La nuova indagine sulla strage di piazza della Loggia
La procura di Brescia ha indagato due uomini, allora giovanissimi, accusati di aver messo la bomba che uccise 8 persone nel 1974
A 47 anni di distanza dalla strage di piazza della Loggia, la procura di Brescia ha chiuso la nuova inchiesta su ciò che avvenne la mattina del 28 maggio 1974, quando una bomba piazzata in un cestino dei rifiuti nel luogo dove si svolgeva una manifestazione antifascista esplose uccidendo otto persone e ferendone 102. Due uomini, entrambi veronesi e all’epoca giovanissimi, sono indagati per concorso in devastazione e strage. Si chiamano Marco Toffaloni e Roberto Zorzi e secondo la procura sarebbero gli esecutori materiali della strage e cioè la manovalanza al servizio di Carlo Maria Maggi, il medico fascista capo in Veneto dell’organizzazione eversiva Ordine Nuovo, condannato all’ergastolo come ideatore della strage e morto nel dicembre del 2018.
La strage di Brescia fu una delle principali del periodo della cosiddetta “strategia della tensione”, che precedette e avviò gli anni di piombo e che fu portata avanti da vari settori dello stato con modalità nascoste e ambigue e con un esteso ed eterogeneo insieme di iniziative e interventi. Lo scopo fu quello di alimentare il clima di paura e incertezza dovuto alle stragi fasciste, e in questo modo scongiurare una trasformazione del contesto politico in senso progressista, o addirittura sostituire l’assetto istituzionale esistente con uno più reazionario, in anni in cui il Partito comunista italiano era il più forte dell’occidente e in forte crescita. Le stragi, da quella di piazza Fontana del 12 dicembre del 1969 a quella della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, furono compiute, secondo le verità processuali, da esponenti della destra eversiva con la complicità di apparati deviati dello Stato e di servizi segreti stranieri.
Toffaloni nel maggio del 1974 non aveva ancora 18 anni e quindi per lui è competente il Tribunale dei minori. Sia lui sia Zorzi, allora ventenne, gravitavano nell’ambiente di Ordine Nuovo del Veneto e più in generale nell’area della destra eversiva. Secondo le ricostruzioni della procura, che si è avvalsa di una perizia antropometrica (cioè una verifica delle identità attraverso l’analisi di immagini e filmati), Toffaloni comparirebbe in una fotografia tristemente celebre: mostra un uomo, Arnaldo Trebeschi, che si dispera accanto al corpo del fratello Alberto, una delle vittime. Dietro di lui, tra i presenti, si distinguerebbe il volto di Toffaloni, allora diciassettenne. Le indagini hanno anche verificato che il 28 maggio 1974 il giovane non era a scuola.
Zorzi oggi vive nel Nord Ovest degli Stati Uniti, nello stato di Washington, dove è titolare di un allevamento di cani dobermann con un nome che probabilmente passa inosservato tra gli americani: Allevamento Del Littorio. Toffaloni invece è in Svizzera, ha cambiato nome e vive in un piccolo paese di montagna. Nel 2015 fu convocato a Berna per un incidente probatorio richiesto dall’allora procuratore dei minori Emma Avezzù. Davanti al magistrato però non aprì bocca.
Alla notifica di chiusura delle indagini si è arrivati con quello che il procuratore capo di Brescia, Francesco Prete, ha definito «un articolato corpus probatorio, frutto di complesse attività investigative e del contributo conoscitivo fornito da protagonisti dell’epoca». Informazioni, ha detto il procuratore, arrivate da persone che «hanno ritenuto di lasciarsi completamente alle spalle l’esperienza politica violenta di quegli anni».
Se la tesi dell’accusa venisse confermata nel processo, ha continuato Prete, «inserirebbe la posizione degli odierni indagati, senza fratture, nel quadro già tracciato dal precedente processo Brescia Ter conclusosi con la condanna all’ergastolo di Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi».
Il processo del 2017, appunto il Brescia Ter, aveva delineato la catena di comando dell’organizzazione della strage. A ideare l’attentato e a scegliere come obiettivo la manifestazione antifascista che si doveva svolgere a Brescia il 28 maggio fu, secondo i giudici, il capo di Ordine Nuovo del Veneto Carlo Maria Maggi. Parte attiva nell’organizzazione della strage fu Maurizio Tramonte, appartenente all’organizzazione ma anche confidente del Sisde, il servizio segreto civile italiano, con il nome in codice di Fonte Tritone.
La bomba fu confezionata nel retro del ristorante Lo Scalinetto alla Giudecca, a Venezia, una sorta di deposito del gruppo neofascista. Quindi fu portata fino a Verona da un altro ordinovista, Marcello Soffiati, e qui affidata a Carlo Digilio, detto Zio Otto, esperto di esplosivi, che la mise in sicurezza e pronta per essere attivata. Da Verona la bomba transitò a Milano e poi venne affidata agli esecutori materiali. I nomi degli autori materiali costituivano l’anello mancante della catena processuale. Emma Avezzù e Giuliana Tondina della Procura dei minori, il procuratore aggiunto Silvio Bonfigli e il sostituto procuratore Caty Bressanelli sono sicuri ora di averli scoperti.
A individuare Zorzi e Toffaloni si è arrivati soprattutto grazie alle rivelazioni di Gianpaolo Stimamiglio, padovano abitante a Verona, militante negli anni Settanta di Ordine Nuovo e dei Nuclei di Difesa dello Stato, altra organizzazione clandestina di estrema destra. Nel 2012 disse al Corriere della Sera di non essere un pentito ma di «voler smascherare chi ha organizzato certe cose approfittando dell’ingenuo fanatismo di alcuni ragazzini solo per denaro o per inseguire i propri interessi personali».
Secondo la testimonianza sarebbe stato lo stesso Toffaloni a rivelare a Stimamiglio il suo ruolo nella strage. L’ex ordinovista disse anche che quella di Brescia fu una strage che «affondava le sue radici Oltreoceano», alludendo ai servizi segreti americani. Le dichiarazioni di Stimamiglio sono state poi suffragate da interrogatori e riscontri. Fondamentale è stata anche la perizia antropometrica dei carabinieri del Ris che nel 2016 confrontarono i tratti del viso di Toffaloni, recuperato durante le indagini in decine di fotografie familiari, con quelle del ragazzo fotografato poco dopo l’esplosione della bomba. Nel corso di un incidente probatorio, un’udienza preliminare al processo, il Ris arrivò a concludere che quello ritratto nella foto di piazza della Loggia era proprio Toffaloni.
L’iter giudiziario per trovare e condannare mandanti ed esecutori della strage di Brescia fu, come altri processi per strage in Italia, lungo e tortuoso.
La bomba esplose alle 10:12 del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia mentre era in corso una manifestazione sindacale contro il terrorismo neofascista. L’ordigno, collocato in un cestino dei rifiuti, era stato realizzato, secondo una perizia effettuata nel 2012, con un chilo di dinamite e gelignite. Tre persone morirono subito, altre cinque successivamente in ospedale. Il giorno precedente alla strage ai quotidiani di Brescia era arrivata una lettera firmata Ordine Nero-Gruppo Anno Zero-Briexien Gau in cui venivano preannunciati attentati contro esercizi pubblici. Nel messaggio si diceva anche che con gli attentati si voleva ricordare Silvio Ferrari, un giovane fascista bresciano saltato in aria il 19 maggio 1974 mentre trasportava, sul pianale della sua Vespa, una ingente quantità di esplosivo.
Le indagini puntarono sugli ambienti neofascisti bresciani. Il primo processo, che durò fino al novembre del 1982, si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati. Tra di loro c’era anche Ermanno Buzzi, che nel frattempo era stato strangolato nel carcere di Novara da due figure importanti del fascismo italiano, Mario Tuti e Pierluigi Concutelli. Buzzi aveva detto, poco tempo prima di essere ucciso: «Avrò parecchio da dire su certi camerati», riferendosi al processo d’appello durante il quale sarebbe comparso in aula. Buzzi fu però stranamente trasferito dal carcere di Brescia a quello che lui definì «la fatal Novara», dato che sapeva che in quel carcere erano detenuti Tuti e Concutelli che ne avevano deciso l’esecuzione.
Un altro filone di indagine cominciò nel 1984. Anche in questo caso i processi si conclusero con assoluzioni. Emersero però, durante il dibattimento, alcuni elementi che i pubblici ministeri di allora giudicarono «inquietanti». Primo tra tutti il fatto che due ore dopo lo scoppio della bomba un vicequestore, Aniello Damare, diede ordine alle autopompe dei pompieri di ripulire con getti d’acqua piazza della Loggia. Le tracce dell’esplosivo vennero cancellate prima ancora che i tecnici della procura potessero fare i rilievi. Scomparvero anche i frammenti dell’ordigno, estratti dai corpi dei feriti e delle persone decedute in ospedale.
Nel 2005 un terzo filone di indagine portò al rinvio a giudizio di sei persone: Delfo Zorzi (solo una omonimia con Marco Zorzi), ex militante di Ordine Nuovo veneto e oggi cittadino giapponese con il nome di Hagen Roi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Giovanni Maifredi e Francesco Delfino. Quest’ultimo, ex generale dei carabinieri morto nel 2014, figura molto discussa e al centro di importanti processi, era all’epoca comandante dei carabinieri a Brescia. In primo grado gli imputati furono tutti assolti; nel 2012 il processo d’appello confermò le assoluzioni però indicò le responsabilità di tre militanti fascisti morti: Carlo Digilio, Ermanno Buzzi e Marcello Soffiati.
La Corte di Cassazione nel 2014 confermò le assoluzioni di Delfo Zorzi e Francesco Delfino (Rauti era nel frattempo morto), ma annullò quelle di Tramonte e Maggi. Il 22 luglio 2015 i due imputati furono condannati all’ergastolo, e la sentenza venne confermata dalla Corte di cassazione il 20 giugno 2017. Tramonte è l’unica persona attualmente in carcere per la strage di piazza della Loggia.
Ora si aprirà l’iter relativo alla nuova inchiesta. Dopo la chiusura ufficiale delle indagini toccherà al pubblico ministero chiedere o meno il rinvio a giudizio per Toffaloni e Zorzi. Per il primo, 17enne all’epoca dei fatti, se venisse applicata la disciplina per i minori il reato potrebbe essere prescritto.