La vera storia dell’omicidio di Maurizio Gucci
Come andò davvero uno dei delitti più celebri della cronaca italiana degli anni Novanta, raccontato ora nel film “House of Gucci”
Il film House of Gucci, diretto da Ridley Scott e interpretato tra gli altri da Adam Driver, Lady Gaga, Al Pacino e Jared Leto, esce giovedì nei cinema italiani, quasi un mese dopo quelli statunitensi. È tratto dal libro del 2001 di Sara Gay Folden La saga dei Gucci – Una storia vera di moda, avidità, crimine e racconta gli anni che precedettero l’omicidio di Maurizio Gucci, storico presidente dell’azienda di moda di famiglia negli anni Ottanta e Novanta, concentrandosi sui contrasti e le faide tra parenti e sul suo matrimonio – che era spesso definito «da favola» sui rotocalchi – con Patrizia Reggiani, la donna che avrebbe poi commissionato il suo omicidio.
La famiglia Gucci, con un comunicato che è stato pubblicato da Repubblica, ha criticato duramente il film, sostenendo che descriva i protagonisti «come teppisti, ignoranti e insensibili al mondo che li circondava» e accusandolo di aver attribuito loro «toni e atteggiamenti che mai sono loro appartenuti». Ma soprattutto, gli eredi della famiglia Gucci – che da un paio d’anni prima della morte di Maurizio non controllano più l’azienda – hanno criticato la rappresentazione di Reggiani, accusata di «suggerire toni indulgenti» nei suoi confronti e di giustificarla «come una vittima che cercava di sopravvivere in una cultura aziendale maschile e maschilista». Secondo gli eredi, «questo non potrebbe essere più lontano dalla verità».
La critica ha parlato di un’ottima interpretazione di Lady Gaga, che interpreta Reggiani, lodando l’accurata ricostruzione di ambienti, abiti e atmosfere degli anni tra i Settanta e i Novanta, in cui si svolge la storia. Ma hanno anche sottolineato che i protagonisti della vicenda assumono aspetti caricaturali ed esasperati, quasi da macchietta. Lo stilista Tom Ford, dal 1990 al 2004 prima direttore del design e poi direttore creativo di Gucci, ha detto di essersi sentito triste per tre giorni dopo aver visto il film. Ha spiegato che alcuni fatti messi in scena erano totalmente inventati e ha concluso ironizzando sul fatto che il film sembrasse una soap opera: «Ho spesso riso a crepapelle, ma era previsto?».
La vera storia dell’omicidio di Maurizio Gucci è quella di un delitto pianificato e compiuto da un gruppo di personaggi per certi versi improbabili, di un’indagine che per un anno e mezzo trascurò la pista più evidente e di un agente infiltrato sotto copertura che si finse un narcotrafficante colombiano, assassino di 120 persone, per scoprire finalmente il mandante dell’omicidio.
Maurizio Gucci fu ucciso a Milano la mattina del 27 marzo 1995, a 47 anni. Era uscito dalla sua casa di corso Venezia alle 8.30 e come ogni giorno aveva percorso a piedi il breve tratto di strada che lo separava dal suo ufficio, in via Palestro 20, in pieno centro e affacciato sui Giardini di Porta Venezia. Non si accorse che un uomo lo stava seguendo a una quindicina di metri di distanza. Gucci entrò nell’androne dopo aver salutato il portiere Giuseppe Onorato, che stava spazzando foglie secche davanti al portone. Il sicario che lo stava seguendo sparò tre colpi: uno andò a vuoto, uno colpì Gucci alla spalla e l’altro al gluteo. Mentre si stava girando, Gucci fu raggiunto da un quarto colpo, alla tempia, che lo uccise. Quindi l’assassino rivolse la pistola contro Onorato e sparò due colpi, che ferirono il portiere al braccio sinistro. L’assassino salì sul sedile del passeggero di una Renault Clio verde guidata da un’altra persona e scappò.
Onorato è morto nel novembre del 2020. Era da poco riuscito ad avere finalmente il risarcimento, 100mila euro, che Patrizia Reggiani, per decisione della magistratura, avrebbe dovuto pagargli già da molti anni. Raccontò cosa accadde quella mattina:
«Arriva il dottor Gucci. Lo saluto, è elegantissimo come sempre. Sale sette gradini fino alla porta a vetri, che avevo aperto per pulire. Dietro di lui entra un uomo, altrettanto elegante, abbronzato con un giaccone di cammello. Sembrava un altro dottor Gucci, insomma nulla che facesse presagire qualcosa…senonché apre la giacca e io rammento perfettamente queste mani enormi da cui spunta solo il silenziatore di una pistola. Era davvero come un film, pensavo a uno scherzo, non c’era niente di vero. Invece spara i colpi, poi si gira, mi vede. Sgrana gli occhi, come se non se l’aspettasse, e spara anche a me. Io alzo un braccio istintivamente, sento qualcosa, poi mi siedo sui gradini. Pensavo, giuro, che a quel punto dovessi morire, proprio come in un film».
Le attenzioni del pubblico ministero Carlo Nocerino, che era di turno quella mattina, e degli investigatori, si concentrarono subito sul patrimonio di famiglia. Al vertice solitario dell’azienda, Maurizio Gucci ci era arrivato dopo la morte del padre Rodolfo, avvenuta nel 1983 e dopo che, cinque anni più tardi, aveva acquistato la quota intestata al cugino Paolo. Quest’ultimo, a detta degli storici della famiglia Gucci, è la figura più bistrattata nel film: descritto solo come originale e stravagante ma privo di talento, ebbe in realtà un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’azienda.
La sua collezione personale, presentata nel 1980, fu un grande successo. Lanciata però senza il consenso del padre e dello zio, gli costò il licenziamento e una causa per sfruttamento illegittimo del marchio. Fu solo una delle tante guerre intestine che segnarono, negli anni Ottanta e Novanta, le relazioni all’interno della famiglia.
Raggiunta la maggioranza assoluta delle quote, Maurizio Gucci dopo una serie di azioni legali estromise lo zio Aldo a cui nel 1983 aveva anche fatto causa, accusandolo di aver sottratto alle casse aziendali diversi milioni. Aldo Gucci fu poi arrestato negli Stati Uniti per evasione fiscale e scontò un anno di carcere. Alla fine degli anni Ottanta, la casa di moda attraversò un periodo problematico, con forti perdite. Maurizio Gucci vendette le sue quote per 270 miliardi di lire al fondo Investcorp che, nel 1993, raggiunse il 100% della società ed estromise definitivamente la famiglia toscana.
È sulla faida familiare, sugli scontri con lo zio Aldo e i suoi figli (oltre a Paolo, Roberto e Giorgio) che si concentrarono le prime indagini. Venne studiata a lungo la situazione economica della Viersee, la società che Maurizio Gucci aveva fondato dopo aver venduto le sue quote dell’azienda di famiglia. La Viersee stava progettando l’apertura di un casinò a St. Moritz e la costruzione di un porto turistico a Palma di Maiorca. La squadra omicidi di Milano, con l’Interpol, seguì un giro consistente e vorticoso di contanti che però non portò da nessuna parte. Furono scoperti debiti per 18 milioni di franchi con una banca di St. Moritz e un prestito di 22,5 milioni di franchi ottenuto dal Credit Suisse. C’erano poi ipoteche su proprietà in tutto il mondo. Gli investigatori furono anche colpiti e insospettiti da alcuni contatti che Maurizio Gucci aveva avuto con produttori che falsificavano il marchio della sua ex azienda.
Per quasi due anni le indagini girarono attorno alla pista finanziaria internazionale. Eppure, elementi che avrebbero dovuto spostare le attenzioni sull’ex moglie Patrizia Reggiani ce n’erano a sufficienza. Da tempo la donna, che dopo il divorzio avvenuto nel 1994 continuava a usare il cognome Gucci anche se le era proibito («l’unica vera Gucci sono io», diceva), confidava ad amici e parenti che l’ex marito stava dilapidando il patrimonio e che le loro due figlie, Alessandra e Allegra, sarebbero rimaste senza eredità. Reggiani parlava spesso di voler far uccidere l’ex marito, ne aveva discusso anche in una rosticceria dove si era fermata a fare un po’ di spesa, in corso Venezia. Tutti pensavano che scherzasse.
Paola Franchi, la compagna di Maurizio Gucci al momento dell’omicidio, aveva raccontato agli investigatori che da Reggiani erano arrivate nei mesi precedenti diverse minacce. Il giorno della morte di Gucci, la donna si era presentata alla casa dove l’ex marito viveva con Franchi, intimandole di andarsene. Aveva preteso che ogni cosa, compresi gli abiti di Maurizio e la biancheria della casa, fossero lasciati dov’erano. Il giorno seguente Reggiani, con le due figlie, si era trasferita lì. A Franchi fu anche impedito di partecipare al funerale del compagno.
Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani Martinelli si erano conosciuti nel 1971, quando avevano entrambi 23 anni. Si sposarono nell’ottobre del 1972 nella chiesa di San Sepolcro, a Milano. Alla cerimonia non partecipò il padre di Maurizio, Rodolfo, contrario al matrimonio. Lo zio Aldo prese invece in simpatia Reggiani e regalò alla coppia un appartamento di 800 metri quadrati sulla Fifth Avenue, a New York.
Il matrimonio durò 13 anni, segnati dal lusso e da spese straordinarie: finì su tutti i giornali l’acquisto da parte della coppia del Creole, un veliero a tre alberi di 65 metri pagato 7 miliardi di lire, appartenuto all’armatore greco Stavros Niarchos. A bordo di quel veliero si era suicidata la moglie di Niarchos, Eugene Livanos. Il Creole finì poi, assieme a molto altro, al centro delle dispute al momento del divorzio.
La separazione arrivò nel 1985, e qualche anno più tardi Maurizio Gucci chiese il divorzio. Fu a quel punto che l’ex moglie, come venne poi evidenziato nel corso dei processi, iniziò a covare un forte rancore. In un’intervista al magazine Sette, Reggiani raccontò: «Andavo in giro e chiedevo a tutti, anche al salumaio: “Ma c’è qualcuno che ha il coraggio di ammazzare mio marito? Io ho un difetto, non so mirare e non conosco la portata di una pistola”. Non lo potevo fare da sola. E ho trovato questa Banda Bassotti che me lo ha fatto».
La svolta nelle indagini arrivò nel gennaio del 1997, quando un informatore della polizia, il cuoco Gabriele Carpanese, telefonò a Filippo Ninni, capo della Criminalpol milanese, dicendogli che aveva una storia interessante da raccontargli. Ninni decise di incontrare Carpanese che gli spiegò di essere diventato amico di Ivano Savioni, il portiere dell’albergo a una stella Adry di via Lulli. Savioni gli aveva raccontato, a più riprese, di aver preso parte all’omicidio di Maurizio Gucci e di essere stato pagato 50 milioni di lire.
«Poco, troppo poco, quella deve sganciare di più» aveva detto Savioni riferendosi a Reggiani. Ninni decise di affiancare a Carpanese un poliziotto sotto copertura, di madrelingua spagnola, che si finse membro di un cartello di narcotrafficanti colombiani che avrebbero potuto aiutare Savioni. Disse anche di aver già compiuto 120 omicidi. Savioni, che all’interno della banda era chiamato Sauvignon, gli credette e gli raccontò tutti i particolari dell’omicidio Gucci.
Nel frattempo erano state disposte cimici ovunque nell’hotel Adry, ed erano state attivate le intercettazioni telefoniche. In una di queste Pina Auriemma, di Somma Vesuviana, ex proprietaria di due boutique a Portici e a Napoli, maga dilettante, organizzatrice di sedute spiritiche e diventata molto amica di Reggiani, aveva detto parlando con Savioni: «Sò svenuta in coppa a o’ giornale quando ho letto che l’inchiesta prosegue». Savioni l’aveva rincuorata e lei aveva concluso la telefonata dicendo: «Dammi retta, Iva’: se non facciamo qualche cazzata, non ci piglieranno mai».
Li pigliarono in realtà poche settimane dopo. Per gli investigatori la dinamica era chiara: Reggiani aveva incaricato Auriemma di trovare qualcuno che si incaricasse di uccidere il marito. Auriemma aveva chiesto a Savioni che a sua volta aveva contattato l’amico Orazio Cicala, ex titolare di una pizzeria e di una pasticceria ad Arcore, fallito per i debiti accumulati con il vizio del gioco. Cicala, a sua volta, aveva assoldato il sicario, Benedetto Ceraulo, siciliano di 35 anni. Per compiere il delitto era stata rubata un’auto che però la sera prima dell’omicidio era stata rimossa dalla polizia locale perché in divieto di sosta. Così Cicala aveva usato l’auto del figlio, la Renault Clio verde.
L’omicidio dell’ex marito costò a Reggiani 600 milioni di lire: 50 per l’amica maga Pina, 50 per Savioni, 350 per Cicala, che intanto era finito in carcere per droga, e 150 per il sicario Ceraulo, che negò sempre ogni addebito. Anche Reggiani non confessò, anche se poi in varie interviste ammise di essere stata la mandante dell’omicidio. Quando Ninni la andò ad arrestare, lei si mise la pelliccia di visone e indossò tutti i gioielli. Ninni le consigliò di lasciarli a casa, ma lei rispose: «La mia pelliccia e i miei gioielli vanno dove vado io».
Nel novembre 1998 Reggiani e Cicala furono condannati a 29 anni di carcere, come mandante dell’omicidio e autista dell’assassino; a Ceraulo, come esecutore materiale, fu comminato l’ergastolo; per Auriemma la pena stabilita fu di 25 anni di reclusione per favoreggiamento, mentre Savioni ricevette una condanna a 26 anni come organizzatore dell’assassinio.
Nella sua requisitoria, il pm Carlo Nocerino disse:
«Ho pensato molto anche a quella morte assurda e incredibile. La morte di un uomo che mai nessuno, qui, ha tratteggiato con luce chiara. Quell’uomo è stato ammazzato perché Orazio Cicala voleva soldi da giocare al casinò; Benedetto Ceraulo voleva portare la figlia in una casa più grande; Ivano Savioni per pochi spiccioli; Pina Auriemma per poter continuare ad essere la dama di compagnia che era. Ecco, queste sono le ragioni per le quali è morto Maurizio Gucci».
Patrizia Reggiani offrì 2 miliardi di lire a Pina Auriemma perché si addossasse tutte le colpe. Poi la accusò apertamente di essere stata lei l’ispiratrice del delitto. Reggiani fu anche sottoposta a due perizie psichiatriche: i suoi avvocati sostenevano che in seguito alle cobaltoterapie a cui si era sottoposta dopo aver subito nel 1991 un intervento per la rimozione di un tumore al cervello era «incapace di intendere e volere, e soprattutto incapace di organizzare un delitto».
Nel processo d’appello la condanna a Patrizia Reggiani scese a 26 anni. Nel 2014, dopo 17 anni trascorsi in carcere a San Vittore («Victor’s Residence lo chiamo io, mi sono trovata benissimo lì, sono stati anni di pace: dormivo, mi lavavo e scendevo giù in giardino, avevo un trattamento speciale», disse nell’intervista a Sette), a Reggiani venne concesso di continuare a scontare la pena ai servizi sociali: iniziò a lavorare per la Caritas. Auriemma scontò 13 anni e uscì dal carcere nel 2010 come Savioni che è libero dal 2012 , mentre Cicala, l’autista, è morto. Ceraulo è ancora in carcere.
Dopo la sua scarcerazione iniziò un forte contenzioso tra Reggiani e le figlie, Allegra e Alessandra. Nei primi anni dopo il processo le due ragazze sostennero l’innocenza della madre. Dissero:
«Se noi avessimo avuto il minimo dubbio del fatto che la mamma non fosse innocente, o comunque sapessimo che la mamma veramente fosse la mandante di quello che è successo, sicuramente non l’avremmo difesa come la stiamo difendendo adesso».
Il contenzioso nacque per questioni economiche. Dovevano essere loro, uniche eredi del patrimonio del padre, a pagare alla madre un milione di euro l’anno come stabilito dalla causa di divorzio. Si trattava di un vitalizio i cui termini erano contenuti in un accordo siglato da Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci il 24 dicembre 1993. Le figlie, appellandosi al fatto che era stata proprio lei a uccidere Maurizio Gucci, si rifiutarono di pagare. La madre aveva anche chiesto l’utilizzo del veliero Creole per un mese all’anno e la villa di St. Moritz. La Corte di Cassazione diede ragione a Reggiani. Secondo il parere dei giudici nel documento del 1993 era contenuta «un’indubbia volontà delle parti a correlare la tutela dell’interesse di Patrizia Reggiani con tempi successivi alla fine della vita di Maurizio Gucci. L’assegno, che sostituiva quello di divorzio, evitava per la Reggiani il rischio che l’ex coniuge chiedesse la revisione degli alimenti e si cautelava in caso di morte dell’obbligato». Ad Allegra e Alessandra Gucci fu intimato di pagare alla madre anche gli arretrati: 26 milioni di euro.
Di Patrizia Reggiani si è tornato a parlare due mesi fa quando il tribunale civile di Milano ha emesso un ordine di protezione nei suoi confronti, con l’allontanamento forzoso della ex compagna di cella a San Vittore, Loredana Canò, dalla villa milanese che Reggiani aveva ereditato dalla madre. Calò viveva con Reggiani da tempo e aveva un contratto come sua assistente. Il maggiordomo della villa aveva presentato al tribunale registrazioni da cui era emerso che l’ex compagna di cella stesse sfruttando la fragilità psichica dell’amica. Secondo la decisione del tribunale Calò, «attraverso vessazioni, violenze, ossessivo controllo e manipolazioni, stava volgendo a suo esclusivo vantaggio le importanti possibilità economiche della Reggiani».