Per ora negli ospedali di Milano va molto meglio rispetto all’anno scorso
I contagi non sono mai stati così alti per via della variante omicron, ma i ricoveri sono una frazione e la situazione è gestibile
Secondo gli ultimi dati dell’azienda sanitaria (ATS) locale, a Milano non c’erano mai stati così tanti contagiati dall’inizio dell’epidemia: gli “attualmente positivi” sono 19mila, costretti a casa in isolamento in attesa di un tampone negativo insieme a decine di migliaia di cosiddetti “contatti stretti”. Milano è la provincia con l’incidenza più alta in Italia: nell’ultima settimana sono stati trovati 977 contagi ogni 100mila abitanti. È il risultato della rapida diffusione della variante omicron, che ha fatto saltare il contact tracing, e del significativo aumento dei tamponi nei giorni che hanno preceduto il Natale.
Ma finora negli ospedali le cose vanno meglio rispetto allo scorso anno: i ricoveri in terapia intensiva sono molti di meno e in generale il sistema sanitario sembra rispondere bene alla pressione causata dall’aumento delle chiamate al 118 e dei ricoveri. È una situazione che secondo molti operatori sanitari si riesce a gestire senza le enormi difficoltà che c’erano state nelle prime tre ondate.
All’ospedale Niguarda, per esempio, i malati di COVID-19 ricoverati sono 80, di cui 12 in terapia intensiva. Alla fine di dicembre dello scorso anno erano 340. Nell’ultimo mese e mezzo, con l’arrivo della nuova ondata, sono aumentati i ricoveri e il lavoro per medici e mediche, anche se nessuno usa la parola emergenza. Sono stati trovati posti letto per i malati di COVID-19 in quattro reparti e alcuni servizi sono stati ridimensionati per spostare il personale sanitario. Nella fase più delicata della seconda ondata, molti ospedali milanesi erano stati costretti a trasferire malati in altri ospedali della Lombardia perché avevano finito i posti letto e la Regione aveva avviato un piano straordinario per aumentare ulteriormente i posti letto in terapia intensiva, che sarebbero serviti durante la terza ondata dell’epidemia.
Come si può osservare dal grafico incluso nel report giornaliero diffuso da ATS Milano, l’occupazione delle terapie intensive è lontana dai livelli raggiunti nelle prime tre ondate dell’epidemia per l’evidente protezione offerta dai vaccini contro le forme gravi di COVID-19.
Roberto Fumagalli, primario della terapia intensiva dell’ospedale Niguarda, ha parlato di «situazione non tragica». Durante la prima ondata, spiega, si cercava essenzialmente di salvare almeno qualcuna delle persone che arrivavano in ospedale con la polmonite bilaterale, oggi invece si riesce a occuparsi anche delle altre malattie. Secondo Fumagalli, nelle prossime settimane ci potrà essere una crescita dei ricoveri, ma senza arrivare al livello dello scorso anno: «Insomma, navighiamo a vista, aspettiamo di conoscere meglio questa variante che sta scompaginando un po’ le previsioni».
Il 70 per cento delle persone in gravi condizioni nella terapia intensiva del Niguarda non ha ricevuto nemmeno una dose del vaccino e ha un’età media relativamente bassa, 55 anni. Sono state quasi tutte ricoverate con polmonite da COVID-19. I pazienti vaccinati, invece, hanno un’età media più alta e in alcuni casi sono stati ricoverati per via di complicazioni di altri problemi di salute aggravati dalla COVID-19.
L’indicatore che più di altri mostra il primo segnale di allerta sul territorio è il numero delle chiamate al 118 per motivi respiratori o infettivi, quindi strettamente correlate all’epidemia da coronavirus. L’oscillazione di questi dati intercetta la richiesta di assistenza sanitaria prima di qualsiasi altro dato monitorato, nonostante i numeri più citati ogni giorno siano quelli relativi all’andamento dei nuovi contagi. Come si può notare, anche in questo caso come per le terapie intensive c’è stato un aumento delle chiamate anche se il livello è lontano dai picchi segnalati nelle prime tre ondate dell’epidemia.
Al momento è difficile prevedere cosa succederà nelle prossime settimane, perché le variabili sono moltissime. Il confronto con l’anno scorso dimostra la notevole efficacia dei vaccini contro le forme gravi della COVID-19, ma la situazione andrà monitorata con attenzione almeno fino alla metà di gennaio. I dati degli ultimi giorni, infatti, non tengono conto delle migliaia di persone che con ogni probabilità si sono contagiate nei giorni delle feste natalizie. È prevedibile che ci sarà un’ulteriore rapida crescita nei prossimi giorni a causa della variante omicron e per la frequenza dei ritrovi tra famigliari e amici durante le feste.
Secondo i dati pubblicati dall’ATS, nell’ultima settimana i quartieri con l’incidenza più alta sono stati quelli centrali, anche se potrebbero essere influenzati da un maggiore accesso ai tamponi in queste zone della città rispetto alla periferia. Venerdì 24 settembre sono stati segnalati 3.158 nuovi contagi in città, il 23 dicembre 2.158.
Malgrado un così alto numero di contagiati, che potrebbe far pensare a una notevole capacità di eseguire test, da dieci giorni si registrano notevoli problemi nella catena diagnostica, cioè nei tempi di attesa dei tamponi, soprattutto molecolari. Fino a poche settimane fa si riuscivano a fare nel giro di uno o due giorni, oggi è tutto più lento e complicato al punto che il contact tracing è di fatto saltato.
L’aumento dei contagi è la causa di un problema indiretto che sta mettendo in difficoltà gli ospedali: molti operatori sanitari, infatti, sono costretti a casa perché contatti stretti di persone positive, familiari o amici, anche se spesso sono asintomatici.
Attualmente, per i contatti stretti dei positivi, i protocolli del ministero della Salute prevedono un periodo di quarantena di 7 giorni per le persone che hanno completato da almeno due settimane la prima parte del ciclo vaccinale (quindi due dosi, o una per il Johnson & Johnson). Si esce da questa forma di quarantena dopo sette giorni con un test molecolare o rapido negativo. Stessa procedura per i non vaccinati, ma per 10 giorni invece di 7.
«Da un punto di vista infermieristico e medico è un problema perché bisogna spostare il personale e riorganizzare il servizio in poco tempo», spiega Gian Vincenzo Zuccotti, primario dell’ospedale pediatrico Buzzi. «Parliamo di sanitari che hanno quasi tutti ricevuto il richiamo, lavorano con la mascherina FFP2, e nella maggior parte dei casi non hanno un contatto prolungato con i pazienti. Sarebbe opportuno rivedere le regole delle quarantene».
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Per aumentare la possibilità di fare test molecolari e dare alle persone tempi più certi in vista dell’uscita dalla quarantena, la Regione Lombardia ha creato una cosidetta “task force tamponi”. Da mercoledì 29 dicembre sarà aperto un nuovo centro tamponi a Gallarate, in provincia di Varese, mentre negli ultimi giorni sono state aggiunte otto nuove linee al punto tamponi di Trenno, a Milano, e sta per essere allestito un nuovo centro alla Fiera. La Regione vuole coinvolgere maggiormente i medici di famiglia e i pediatri, chiamati a eseguire tamponi in laboratorio per evitare un ulteriore sovraccarico dei sistemi delle aziende sanitarie.
Tra le altre cose, sono state decise alcune priorità per l’accesso ai tamponi eseguiti dal sistema sanitario pubblico. La precedenza va data ai sintomatici con prenotazione fatta dal medico di famiglia o dall’azienda sanitaria, poi nell’ordine i tamponi per accertare la guarigione, i tamponi per la fine della quarantena dei contatti stretti, per la sorveglianza delle scuole e per il rientro dall’estero e infine i tamponi alle persone non vaccinate che devono ottenere il Green Pass.