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  • Venerdì 24 dicembre 2021

Le acrobazie delle squadre di basket NBA per continuare a giocare, nonostante la pandemia

Per sostituire i positivi e i contatti dei positivi, stanno ingaggiando giocatori della lega inferiore o fuori dal campionato da anni

Il cestista statunitense Joe Johnson, ingaggiato dai Boston Celtics dopo tre anni di inattività (AP Photo/Winslow Townson)
Il cestista statunitense Joe Johnson, ingaggiato dai Boston Celtics dopo tre anni di inattività (AP Photo/Winslow Townson)

Da alcune settimane molte squadre della NBA (il più importante campionato di basket nordamericano) stanno affrontando il problema di avere pochi giocatori a disposizione, a causa dei numerosi casi positivi, e contatti di positivi, che hanno costretto diversi atleti a mettersi in isolamento per almeno dieci giorni, così come prevede il protocollo NBA per il COVID-19. Negli ultimi giorni sono state rimandate diverse partite, altre si sono giocate con rose ampiamente riviste, e si prevede che la situazione possa peggiorare ulteriormente.

La lega ha dato quindi la possibilità alle squadre di ingaggiare giocatori attualmente senza contratto per un periodo massimo di 10 giorni: alcuni giocano nella cosiddetta G-League, il campionato inferiore, altri non facevano una partita professionistica da anni.

Il caso di cui si è parlato di più è stato quello dei Boston Celtics, che negli ultimi giorni avevano 7 giocatori fuori rosa per il coronavirus. I Celtics hanno quindi deciso di ingaggiare Joe Johnson, cestista di 40 anni con una lunga carriera alle spalle in NBA, che però non giocava una partita dal 2018.

Negli ultimi anni Johnson non aveva smesso del tutto di giocare, ma non aveva più partecipato a campionati professionistici: era infatti diventato un giocatore della Big3, una lega di basket 3 contro 3 fondata dal rapper Ice Cube. Johnson, che aveva iniziato la sua carriera nel 2001 proprio con i Celtics, ha fatto il suo nuovo esordio in NBA il 22 dicembre contro i Cleveland Cavaliers, entrando negli ultimi 2 minuti e segnando 2 punti.

Il caso di Johnson è particolarmente strano, considerata l’età, ma ci sono vari altri giocatori che sono tornati in NBA dopo diverso tempo dall’ultima partita giocata nel campionato.

Tra questi ci sono Isaiah Thomas e Lance Stephenson, che hanno rispettivamente 32 e 31 anni, e che dopo aver giocato per molte stagioni ad alto livello avevano trovato un accordo con una squadra di G-League (la NBA Development League, un campionato minore riservato a giocatori giovani che non sono ancora pronti per la NBA, o a giocatori rimasti senza contratto). La scorsa stagione Thomas aveva giocato tre sole partite in NBA con i New Orleans Pelicans, prima di tornare nella G-League, e ora è stato ingaggiato dai Los Angeles Lakers, sempre con un contratto di 10 giorni. Stephenson invece è stato ingaggiato dagli Atlanta Hawks: aveva giocato la sua ultima partita in NBA nel 2019.

Un caso ancora più particolare ha riguardato i Brooklyn Nets, squadra attualmente al primo posto della Eastern Conference (una delle due macro-divisioni della NBA) che però dovrà recuperare alcune partite rinviate.

A ottobre i Nets avevano deciso di mettere fuori rosa Kyrie Irving, uno dei giocatori più forti e talentuosi dell’intera lega. Irving, che si era già detto contrario ai vaccini, non aveva voluto dire se si fosse vaccinato o meno, e questo era diventato un problema dopo che il governo locale di New York, dove giocano i Nets, aveva introdotto l’obbligo di mostrare una certificazione vaccinale per entrare nei palazzetti della città.

Il 17 dicembre la dirigenza della squadra ha annunciato però di avere cambiato idea. Dopo che sette giocatori erano risultati positivi, ha detto di voler reintegrare Irving in rosa, attirandosi anche parecchie critiche da commentatori e appassionati (il giorno dopo l’annuncio, Irving è risultato positivo al coronavirus).

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Per il momento la lega ha escluso di sospendere il campionato, ma la situazione potrebbe peggiorare e in generale il rinvio di alcune partite sta già creando problemi con il calendario. Le squadre NBA giocano infatti tantissime partite a breve distanza l’una dall’altra (82 solo della stagione regolare, a cui vanno poi aggiunte quelle dei playoff, per chi si qualifica): riprogrammarle non sarà facile, soprattutto se il numero di quelle rimandate dovesse progressivamente aumentare.

È un problema anche per lo spettacolo e la “correttezza” del campionato, diciamo così, perché squadre molto forti potrebbero trovarsi a giocare tante partite con giocatori provenienti dalla G-League o “richiamati” dopo diverso tempo di sostanziale inattività.

Negli ultimi giorni una delle maggiori preoccupazioni ha riguardato le cinque partite che si giocano il giorno di Natale, in cui gli ascolti televisivi sono tra i più alti di tutto l’anno: il calendario viene fatto in modo che in quel giorno giochino le squadre più forti della NBA, e le partite vengono trasmesse una dopo l’altra, così da da essere viste in diretta in qualsiasi fuso orario degli Stati Uniti.

L’NBA al momento non ha annullato le partite di Natale, ma ha fatto sapere che entro il 24 dicembre deciderà se spostarne alcune. In un’intervista a ESPN, il capo della lega, Adam Silver, ha detto che ad oggi «non è prevista la sospensione della stagione», e che «valutando tutti i fattori, la cosa giusta e responsabile da fare è continuare a giocare».

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