Le farsesche elezioni a Hong Kong
Un anno fa la vittoria dell'opposizione democratica era data per certa; oggi quella stessa opposizione democratica non esiste più
Domenica si tengono a Hong Kong, città cinese semiautonoma, le elezioni per il rinnovo del Consiglio legislativo, il parlamento cittadino. Le elezioni, che si svolgeranno con un anno di ritardo, sono considerate una farsa da tutti gli osservatori: nel corso dell’ultimo anno e mezzo, il governo cinese ha annullato gran parte dei diritti politici della popolazione di Hong Kong, represso l’opposizione, arrestato o costretto alla fuga centinaia di persone e cambiato la legge elettorale per fare in modo che soltanto candidati amici possano partecipare.
Inizialmente le elezioni per il consiglio legislativo avrebbero dovuto tenersi il 6 settembre del 2020. In quel periodo, l’opposizione democratica di Hong Kong – cioè quei partiti politici e quelle organizzazioni che chiedono democratizzazione e maggiore autonomia per la città, anche se la maggior parte di loro non vuole l’indipendenza dalla Cina – si trovava alla massima popolarità di sempre: dopo anni di proteste a favore della democrazia, nel novembre del 2019 i candidati democratici avevano stravinto le elezioni per i consigli distrettuali, ottenendo 390 seggi su 452.
Era una vittoria in gran parte simbolica, perché il potere politico dei consigli distrettuali è molto limitato, ma che mostrava comunque la forza del movimento a favore della democrazia. Dopo la vittoria, la strategia degli attivisti democratici era di puntare alle elezioni del Consiglio legislativo previste per il 2020, e di ottenere tutti i 35 seggi (su 70) per cui si votava a scrutinio universale.
Il Partito comunista cinese, a quel punto, si era mosso per evitare a ogni costo una vittoria dei democratici.
A luglio del 2020 aveva fatto approvare una nuova “legge sulla sicurezza” a Hong Kong che di fatto aveva dato alle autorità locali e cinesi la completa autonomia di perseguire e incarcerare gli oppositori politici, trasformando in reato di sedizione praticamente qualsiasi attività critica o contraria al volere del Partito comunista. Pochi giorni dopo l’approvazione della legge, Carrie Lam, la governatrice di Hong Kong, filocinese, aveva annunciato il posticipo di oltre un anno del voto per il Consiglio legislativo. La decisione era stata giustificata con la pandemia da coronavirus, anche se a Hong Kong il numero di contagi era contenuto e le restrizioni molto lasche.
Tra il luglio del 2020 e oggi, le autorità cinesi e quelle di Hong Kong hanno messo in atto una repressione feroce nei confronti dell’opposizione.
Hanno arrestato moltissimi attivisti per la democrazia, molti dei quali si trovano ancora in prigione in attesa di un processo, e moltissime altre persone sono state arrestate e sanzionate; vari attivisti sono stati costretti a fuggire dalla città e rifugiarsi all’estero. Le autorità hanno inoltre represso la libertà di espressione, fatto chiudere l’ultimo giornale d’opposizione e messo in carcere il suo editore, Jimmy Lai. Varie manifestazioni storiche che da decenni si svolgono a Hong Kong sono state vietate. Per esempio, nel corso dell’ultimo anno è stata vietata ogni forma di commemorazione del massacro di piazza Tiananmen a Pechino.
Dei 390 consiglieri di distretto pro democrazia eletti a novembre del 2019, 260 si sono dimessi o sono stati costretti alla dimissioni, mentre otto sono stati arrestati. Nel Consiglio legislativo, fino a un anno fa sedevano 28 membri legati ai movimenti democratici o autonomisti: oggi tutti quei seggi sono vacanti, perché i politici che li occupavano sono stati costretti a dimettersi o sono stati arrestati.
A marzo del 2021, inoltre, il Partito comunista cinese ha fatto approvare una nuova legge elettorale per il Consiglio legislativo di Hong Kong, che di fatto rende impossibile la partecipazione dell’opposizione. Già prima della riforma il voto a Hong Kong era formulato in modo da favorire i candidati fedeli al Partito: dei 70 seggi disponibili, soltanto metà era espressa a scrutinio universale, mentre gli altri 35 membri erano eletti da una “Commissione elettorale” che rappresentava gli interessi economici della città, e che era di fatto controllata dalla leadership cinese.
Con la nuova riforma, i seggi totali sono saliti a 90, e quelli concessi a scrutinio universale sono scesi a 20.
Inoltre, la legge prevede che possano candidarsi alle elezioni esclusivamente i “patrioti”. La definizione è abbastanza generica da lasciare alle autorità ampia autonomia di scegliersi i candidati, ma i criteri sono piuttosto chiari: a marzo Erick Tsang, un funzionario di Hong Kong che si occupa dei rapporti con la Cina e che è fedele al regime, ha spiegato cosa si intende per patriottismo dicendo che «non puoi definirti patriota se non ami la leadership del Partito comunista cinese».
Alle elezioni, dunque, non si presenterà praticamente nessun candidato pro democrazia, sia a causa del vaglio delle autorità sia perché i movimenti democratici hanno deciso di boicottare il voto.
L’ultimo problema per le autorità, a questo punto, è assicurarsi che l’affluenza sia sufficientemente alta per dare la falsa impressione che la vita politica a Hong Kong sia ancora vivace. Sono state organizzate varie attività per fare in modo che i cittadini vadano a votare, ma è probabile che la maggior parte di loro rimarrà comunque a casa. Attualmente, il boicottaggio del voto è l’unica arma politica rimasta ai movimenti democratici, ma anche questa è stata repressa: nelle ultime settimane le autorità hanno arrestato una decina di attivisti per aver chiesto di boicottare il voto.