Quanto valgono i “toto-nomi” per il presidente della Repubblica
Diverse volte i nomi più citati prima dell'elezione sono stati “bruciati”, e dipende di solito da quant'è solida la maggioranza
Da oltre un mese è cominciato il dibattito politico intorno all’elezione del prossimo presidente della Repubblica, che si terrà a partire da metà gennaio e di cui si parla per ora soprattutto in relazione alle strategie dei partiti e ai possibili candidati, quello che nel gergo giornalistico viene chiamato “toto-nomi”. Questa volta, a differenza di altri precedenti, non ci sono candidati o candidate nettamente favoriti: il presidente del Consiglio Mario Draghi è uno dei pochi che potrebbe essere votato sia dal centrodestra che dal centrosinistra, ma una sua eventuale elezione al Quirinale stravolgerebbe gli equilibri politici e segnerebbe probabilmente la fine dell’attuale maggioranza, comportando forse le elezioni anticipate. Una prospettiva che, secondo molti, rende difficile la sua elezione.
Gli altri nomi che sono circolati sono quelli dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (la candidatura più discussa, anche solo per opinioni diverse su quanto sia seria), della ministra della Giustizia Marta Cartabia, dell’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato (candidato praticamente a ogni elezione degli ultimi vent’anni) e dell’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini. Ma sono ipotesi emerse più o meno ufficiosamente, e ciascuno di questi candidati potrebbe incontrare ostacoli o veti da una parte politica nel caso in cui dovesse essere proposto in forma più ufficiale.
In questa fase, infatti, quando manca circa un mese all’inizio delle votazioni (la data non c’è ancora, ma sarà nella seconda metà di gennaio), i partiti stanno attenti a non dichiarare troppo esplicitamente le loro strategie, per timore che il loro candidato venga “bruciato”: un’altra parola del gergo giornalistico e politico che si usa per indicare quando una candidatura viene affossata sul nascere, per esempio con un voto platealmente contrario nelle prime votazioni.
Un esempio di nome “bruciato” durante la cosiddetta Prima Repubblica è quello di Cesare Merzagora, nel 1955, la cui candidatura fu affossata per danneggiare politicamente quello che allora era il leader più potente della Democrazia Cristiana: Amintore Fanfani. Merzagora era presidente del Senato e venne imposto come candidato da Fanfani, il quale aveva numerosi avversari sia nella sinistra che all’interno del suo stesso partito. In una sorta di congiura che unì i socialisti e la destra della DC, Merzagora venne eliminato dalla corsa per il Quirinale da un folto gruppo di franchi tiratori ostili a Fanfani. Al quarto scrutinio, quando era necessaria solo la maggioranza assoluta, buona parte della DC e quasi tutti gli altri partiti fecero convergere i propri voti su Giovanni Gronchi, presidente della Camera.
Come ha raccontato il direttore dell’Espresso Marco Damilano nel podcast Romanzo Quirinale, una regola non scritta delle elezioni per il presidente della Repubblica è infatti che – con alcune eccezioni – il candidato proposto dal leader più forte viene sistematicamente bocciato per danneggiare il leader stesso. È una regola che però potrebbe servire a poco in queste elezioni, visto che nessun politico può vantare una forte leadership e influenza in Parlamento (a parte lo stesso Draghi, un cui intervento sembra però assai irrealistico).
Per affossare una candidatura, vengono utilizzati dei “mezzi tecnici”, cioè i franchi tiratori. Il termine è entrato nel gergo dell’elezione del presidente della Repubblica da quando lo usò Aldo Moro nel 1964 parlando con un altro leader democristiano, Carlo Donat-Cattin, per eliminare la candidatura di Giovanni Leone. Finito il colloquio, Donat-Cattin disse che di “mezzi tecnici” ne conosceva «solo tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori», scherzando sulle modalità tradizionali con cui nell’antichità avvenivano gli omicidi politici.
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Una delle elezioni più impreviste nella storia dei presidenti della Repubblica fu quella di Oscar Luigi Scalfaro, nel maggio del 1992. Le due candidature forti erano quelle di Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, entrambi della DC e in competizione tra loro. Ma nei primi scrutini si verificò una situazione di stallo. La corrente andreottiana stava lavorando per “bruciare” Forlani e convergere su Andreotti al momento giusto, tuttavia il 23 maggio ci fu la strage di Capaci in cui morirono il magistrato Giovanni Falcone e la sua scorta. La strage sconvolse l’opinione pubblica e mise una grande pressione sul Parlamento perché risolvesse in fretta la questione del Quirinale, che si tirava avanti da giorni. A quel punto il nome di Andreotti diventò però impraticabile, per via delle indagini che lo riguardavano sui suoi presunti legami con la mafia.
Al sedicesimo scrutinio venne quindi eletto Scalfaro, il presidente della Camera che aveva dato prova di saper gestire con fermezza le convulse sedute dell’aula di quei giorni.
Naturalmente non sempre un candidato viene eliminato ai primi scrutini. Nel 1999 la maggioranza del governo di centrosinistra riuscì per esempio a far eleggere Carlo Azeglio Ciampi al primo colpo con 707 voti a favore, 33 in più rispetto al quorum. Ciampi era stato presidente del Consiglio tra il 1993 e il 1994 e per tre volte ministro, ma era una figura percepita come tecnica, senza una forte identità politica, anche perché prima di fare politica era stato per oltre vent’anni governatore della Banca d’Italia. Per questo motivo centrosinistra e centrodestra riuscirono ad accordarsi sul suo nome. Prima di quella votazione gli altri nomi che circolavano erano quelli di Giuliano Amato, Rosa Russo Jervolino, Luciano Violante e Nicola Mancino.
Nelle elezioni del 2006 fu sempre il centrosinistra a essere protagonista, stavolta nella forma dell’Unione, la coalizione guidata da Romano Prodi che comprendeva una serie di partiti che andavano dall’Ulivo ai Democratici di Sinistra passando per l’Italia dei Valori. In quell’occasione fu il nome di Massimo D’Alema a essere “bruciato”. L’ex presidente del Consiglio si candidò con insistenza a quel giro, nel quale l’Unione poteva contare su più della metà dei cosiddetti “grandi elettori”, cioè l’insieme di parlamentari e delegati regionali che eleggono il presidente della Repubblica. L’idea era di farsi accettare anche dalla coalizione di centrodestra, la Casa delle Libertà, così da costruire un mandato presidenziale solido e trasversale, magari ottenuto al primo turno come con Ciampi.
Nei giorni precedenti all’elezione, i giornali diedero ampio spazio all’ipotesi D’Alema al Quirinale. Il primo maggio il Corriere della Sera, nel sommario in prima pagina scriveva: «I DS spingono per D’Alema al Colle, muro di Forza Italia». Poi uscì fuori l’ipotesi Ciampi bis, gradita tanto al centrosinistra quanto al centrodestra. Ciampi tuttavia rifiutò e quindi ricominciò il “toto-nomi” sui giornali, secondo cui l’ipotesi più probabile restava D’Alema, ma affiancata ad altri due nomi, Amato e proprio Giorgio Napolitano, allora senatore a vita ed ex presidente della Camera.
In sintesi, la candidatura di D’Alema venne “bruciata” da un errore di valutazione nel costruirla: la parte del centrosinistra a lui vicina avrebbe voluto che fosse votato al primo scrutinio da una maggioranza trasversale, ma Berlusconi non voleva saperne. Un presidente eletto da una sola parte politica nonostante la netta opposizione dell’altra è una cosa tecnicamente possibile, ma storicamente evitata per non rischiare di compromettere da subito la sua credibilità di figura sopra le parti.
L’Unione fu costretta quindi a cambiare candidato: a ridosso della prima votazione candidò Napolitano, che accettò l’incarico a patto di essere votato solamente dal quarto scrutinio in poi dalla maggioranza assoluta, composta solo dal centrosinistra che però aveva ripiegato su un candidato molto meno divisivo.
La richiesta di Napolitano di non essere proposto ai primi scrutini era legata a un rischio molto concreto e che ha vari precedenti, e che un politico di lungo corso come lui conosceva bene. E cioè che una candidatura fallisca, e quindi venga “bruciata”, nonostante tecnicamente esista una maggioranza per approvarla: perché l’elezione del presidente della Repubblica non è una questione soltanto numerica, ma si basa anche su momenti, inerzie e opportunità politiche.
Se Napolitano fosse stato votato ai primi scrutini soltanto dal centrosinistra, non avrebbe raggiunto per ben tre volte la soglia per essere eletto. Questo avrebbe con ogni probabilità logorato la sua candidatura, dando il tempo a malumori, potenziali sabotaggi e strategie contrapposte di accumularsi e attuarsi. Se i numeri di Napolitano fossero scesi, di scrutinio in scrutinio, la sua candidatura avrebbe avuto molta meno forza al quarto scrutinio, quello decisivo.
Ne fu una prova ciò che successe alla scadenza del primo mandato di Napolitano, nel 2013, quando ci furono candidature “bruciate” in maniera ancora più plateale.
Il contesto era diverso: poche settimane prima c’erano state le elezioni politiche in cui il Partito Democratico aveva preso più voti degli altri, pur non vincendole. L’allora segretario del PD Pier Luigi Bersani si consultò con l’avversario Berlusconi, e si accordarono sull’ex presidente del Senato Franco Marini. Nei giorni precedenti all’elezione i giornali pubblicarono però alcuni retroscena secondo cui, anche all’interno del PD, c’erano malumori per la candidatura di Marini. Il giorno dell’annuncio ufficiale della candidatura, il Corriere della Sera titolò: «Intesa su Marini, ma il PD è spaccato».
Al primo scrutinio Marini prese 521 voti, un numero che sarebbe diventato sufficiente dal quarto scrutinio in poi, e superiore a quello che in passato aveva eletto per esempio Leone. Ma in quel momento non bastò, e la strategia per eleggere Marini trasversalmente fallì. Non poteva essere riproposta perché alle votazioni successive avrebbe con ogni probabilità ottenuto risultati ancora peggiori: Marini era stato “bruciato”, probabilmente dai parlamentari fedeli a Renzi, contrario alla candidatura di Marini.
Nei giorni precedenti erano circolati bene o male i soliti nomi: D’Alema, Walter Veltroni, Amato. Ma c’era anche l’ipotesi Romano Prodi. Al quarto scrutinio venne candidato e ci fu la celebre disfatta: Prodi non ottenne nemmeno 400 voti, perdendone un centinaio (quelli solitamente chiamati “i 101 franchi tiratori”) tra vari pezzi rivali del PD, che si sarebbero rinfacciati per anni quel fallimento (oggi le responsabilità sono attribuite principalmente ai parlamentari fedeli a Renzi e a D’Alema). Alla fine, quando diventò evidente che il Parlamento era troppo frammentato per accordarsi su un nome, i partiti chiesero e ottennero da Napolitano la sua disponibilità a essere rieletto.
Due anni dopo, lo stesso Parlamento era in realtà molto cambiato per alleanze e rapporti di forza. Renzi nel frattempo era diventato presidente del Consiglio ed era nel suo momento di maggiore forza. Consapevole della sua posizione, evitò cautamente di esprimere anzitempo una candidatura forte, che sarebbe stata senz’altro respinta dall’opposizione o “bruciata” al primo scrutinio per indebolire lo stesso Renzi.
Il “toto-nomi” all’epoca ruotava attorno a diversi ex segretari di partito: Dario Franceschini, Piero Fassino, Bersani, Veltroni, D’Alema, ma anche l’ex segretario del Partito Popolare Pier Luigi Castagnetti e l’ex segretario del Centro Cristiano Democratico Pier Ferdinando Casini. Tuttavia, i gruppi parlamentari del PD volevano eleggere qualcuno fuori dal giro di quei nomi e perciò, come scrisse il Corriere della Sera già il 25 gennaio 2015, restavano in campo tre nomi: Sergio Mattarella, giudicato «in pole position», Sergio Chiamparino, allora presidente del Piemonte, e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
Il centrodestra all’opposizione provò di nuovo a candidare Amato, ma Renzi rifiutò poiché giudicava la proposta frutto di un accordo tra Berlusconi e le correnti di sinistra del PD per indebolire la sua leadership. L’ipotesi di Mattarella, ex ministro ed ex democristiano, diventò sempre più probabile nei giorni successivi: era un nome gradito al centrosinistra, e sul quale era difficile per il centrodestra trovare argomenti contrari. Questo nonostante Berlusconi avesse delle riserve, visto che Mattarella era stato tra i ministri che nel 1990 si erano dimessi per contestare la legge Mammì sulle emittenti private, che favoriva le reti Fininvest di Berlusconi.
Renzi infine annunciò la candidatura di Mattarella il giorno prima del quarto scrutinio, causando scompiglio nel centrodestra. Fu il gesto a cui si riconduce la rottura del famoso “patto del Nazareno” con Berlusconi, che si dice prevedesse l’individuazione di un nome comune. Come previsto, Mattarella venne eletto appunto quando la maggioranza qualificata (i due terzi degli elettori) non era più necessaria, ma lo votarono comunque in 665, un numero ben più alto della maggioranza richiesta.
Il valore del “toto-nomi”, insomma, cambia a seconda di come è composta la platea dei “grandi elettori”. Se c’è un partito o una coalizione che ha la forza di scegliere un candidato senza il rischio che venga eliminato da franchi tiratori o da possibili veti incrociati, allora uno dei nomi che circolano prima dell’inizio delle votazioni ha solitamente una probabilità più alta di venire effettivamente eletto. Viceversa, se non c’è una maggioranza compatta e se la seduta comune che deve eleggere il presidente è frammentata (come è il caso della prossima elezione), è più difficile che ci sia una convergenza su uno dei candidati, e la votazione può facilmente raggiungere esiti inaspettati.
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