Quante emissioni produce internet?
È una stima molto difficile da fare, su cui ci sono disaccordi: si parla di una percentuale rilevante e in aumento delle emissioni totali
Lunedì, durante un evento pubblico e come aveva già fatto in altre occasioni, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha parlato dell’impatto ambientale del «comparto digitale», che «produce il quattro per cento dell’anidride carbonica planetaria». Nel suo discorso, Cingolani ha citato vari comportamenti online come inviare post e caricare foto, usare i social e mandare email, descrivendoli come produttori di emissioni: «Per darvi un’idea, l’intero traffico aereo produce il due per cento della CO2 globale».
Cingolani – che è un ricercatore attivo proprio nel settore del digitale – ha detto che ovviamente l’importanza e la centralità di internet sono note, ma che bisognerebbe usarlo con più «sobrietà»: quando si risponde a una mail «mandate il link invece dell’attachment (l’allegato, ndr) e casomai qualche post inutile risparmiatevelo», ha detto.
La questione delle emissioni di internet è discussa da tempo, e lo è diventata ancora di più dopo la pandemia da coronavirus, quando moltissime persone in tutto il mondo sono state costrette a trascorrere molto più tempo in casa a causa delle restrizioni, e vari servizi online, come per esempio lo streaming video, hanno registrato un forte aumento d’utilizzo. È anche una questione estremamente complessa. Come avviene sempre quando si parla di questo genere di cose, ogni tentativo di calcolare quante emissioni produce un certo settore comporta sempre delle stime, che possono avere delle variazioni anche piuttosto ampie.
La stima citata di Cingolani per cui internet produrrebbe il 4 per cento delle emissioni globali viene probabilmente da uno studio del marzo 2019 pubblicato dal centro studi francese The Shift Project, secondo il quale le emissioni provocate dal settore digitale erano il 3,7 per cento del totale nel 2015 e il 4 per cento nel 2020.
Questa stima però è stata contestata, per esempio da Carlo Canepa su Repubblica, perché tra le altre cose lo studio di The Shift Project non è stato sottoposto al processo di peer review (“revisione paritaria”), cioè il meccanismo secondo il quale i risultati di una ricerca scientifica debbano essere verificati da scienziati estranei a quello studio per provarne l’affidabilità, prima di essere pubblicati.
Se si guarda alle ricerche pubblicate su riviste scientifiche, si nota comunque che gli studi che si occupano delle emissioni prodotte dal settore digitale sono eccezionalmente pochi, e che i loro risultati presentano una variabilità estrema.
Per esempio, un articolo pubblicato sulla rivista Patterns a settembre nota come i principali studi pubblicati negli ultimi anni abbiano fatto stime sulle emissioni del settore digitale (o più precisamente del settore ICT, che comprende i sistemi di telecomunicazione, i computer e le tecnologie che consentono le comunicazioni digitali) che vanno dall’1,8 per cento al 6,3 per cento delle emissioni totali. Gli autori dello studio di Patterns ritengono che una stima probabile stia a 1,8–2,8 per cento, che però si alza a 2,1–3,9 per cento se si tengono in considerazione anche le emissioni prodotte dalla “supply chain” (letteralmente “catena dell’approvvigionamento”) del settore tecnologico.
Gli studi pubblicati in questi anni sono molto discordi anche quando si tratta di individuare le fonti delle emissioni del settore digitale.
Tutti concordano che le fonti principali siano tre: anzitutto gli apparecchi usati dagli utenti, come i computer e gli smartphone (e c’è molto dibattito se includere o meno anche le TV connesse); poi i data center, cioè i luoghi che ospitano i server che contengono i dati dei siti internet e del cloud, e che sono molto energivori; infine le reti di telecomunicazioni. In che percentuale ciascuna di queste tre fonti di emissioni concorra a produrre il totale è molto dibattuto. Alcuni ritengono che gli apparecchi degli utenti siano molto più inquinanti, a causa del loro processo produttivo e per il fatto che vengono sostituiti spesso; altri invece che le tre fonti siano più o meno tutte sullo stesso piano.
Già così si capisce che per cercare di calcolare le emissioni di internet e del settore digitale è necessario fare enormi approssimazioni, che devono tenere conto di una eccezionale variabilità nelle pratiche e nei consumi.
Sono state fatte anche stime molto più puntuali, per esempio di quanta CO2 si emetta facendo una ricerca online, inviando un’email o guardando un’ora di Netflix. Lo stesso Cingolani ha detto lunedì che inviare un’email con un allegato da un megabyte equivarrebbe a tenere accesa una lampadina da 60W per mezz’ora. Queste stime così specifiche sono però ancora più difficili da giustificare, e sono sottoposte a una variabilità ancora più grande che le rende sostanzialmente inutili, come hanno spiegato due ricercatori della Royal Society.
Una cosa su cui sono tutti concordi, però, è che le emissioni di internet sono destinate ad aumentare. Questo perché la quantità di persone online aumenta in continuazione (oggi sono circa 4,6 miliardi: c’è margine), e c’è bisogno di più apparecchi e infrastrutture. Anche la quantità di dati utilizzata da ciascun utente continua a crescere, e più aumentano i dati utilizzati più aumenta il fabbisogno di energia elettrica per i data center e per le reti (anche se, per come è strutturata la rete internet, questo aumento non è proporzionale).
L’aumento della produzione di emissioni finora è stato inarrestabile, benché molte aziende di internet da qualche anno stiano cercando di ridurre il proprio impatto ambientale, soprattutto in Occidente, dove i data center sono stati resi progressivamente più efficienti, e dove molte aziende si sono impegnate per alimentarli con energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili. Nel resto del mondo però le cose non vanno allo stesso modo, e una parte consistente dell’energia elettrica usata per far funzionare internet è ancora generata bruciando combustibili fossili.
Bisogna anche considerare però che spesso internet sostituisce altri comportamenti che potenzialmente potrebbero produrre più emissioni. Come hanno mostrato alcuni studi, per esempio, è vero che soprattutto durante la pandemia sono aumentate notevolmente le ore di streaming per le videoconferenze, e questo ha portato a un aumento delle emissioni; al tempo stesso, in media, fare la stessa conferenza di persona avrebbe generato più consumi energetici.
Un altro punto su cui le ricerche sono abbastanza concordi è che una parte molto consistente delle emissioni viene dalla produzione dell’hardware. Anche se non tutte le opinioni coincidono, tendenzialmente si ritiene che le emissioni generate durante la produzione degli apparecchi (i server, gli smartphone e così via) siano maggiori di quelle generate dal loro funzionamento (che in pratica si traduce in consumo di energia elettrica).
Produrre microchip, contenuti praticamente in ogni apparecchio digitale, richiede per esempio enormi quantità di energia, di acqua e di altri materiali. E nel corso del ciclo di vita di un computer, due terzi di tutta l’energia consumata viene dalla produzione, e soltanto un terzo dall’utilizzo.
Per ridurre l’impatto ambientale del settore digitale e di internet sono dunque necessarie azioni strutturali: in questo momento, come scrive lo studio di Patterns, il settore non è in grado di rispettare gli obblighi di riduzione delle emissioni necessari per mantenere l’aumento delle temperature entro 1,5 °C. Queste azioni devono però venire dalle compagnie di internet o dai governi, la maggior parte dei quali non ha legislazioni specifiche per quanto riguarda le emissioni del settore digitale.
Per quanto riguarda invece ciò che possono fare i singoli utenti, molti esperti dicono che il punto non è tanto fare meno post online e mandare meno email. La cosa di maggiore impatto che si può fare è cambiare meno spesso il proprio smartphone, il portatile o la TV.