamente ostili di Trump verso l’Iran (politiche che hanno portato per esempio all’uccisione del potente generale iraniano Qassem Suleimani, assai popolare nel paese).
Oltre a non esserci più un governo davvero favorevole all’accordo, oggi in Iran è molto più forte e marcato un approccio diffidente verso gli Stati Uniti: c’è pochissima fiducia, che è una delle componenti indispensabili per arrivare a un’intesa di questa importanza.
Sono cambiate le cose anche negli Stati Uniti, nel frattempo: e non perché Biden non voglia ripristinare un accordo che lui stesso aveva sostenuto da vice di Barack Obama, ma perché tra il 2015 e oggi c’è stato Donald Trump.
Dopo avere ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare – senza cioè che ci fosse alcuna violazione grave dei termini da parte dell’Iran – Trump non si era limitato a reintrodurre le sanzioni precedentemente eliminate: ne aveva imposte di nuove, e numerose. Aveva dato cioè inizio alla cosiddetta “strategia della massima pressione”, basata sull’idea che l’imposizione di moltissime sanzioni avrebbe spinto l’Iran ad accettare un nuovo trattato sul nucleare più favorevole agli Stati Uniti (che poi era quello che avevano sempre chiesto molti Repubblicani americani).
È una strategia che però non ha funzionato, e che ad oggi sembra avere avuto effetti opposti a quelli che si aspettava Trump, per due ragioni.
La prima è che in Iran è cresciuta l’ostilità verso gli Stati Uniti anche tra le fazioni prima più aperte a un dialogo con l’Occidente, e si sono rafforzati gli ultraconservatori, i più contrari a qualsiasi accordo con gli americani. Sono stati loro in particolare a spingere per un’accelerazione del programma nucleare, che negli ultimi mesi ha prodotto diverse violazioni all’intesa del 2015: per esempio lo scorso aprile il governo iraniano aveva annunciato che avrebbe iniziato ad arricchire l’uranio al 60%, un livello mai raggiunto dal paese fino ad allora e ben oltre al limite del 3,67% previsto dall’accordo del 2015 (per costruire una bomba nucleare serve uranio arricchito almeno al 90%).
Oggi l’Iran è molto più vicino di quanto non lo fosse nel 2015 alla costruzione di una testata nucleare.
La seconda è che per gli Stati Uniti è diventato ancora più difficile fare concessioni: per tornare all’accordo del 2015, Biden sarebbe costretto a eliminare non solo le sanzioni reintrodotte da Trump, ma anche tutte quelle che Trump aveva imposto in più, dopo essersi ritirato dall’intesa. Sarebbe una decisione politicamente molto costosa e difficilmente accettabile per moltissimi politici americani, che considerano l’Iran uno “stato canaglia”, sostenitore di gruppi radicali e terroristici e minaccia per l’intero Medio Oriente.
Gli altri paesi che sono coinvolti nei negoziati stanno cercando di superare tutte queste difficoltà proponendo soluzioni intermedie, come per esempio un accordo che preveda che l’Iran “congeli” tutte le sue attività nucleari in cambio di alcuni benefici economici. Finora però questa ipotesi è stata scartata per l’opposizione del governo iraniano, che ha detto che l’unico accordo possibile è quello del 2015.
I rischi del fallimento della via diplomatica esistono e potrebbero essere molto grossi. Una soluzione intermedia «darebbe tempo a tutti, ma al momento siamo seduti su diverse bombe a orologeria», ha detto al Financial Times Sanam Vakil, esperto di Iran che lavora per il think tank Chatham House: «Se tutto questo non viene rapidamente contenuto, andremo a valanga verso una crisi molto grave».
Ovviamente non si sa con certezza cosa potrebbe succedere, in caso di fallimento definitivo dei negoziati, ma gli scenari più discussi non sembrano essere troppo buoni, anche perché le opzioni dell’Occidente vanno da «poco attraenti a decisamente violente», come ha sostenuto l’analista Ali Vaez, del think tank International Crisis Group.
Anzitutto i paesi europei, che negli ultimi tre anni avevano cercato in tutti i modi di resuscitare l’accordo, creando con poco successo dei meccanismi finanziari per aggirare le sanzioni americane, potrebbero rinunciare a nuovi tentativi. Potrebbero per esempio rivolgersi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e chiedere che vengano reintrodotte tutte le sanzioni internazionali rimosse nel 2015 dopo la firma dell’accordo: se la proposta dovesse passare, quindi se nessuno dei cinque membri permanenti con potere di veto dovesse votare contro, di fatto verrebbe legittimata a livello globale la “strategia di massima pressione” di Trump, fino ad oggi molto criticata dall’Europa. A quel punto i margini per mettersi d’accordo sarebbero ancora più esigui.
Un’opzione ancora più preoccupante sarebbe quella militare. Gli Stati Uniti o Israele (o entrambi) potrebbero decidere di agire preventivamente, cioè colpire le centrali iraniane prima che l’Iran raggiunga effettivamente la capacità di costruire una testata nucleare. L’esercito statunitense ha già detto di avere diverse opzioni sul tavolo per fermare l’Iran, e stando a quanto hanno scritto i giornali negli ultimi mesi il presidente Biden non avrebbe escluso del tutto questa possibilità. Allo stesso tempo il governo israeliano ha ordinato alle sue forze militari di preparare dei piani per eventuali attacchi aerei mirati.
A sua volta l’Iran potrebbe rispondere. Durante gli anni della presidenza Trump aveva per esempio sfruttato le Guardie Rivoluzionarie (forza militare di élite) e gruppi alleati in altri paesi del Medio Oriente per attaccare i militari americani in Iraq, sabotare le rotte delle petroliere straniere nel Golfo Persico e colpire coi droni le infrastrutture petrolifere dell’Arabia Saudita (alleata degli Stati Uniti). Ma soprattutto potrebbe continuare a sviluppare il suo programma nucleare, avvicinandosi sempre di più alla costruzione di una testata.
Oppure le parti in causa potrebbero riuscire a gestire la crisi e le inevitabili tensioni anche in caso di fallimento definitivo dei colloqui. Non sarebbe la prima volta – Iran e Stati Uniti sono diventati abili a sfiorare grosse crisi internazionali, senza scivolarci dentro – ma il peggioramento generale dei rapporti e delle condizioni potrebbe non essere sufficiente ad evitare questa volta problemi maggiori.