La pandemia noiosa
Dopo quasi due anni di esposizione continua al rischio e alla paura, fa parte della natura umana essere meno preoccupati delle nuove varianti e degli allarmanti aumenti dei contagi
Nelle ultime settimane, l’aumento dei contagi da coronavirus e la diffusione della variante omicron, individuata a fine novembre in Africa meridionale e attualmente in rapida diffusione in decine di paesi in tutto il mondo, hanno generato nuove preoccupazioni e incertezze presso i governi e le autorità sanitarie riguardo alla possibile evoluzione della pandemia. Il lavoro di professionisti e professioniste impegnate fin dall’inizio nello studio dei dati sul coronavirus e nell’ideazione delle adeguate misure di limitazione dei contagi ha quindi riproposto argomenti di interesse già circolati in occasione della diffusione della variante delta, per lungo tempo predominante: dalla contagiosità della nuova variante alla protezione offerta dai vaccini rispetto all’infezione e rispetto ai sintomi gravi della COVID-19.
In attesa di descrizioni più specifiche e analisi più estese, sono generalmente emerse considerazioni prudenti sintetizzate da messaggi sempre più familiari per gran parte della popolazione, frequenti quando ci si interroga sulle conseguenze della diffusione di una nuova variante e sintetizzabili in: “è troppo presto per dirlo”. Se da un lato questo approccio è utile a soppesare sia i contenuti informativi più allarmisti ed enfatici sia quelli eccessivamente rassicuranti, dall’altro la sensazione di vivere da ormai quasi due anni una condizione ciclica di incertezza sulla pandemia contribuisce a diffondere e rafforzare nella popolazione stessa – e tanto più in quella parte che ha modificato i propri comportamenti e seguito scrupolosamente le raccomandazioni delle autorità sanitarie – un comprensibile senso di sfinimento.
Esiste pertanto – ed è oggetto di una discussione a sé stante, indipendente dal dibattito sulla variante omicron – il rischio che la pandemia sia entrata in una fase in cui all’eventuale gravità di un nuovo, determinato quadro epidemiologico non corrisponda una commisurata reazione da parte della popolazione. E in particolare si è parlato del rischio che un certo sentimento di rassegnazione e indifferenza riguardo a quel quadro possa diventare una risposta prevalente rispetto a sentimenti di timore, disincentivando comportamenti di maggiore cautela e attenzione.
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Secondo un recente sondaggio dell’istituto di statistica Ipsos, il timore espresso dalla popolazione in Italia riguardo all’aumento dei contagi è generalmente cresciuto di conseguenza, tornando ai livelli di maggio: il 78 per cento ritiene che i contagi continueranno a salire. A fronte di questa situazione, il 34 per cento della popolazione – la maggioranza relativa – crede che il peggio sia passato, mentre il 16 per cento pensa che debba ancora arrivare e il 27 per cento che l’emergenza sia ora al suo apice (il 23 per cento non si esprime).
In un altro sondaggio condotto da Ipsos negli Stati Uniti tra il 3 e il 6 dicembre, il 94 per cento della popolazione dichiarava di essere a conoscenza della variante omicron. Ma riguardo alla possibilità di cambiare i propri programmi in funzione dei nuovi rischi di contagio, soltanto il 23 per cento aveva affermato che probabilmente li avrebbe annullati, e soltanto il 28 per cento che probabilmente avrebbe smesso di riunirsi con altre persone al di fuori della propria cerchia familiare.
In generale, la situazione è profondamente cambiata rispetto alla primavera del 2020, quando la scoperta di una nuova malattia molto contagiosa e potenzialmente mortale, in assenza di cure e di vaccini, portò moltissime persone in diversi paesi del mondo a fare scorte di cibo e di carta igienica, e a rimanere in isolamento per mesi. E il fatto che la COVID-19, grazie alla disponibilità dei vaccini, non sia più percepita come un pericolo negli stessi termini in cui lo era all’inizio della pandemia complica inevitabilmente gli sforzi delle autorità sanitarie per rallentare la diffusione della variante omicron.
Alcuni specialisti e specialiste della comunicazione del rischio – un vasto campo di studi che si occupa della comunicazione istituzionale in materia di prevenzione dei rischi e gestione delle emergenze – definiscono «apocalissi noiose» quegli eventi potenzialmente catastrofici che non vengono percepiti come tali perché i processi più estesi e generali che contribuiscono a determinarli – processi sociali, culturali e naturali – non sono ritenuti fenomeni meritevoli di attenzione, a causa della nostra assuefazione a quei processi. E, secondo alcuni osservatori e sotto certi aspetti, la pandemia potrebbe a questo punto essere descritta in questi termini.
In un certo senso è come se stessimo vedendo lo stesso film horror da 21 mesi, ha scritto lo psicologo americano Adam Grant, docente alla Wharton Business School della University of Pennsylvania e collaboratore del New York Times. «E quando hai visto l’assassino saltare fuori brandendo un’arma 10 volte – anche se poi lo hai visto uccidere qualcuno – non ti spaventa più allo stesso modo».
Tralasciando il senso di sfinimento e rassegnazione, e quello di relativa sicurezza individuale percepita grazie alla fiducia nei vaccini, Grant si è chiesto quale altra ragione abbia portato molte persone ad allentare progressivamente le restrizioni e dismettere alcune abitudini e pratiche tuttora fondamentali per la limitazione dei contagi. È accaduto perché in tutto questo tempo, secondo Grant, è come se ci fossimo sottoposti a un lungo ciclo di terapia dell’esposizione, quel tipo di terapia cognitivo-comportamentale in grado di alleviare le fobie introducendo nell’esperienza del paziente la situazione o l’oggetto temuti.
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Nel caso molto noto e citato dell’aracnofobia, per esempio, la semplice vista di un ragno è in grado di attivare l’amigdala, la parte del cervello che gestisce le emozioni e la paura, parte fondamentale per il rilevamento dei pericoli. L’amigdala agisce come una sorta di allarme di sicurezza centrale che prevale su qualsiasi altra informazione nella testa di una persona e la induce a intraprendere subito un’azione che la protegga dalla minaccia percepita, che sia fuggire o combattere.
L’obiettivo della terapia dell’esposizione è quello di rendere familiare un determinato stimolo pauroso al punto da non percepirlo più come una minaccia. A un certo punto, il lavoro dell’amigdala smette quindi di essere predominante rispetto a quello di altre aree del cervello, come per esempio la corteccia prefrontale, uno dei più evoluti centri del pensiero, che rende possibile la pianificazione e l’organizzazione.
I due principali approcci alla terapia dell’esposizione in psicoterapia prevedono la cosiddetta desensibilizzazione sistematica oppure l’immersione (flooding). La prima comporta un’introduzione graduale, in dosi via via crescenti, dello stimolo spaventoso nell’esperienza del paziente. È peraltro lo stesso approccio suggerito da alcune promettenti app per smartphone che curano le fobie attraverso la realtà aumentata.
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L’immersione è un approccio abbastanza diverso, e prevede da subito un’esperienza prolungata dello stimolo ansiogeno, senza che il paziente abbia possibilità di evitarlo. Secondo questo approccio, far cadere un ragno su una persona che soffre di aracnofobia, per esempio, dovrebbe inizialmente determinare una risposta ansiosa di massima intensità ma successivamente determinare un decremento fisiologico di quella risposta. La speranza, ha spiegato Grant, è che la persona «dopo essere sopravvissuta illesa a quell’esperienza, si renderà conto che il suo terrore era stato mal riposto e avrà meno paura dei ragni in seguito».
Durante la pandemia, secondo Grant, miliardi di persone sono state in un certo senso sottoposte a entrambi gli approcci terapeutici contro le fobie. Nella primavera del 2020, un agente patogeno invisibile e letale è improvvisamente comparso nelle vite di tutti, uccidendo migliaia di persone in tutto il mondo. In quella prima fase – di “immersione” – televisioni, giornali e siti di informazione mostrarono le immagini di pazienti che avevano bisogno di ventilazione assistita attraverso caschi e mascherine con ossigeno, o che necessitavano di essere intubati nelle terapie intensive.
Da quel momento in poi, ogni nuova comunicazione riguardo a nuove ondate di contagi ha invece prodotto un effetto a lungo termine assimilabile a quello della desensibilizzazione sistematica. Aver ricevuto allarmi, reali o falsi che fossero, per un così lungo periodo di tempo ha inevitabilmente condizionato le persone, inducendo molte di loro a smettere di temere la COVID-19 come la temevano all’inizio. «È come se avessimo accumulato anticorpi contro la paura», ha sintetizzato Grant, e ogni volta che usciamo di casa senza ammalarci finisce per desensibilizzarci ulteriormente.
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Il risultato è che molte persone sono oggi stanche di aver paura, o anche semplicemente stanche, a prescindere dal tipo di comunicazione ricevuta nel corso degli ultimi 21 mesi. Numerosi studi dimostrano che evocare sentimenti di paura sia effettivamente utile a motivare le persone e a condizionarne atteggiamenti, intenzioni e comportamenti, inducendole a evitare i pericoli. Può portarle a smettere di fumare, per esempio, o a indossare le cinture di sicurezza. Ma per quanto intenso possa essere, lo stato emotivo della paura tende anche a essere relativamente effimero, e questo può ridurre la sua efficacia come motivazione per le persone a cambiare di continuo il proprio comportamento.
Secondo un’analisi condotta su diversi studi riguardo alla comunicazione dei rischi e delle misure di contrasto della diffusione dell’HIV (il virus collegato all’AIDS), gli argomenti che inducono sentimenti di paura sono generalmente associati a un aumento della percezione del rischio nell’immediato ma anche a una riduzione delle conoscenze sulla profilassi e una diminuzione dell’utilizzo del preservativo. La diffusione di servizi di consulenza e test per l’HIV è invece associata a una diminuzione della percezione del rischio ma a un aumento delle conoscenze riguardo all’uso del preservativo e a un cambiamento duraturo dei comportamenti.
Sulla base dei risultati di questi studi, secondo Grant, è possibile affermare che la paura sia un fattore potenzialmente utile a motivare determinate azioni “una tantum”. All’inizio del 2020 era uno stato emotivo probabilmente adatto a incentivare le persone a ricevere per la prima volta il vaccino. Quello stesso tipo di messaggio potrebbe invece essere molto meno efficace quando si tratta di indurre comportamenti ripetuti come ricevere una seconda dose e, più recentemente, un richiamo per aumentare la protezione contro la variante omicron.
Alcuni approcci diversi e promettenti segnalati da Grant in materia di comunicazione da parte delle autorità sanitarie suggeriscono di incentivare le vaccinazioni attraverso l’invio di messaggi non diretti alla stimolazione di sentimenti di paura. In alcuni esperimenti i messaggi riguardo al vaccino antinfluenzale si sono dimostrati più efficaci, per esempio, quando erano ideati come promemoria personalizzati che informavano ciascun paziente della disponibilità di una dose di vaccino già messa da parte per lei o per lui.
In un articolo pubblicato in formato preprint da ricercatori e ricercatrici del Dipartimento di sociologia dell’Università di Stanford, anche il riferimento testuale alla responsabilità civica di «ricambiare i sacrifici» degli operatori e delle operatrici sanitarie è stato collegato a una maggiore persuasività dei messaggi rivolti al pubblico.
Per incentivare le vaccinazioni, è inoltre da tempo ritenuto un approccio preferibile quello di non tentare di respingere o sminuire le paure delle persone facendo riferimento ad argomenti generali riguardo alla sicurezza e all’efficacia dei vaccini. Studi citati da Grant mostrano come le comunicazioni siano tendenzialmente più convincenti quando prendono in considerazione argomenti contrari riconoscendo un’incertezza di fondo. «Un messaggio più persuasivo e onesto è dire che ovviamente i vaccini comportano dei rischi ma le migliori prove disponibili suggeriscono che i rischi della COVID-19 siano molto più probabili e molto più gravi», scrive Grant.
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Esiste infine la possibilità che alcune osservazioni fatte da funzionari governativi, esperti e giornalisti siano recepite in modi imprevisti e del tutto contrari alle intenzioni di chi le condivide e le mette in circolazione. È piuttosto frequente, per esempio, il caso di comunicazioni che sottolineano le basse percentuali di vaccinazione in determinate aree. Si presume quindi che le persone di quelle aree interpretino quel messaggio in questi termini: “Se la maggior parte dei tuoi vicini non è vaccinata, sei in pericolo!”. «Ma sfortunatamente molte di loro ne recepiscono uno diverso: “La maggior parte dei tuoi vicini non vede la COVID come una minaccia o non considera sicuri i vaccini”», conclude Grant.
Come sostenuto dallo psicologo Robert Cialdini nel libro Le armi della persuasione, in condizioni di incertezza le persone osservano quello che fanno altre persone per trarre spunto su quale sia il comportamento più appropriato. Per questo motivo sapere che molte persone in un determinato luogo non sono vaccinate potrebbe indurne altre di quel luogo a non vaccinarsi, anziché il contrario.
Per questa stessa ragione, alcuni studi suggeriscono che le comunicazioni da parte delle autorità sanitarie potrebbero ottenere risultati migliori se non si concentrassero sulle percentuali. Indicare il numero assoluto di persone vaccinate in un determinato paese potrebbe servire a cambiare la percezione della “norma” e far sembrare i vaccini molto popolari in generale, evitando di concentrare l’attenzione sulla parte di popolazione non ancora vaccinata.