L’Etiopia ha usato un accordo di pace per iniziare una guerra?
Lo sostiene il New York Times, parlando dell'accordo con l'Eritrea che valse il Nobel per la Pace al primo ministro etiope
Un’inchiesta del New York Times ha raccontato alcuni dettagli sui meccanismi che più di un anno fa avevano portato all’inizio della guerra tra il governo federale etiope e i separatisti della regione del Tigrè: i due schieramenti stanno continuando a combattersi ancora oggi e si sono accusati reciprocamente, e sono stati accusati da organizzazioni internazionali per i diritti umani, di avere commesso crimini estremamente gravi contro la popolazione civile. L’inchiesta del New York Times ha sollevato alcuni importanti dubbi sulla versione dei fatti sempre raccontata dal primo ministro etiope, Abiy Ahmed, che nel 2019 vinse il Premio Nobel per la Pace per avere fatto uno storico accordo di pace con la vicina Eritrea.
Ahmed ha sempre sostenuto di aver iniziato la guerra in Tigré in reazione a un attacco dei separatisti, e ha negato per mesi il coinvolgimento dell’esercito eritreo nel conflitto. L’inchiesta, però, racconta una storia diversa: sostiene che Ahmed avrebbe iniziato ad attrezzarsi per la guerra in Tigré ben prima dell’attacco, e prima di vincere il Nobel, e avrebbe sfruttato l’accordo di pace fatto con l’Eritrea per pianificare il conflitto insieme al suo nuovo alleato: il dittatore eritreo Isaias Afewerki.
L’inchiesta del New York Times è basata su una serie di interviste anonime con alcuni funzionari etiopi, alcuni ancora in carica e altri in esilio, che hanno dato informazioni importanti sulle attività del primo ministro Ahmed nei mesi precedenti all’inizio della guerra in Tigrè, nel novembre del 2020.
La guerra era iniziata dopo il progressivo intensificarsi delle tensioni tra le due parti, sfociate nell’attacco, da parte dei separatisti del Fronte di liberazione del Tigrè (TPLF), contro alcuni soldati federali nella caserma principale di Macallé, la capitale del Tigrè. A seguito di quell’attacco, Ahmed aveva ordinato all’esercito federale di avviare un’offensiva militare contro il governo regionale del Tigrè.
All’esercito etiope si era poi aggiunto quello eritreo, seppur con modalità non ancora chiarissime. Ahmed ne aveva ammesso la presenza solo mesi dopo l’inizio della guerra, e ricostruire quelle fasi del conflitto non è per niente facile, anche perché il governo etiope aveva bloccato completamente la copertura mediatica della guerra vietando l’ingresso ai giornalisti, o arrestandoli.
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Ahmed, che aveva vinto il Nobel per la Pace nel 2019, sostenne di aver iniziato una guerra in Tigrè in risposta all’attacco dei separatisti: «il governo federale – disse allora – è stato costretto al confronto militare». Da quanto è emerso dall’inchiesta del New York Times, però, al momento dell’inizio della guerra Ahmed aveva già avviato, da mesi, una serie di operazioni per preparare l’offensiva contro il Tigrè.
Nel concreto, subito dopo aver firmato lo storico accordo di pace con il presidente e dittatore eritreo Isaias Afewerki nel luglio del 2018, Ahmed lo avrebbe incontrato almeno 14 volte, alcune delle quali in segreto, con incontri a porte chiuse. Ahmed avrebbe poi inviato una serie di soldati e aerei militari in Eritrea: l’Eritrea avrebbe addestrato circa 60mila soldati poi inviati nel Tigré, e tra i due paesi ci sarebbero stati anche scambi di informazioni di intelligence.
Secondo quanto affermato dai funzionari intervistati dal New York Times, in quei mesi Ahmed e Afewerki avevano poi discusso più volte della pianificazione del conflitto in Tigrè, e avevano licenziato e minacciato i militari e funzionari che erano in disaccordo con loro.
In altre parole, dall’inchiesta del New York Times emerge che l’accordo di pace tra l’Etiopia e l’Eritrea si sarebbe trasformato praticamente subito in un’alleanza di guerra che avrebbe portato, poco più di due anni dopo, all’inizio della guerra nella regione del Tigrè.
Ahmed e Afwerki condividevano una forte ostilità verso il Fronte di liberazione del Tigrè, che governò l’Etiopia dal 1991, quando rovesciò il regime marxista di Menghistu Haile Mariam, al 2018, quando divenne primo ministro Ahmed.
L’Eritrea aveva ottenuto l’indipendenza dall’Etiopia nel 1993, e Afwerki riteneva il TPLF colpevole, tra le altre cose, della gravissima guerra avvenuta al confine tra i due paesi tra il 1998 e il 2000, in cui furono uccise circa 100mila persone.
Ahmed, a sua volta, aveva fatto parte del governo del TPLF prima di diventare primo ministro, ma tra lui e i membri del TPLF erano rimaste radicate ostilità di tipo etnico, che in Etiopia sono da sempre al centro di scontri e violenze: Ahmed fa parte degli Oromo, il gruppo etnico più grande ma anche più marginalizzato dell’Etiopia, e il TPFL era stato per anni la forza dominante nel governo federale, pur essendo i tigrini (quelli che abitano il Tigrè) una netta minoranza etnica in Etiopia.
Diventato primo ministro, Ahmed aveva mostrato subito ostilità nei confronti del TPLF e dei tigrini, accusandoli di corruzione e abusi dei diritti umani, revocando molte delle politiche introdotte dal loro governo, e licenziandoli anche dal proprio staff. Il TPLF, un partito grande e influente, venne anche escluso dal governo federale.
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L’avvicinamento tra Afewerki e Ahmed divenne evidente praticamente subito dopo l’elezione di Ahmed a primo ministro, avvenuta ad aprile del 2018.
A luglio, con una svolta inaspettata e improvvisa nelle relazioni tra i due paesi, Ahmed e Afewerki si incontrarono all’aeroporto internazionale di Asmara, la capitale dell’Eritrea: si abbracciarono pubblicamente, scherzarono, e pochi giorni dopo firmarono un accordo di pace. Poi Afewerki visitò l’Etiopia, che riaprì dopo vent’anni la sua ambasciata in Eritrea. I confini tra i due paesi riaprirono e pochi giorni dopo i due leader firmarono un altro accordo di pace.
Fu soprattutto per questo, oltre che per le iniziali riforme di democratizzazione introdotte in Etiopia, che nel 2019 Ahmed vinse il Premio Nobel per la Pace, che fu assegnato poco più di un anno dopo la firma degli accordi di pace con l’Etiopia.
Henrik Urdal del Peace Research Institute Oslo (PRIO), istituto di ricerca indipendente dalla Fondazione Nobel ma tra le fonti più affidabili sui criteri con cui vengono assegnati i premi, ha detto al New York Times che la decisione di assegnare il Nobel ad Ahmed fu combattuta, e per certi versi considerata azzardata dallo stesso comitato di assegnazione del premio, che non ha risposto alle richieste di commento da parte del giornale.
«Il comitato – ha detto Urdal – sapeva di correre un rischio»: le riforme liberali introdotte da Ahmed erano in parte fragili e facilmente reversibili (come infatti è stato: diverse libertà democratiche che Ahmed aveva concesso all’inizio del suo mandato sono state poi ritirate o ridotte) e lo stesso accordo di pace con Afewerki, un dittatore, aveva sollevato molti dubbi.
Secondo Urdal, a spingere il comitato ad assegnare il Nobel ad Ahmed fu anche la speranza di incoraggiarlo a procedere nella direzione delle riforme democratiche in Etiopia, paese che stava attraversando una grave crisi politica e stava affrontando un periodo di violenti scontri etnici.
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D’altra parte, scrive il New York Times, fu proprio il fatto di aver vinto il Nobel per la Pace a facilitare Ahmed nella pianificazione della futura guerra in Tigré: con il Nobel aveva guadagnato autorevolezza e credibilità e aveva continuato a presentarsi, e a essere considerato, come un’icona della nonviolenza.
La guerra iniziò circa un anno dopo l’assegnazione del Nobel: a settembre del 2020 il Tigrè tenne le elezioni locali nonostante le direttive di Ahmed, che le aveva vietate per un tempo indefinito, giustificando il divieto con la necessità di limitare i contagi da coronavirus. Il mese successivo il governo federale etiope interruppe quindi i finanziamenti e le relazioni politiche con il Tigré. Le tensioni crebbero, sfociando poi nell’attacco del TPLF alla caserma di Macallè, cui era poi seguita come detto l’offensiva militare di Ahmed e l’imposizione dello stato di emergenza.
Ahmed si aspettava una vittoria rapida e senza troppi morti, ma non andò così. L’esercito etiope raggiunse il Tigrè da sud, quello eritreo da nord: i due eserciti, ma anche le stesse milizie tigrine, si resero responsabili di gravi violenze, massacri e migliaia di stupri contro i civili, denunciati da numerose organizzazioni umanitarie e dalle Nazioni Unite. Secondo quanto emerso dalle ricostruzioni, le violenze dell’esercito eritreo furono particolarmente atroci. La guerra si trasformò in una gravissima crisi umanitaria.
Formalmente la guerra si è conclusa un anno fa, quando l’esercito federale ha ripreso il controllo di Macallè, precedentemente occupata dal TPLF. Ma le violenze sono continuate, il TPLF e l’esercito etiope hanno continuato a contendersi varie città e territori, e la guerra, lungi dal concludersi, è ancora in corso.
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