Ve le ricordate le province?
Non sono mai state abolite, ma solo ridimensionate con una riforma incompiuta che le ha rese inefficienti, e che ora il Parlamento vuole cambiare
Sabato 18 dicembre 65mila tra sindaci e consiglieri comunali voteranno per eleggere 72 consigli provinciali e 31 presidenti di provincia. I presidenti sono meno perché rimangono in carica quattro anni, mentre i consiglieri due. Alle province al voto si aggiungono le amministrazioni di cinque cosiddette città metropolitane, gli enti locali che dal 2014 hanno sostituito alcune province: a Bologna si è votato il 28 novembre, a Roma, Milano e Torino i seggi saranno aperti domenica 19 dicembre, a Napoli il voto si terrà entro febbraio.
Negli ultimi anni le elezioni provinciali sono state ai margini del dibattito politico, ma ci sono sempre state: le province infatti hanno continuato a esistere con i loro presidenti e consiglieri, nonostante per anni si sia discusso di una loro possibile abolizione, una parola usata più volte a sproposito da politici e media per descrivere quanto successo con la riforma approvata nell’aprile del 2014 dalla Camera, la legge Delrio. La legge prevedeva una riformulazione delle province trasformate in enti di secondo livello, per i quali non sono cioè più previste elezioni dirette.
Le province sono state così sostituite da assemblee formate dai sindaci dei Comuni del territorio e da un presidente: è previsto anche un terzo organo, il consiglio provinciale, formato dal presidente della provincia e da un gruppo di 10-16 membri – in base al numero degli abitanti della provincia – eletti tra gli amministratori dei comuni.
La riforma Delrio era stata pensata come una legge transitoria in attesa del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, promosso dal governo guidato da Matteo Renzi per chiedere tra le altre cose di eliminare la parola “province” dalla Costituzione: un passaggio formale e obbligato per il compimento della riforma, che però non si verificò per la vittoria dei “no”.
La mancata approvazione della proposta lasciò quindi incompleta la riorganizzazione che avrebbe dovuto perfezionarsi con una nuova riforma per definire meglio le competenze delle province depotenziate. Rimase soltanto la legge Delrio che, insieme ai drastici tagli ai trasferimenti decisi dai governi, causò notevoli difficoltà nella gestione di settori importanti rimasti di competenza delle province, come l’edilizia scolastica, l’ambiente, i trasporti, la manutenzione delle strade, e che soprattutto creò una certa confusione su chi avesse responsabilità su cosa. Le conseguenze di quelle scelte, dicono politici e addetti ai lavori, sono molto evidenti ancora oggi e hanno effetti negativi anche sulla programmazione del PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza che organizzerà gli investimenti nell’ambito del Recovery Fund europeo.
Achille Variati, sottosegretario al ministero dell’Interno durante il secondo governo guidato da Giuseppe Conte, è stato presidente della provincia di Vicenza e presidente dell’Unione delle province italiane fino al 2018, nei primi e confusi anni della riforma. Come già faceva allora, oggi sostiene che il più grande errore della riorganizzazione sia stato il passaggio di funzioni e dipendenti dalle province alle Regioni. «Le Regioni sono nate per programmare e legiferare, non per gestire il potere amministrativo», dice. «Le province sono state “rapinate” di molte funzioni dalle Regioni e tutti vediamo come è finita: in alcuni settori, penso alla tutela dell’ambiente, c’è una tale confusione che si sono creati dei grandi buchi decisionali e di responsabilità».
L’attribuzione incerta delle funzioni tra gli enti locali esisteva in realtà anche prima. Tanto che aveva rappresentato uno dei principali motivi che a partire dal 2010 aveva convinto i governi a proporre l’abolizione delle province. La gestione, in effetti, era abbastanza caotica e spesso inefficiente per via delle competenze spartite a metà con altri enti: la gestione delle strade, ma solo quelle provinciali e non le statali, più importanti e trafficate; le scuole, ma solo le superiori e non elementari e medie; l’ambiente e il turismo, ma senza la possibilità di incidere per davvero.
Sulla base di questi limiti strutturali, molti politici e commentatori sostenevano che non valesse la pena pagare indennità a presidenti e consiglieri. L’urgenza percepita di ridurre i costi della politica, per motivi prevalentemente di consenso elettorale legati a un contesto molto ostile verso quella che era spesso definita una “casta”, fu un altro dei motivi che spinsero i governi a tentare di abolire le province. In quel periodo, Renzi ne fece un tema ricorrente della sua comunicazione.
Variati protestò contro la riforma Delrio insieme a molti altri presidenti di provincia che nel giro di pochi mesi si videro togliere funzioni e ridurre drasticamente le risorse economiche. Dal 2015, infatti, la legge di bilancio impose tagli per tre miliardi di euro in tre anni.
Una riforma monca causò un risultato distorto rispetto alle aspettative. Vennero ridimensionati i trasferimenti statali come se la riforma Delrio fosse compiuta: i fondi per i dipendenti, per esempio, venivano fissati per meno di 30mila tra tecnici e funzionari quando le persone in organico erano ancora 48mila, perché il passaggio previsto ai comuni e alle Regioni non era ancora stato avviato. «Sbagliarono i conti: in quel periodo non avevamo i soldi nemmeno per sistemare le strade e le scuole, e interi uffici vennero smantellati», spiega Variati.
Non si riuscì nemmeno a risparmiare una quantità significativa di fondi pubblici, come era stato promesso da partiti di destra e di sinistra con una lunga ed efficace campagna di stampa contro i costi della politica. Secondo Variati era «pura demagogia», secondo cui «non erano quei quattro soldi dati agli organi politici a fare la differenza». C’erano cose che non funzionavano, ammette, ed erano necessari dei tagli: «ma all’epoca il legislatore fece un errore considerando le province il peggio del peggio».
Uno degli effetti non considerati dal governo risultò perfino paradossale: nonostante l’obiettivo dei tagli fosse ottenere un risparmio, infatti, ci fu un aumento dei costi del personale, perché molti dipendenti pubblici ottennero un contratto più vantaggioso nel passaggio dalle province alle Regioni.
Nel febbraio del 2017 anche la Corte dei Conti si espresse contro i tagli, definendoli irragionevoli. «La forte riduzione delle risorse destinate in settori di notevole rilevanza sociale risulta manifestamente irragionevole per l’assenza di proporzionate misure che ne possano in qualche modo giustificare il dimensionamento» dice il testo dell’audizione sulla finanza delle province alla commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale.
Negli ultimi anni sono cambiate molte cose: i finanziamenti sono stati in parte ripristinati e dopo anni le province hanno cominciato ad assumere nuovo personale. Inoltre, da un anno ai presidenti delle province viene riconosciuta un’indennità che è equiparata a quella del sindaco del Comune capoluogo, e che viene erogata in parte dal comune dove il presidente esercita le funzioni di sindaco e in parte dall’ente provinciale.
Le conseguenze della confusione e dei tagli, però, si vedono ancora. L’assenza di un ente intermedio tra i comuni e le Regioni ha compromesso varie procedure di pianificazione degli investimenti sul territorio, e in particolare lo studio delle opere troppo grandi per essere considerate comunali, e troppo piccole se valutate in un ambito regionale: strade, tangenziali, ponti, linee del tram, collegamenti tra punti di interesse come gli ospedali, le stazioni, i grandi parcheggi.
Gli uffici che si occupavano di valutare i piani provinciali delle infrastrutture sono stati svuotati, i dipendenti sono stati trasferiti o sono andati in pensione e non sono stati sostituiti, quelli rimasti sono invecchiati. La mancanza di una forte guida politica, limitata dalle condizioni precarie delle province, ha causato anche un’insipienza generale di visione strategica in settori come la pianificazione urbanistica del territorio e dei trasporti. A essere penalizzati sono stati soprattutto i territori molto vasti e quelli lontani dalle città più grandi.
Questi limiti di programmazione sono stati evidenti anche nella preparazione delle opere degli obiettivi legati al PNRR. I tempi ristretti e la carenza di professionisti come ingegneri, architetti e tecnici hanno portato molte province e comuni a recuperare progetti del passato, su cui erano già stati fatti studi e valutazioni, senza usare nuove ambizioni che sarebbero state forse possibili vista l’entità dei fondi a disposizione. Una scelta per certi versi conservativa applicata a un piano enorme che dovrebbe essere di rilancio.
«I soldi per gli investimenti, quindi per le opere, sono stati ripristinati quasi del tutto», spiega Michele De Pascale, presidente della provincia di Ravenna e dell’Unione province italiane. Per esempio, il ministero dell’Istruzione ha promosso diversi bandi per la manutenzione e la costruzione di nuove scuole, palestre e mense. Con la prossima legge di Bilancio, inoltre, verranno stanziati più soldi per la cosiddetta spesa corrente delle province, cioè per pagare gli stipendi dei dipendenti e assumerne di nuovi.
De Pascale dice che negli ultimi anni, grazie al ripensamento dei governi sui tagli, le province sono riuscite ad aumentare gli investimenti del 15 per cento. Con il PNRR arriveranno molte risorse in più, non semplici da gestire. «Se si vuole continuare a trasformare i trasferimenti in opere pubbliche, come è avvenuto finora, vanno potenziati anche gli organici dei dipendenti: servono tecnici, ingegneri, architetti e giuristi. Chiediamo la possibilità di assumere profili mirati».
«Siamo pieni di soldi, ma non riusciamo a spenderli» ha detto in un’intervista al Corriere del Veneto Fabio Bui, presidente della provincia di Padova. Prima della riforma Delrio, l’ente aveva 500 dipendenti, oggi ne ha 215. «Ho 17 milioni per le scuole, ma ho problemi a chiudere i progetti entro marzo 2026 e con le forze che abbiamo rischiamo di perdere tutto», spiega Bui. «Da tempo dico di dare poteri commissariali ai presidenti e ai sindaci: visto che i soldi ci sono fate esercitare questa responsabilità a noi amministratori».
Secondo Bui, per ridare dignità al ruolo degli amministratori provinciali e delle province stesse serve tornare all’elezione diretta. Il governo Draghi ha ridato i soldi alle province, dice, ma secondo lui è sostenuto da parlamentari «figli della rottamazione e dello schieramento anti-casta», per cui sarà molto difficile tornare indietro.
In realtà negli ultimi mesi negli uffici del Parlamento si è discusso di come correggere la riforma Delrio, dopo che tutti i partiti hanno riconosciuto gli effetti negativi della sua applicazione parziale e lacunosa. È stata ipotizzata anche la reintroduzione dell’elezione diretta: la vorrebbe la Lega, mentre il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle sono contrari. Le modifiche, di fatto una controriforma della legge Delrio, saranno contenute in un disegno di legge (Ddl) collegato alla legge di Bilancio di cui il Sole 24 Ore ha anticipato qualche contenuto centrale:
Il Ddl in arrivo oltre ad aggiungere la pianificazione delle attività attuali incentrate soprattutto su trasporti e scuola rimodella le funzioni fondamentali delle province sulla base di quelle già svolte dalle Città metropolitane: l’adozione e aggiornamento annuale di un piano strategico triennale del territorio provinciale, dell’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito provinciale, della promozione e del coordinamento tanto dello sviluppo economico e sociale quanto dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione sempre in ambito locale.
Degne di nota sono infine altre due modifiche previste dal Ddl governativo. Vale a dire la coincidenza della durata del mandato in 5 anni sia per i presidenti che per i Consigli di Province e Città metropolitane e il ripristino della Giunta in entrambe. Gli assessori saranno 3 (o 4 nei territori con oltre un milione di abitanti), potranno essere esterni e saranno pagati. Con un’indennità pari al 50% dei loro omologhi comunali. Di questi tempi un incentivo non da poco.
Mario Gorlani, avvocato e docente di Diritto Pubblico all’università di Brescia, è stato tra i componenti della commissione istituita a luglio 2021 dalla ministra degli Affari regionali Maria Stella Gelmini per una revisione complessiva del sistema delle province: «avevamo chiesto a gran voce un intervento coraggioso per ripristinare l’elezione diretta, ma è stato scelto di lavorare su obiettivi di immediata applicazione e più facili da gestire nel percorso parlamentare», dice.
È stato scelto insomma un approccio politico più pragmatico in un Parlamento in cui ha ancora un discreto peso politico il Movimento 5 Stelle, da sempre a favore dell’abolizione delle province, anche se alcuni suoi consiglieri sono candidati alle elezioni del 18 dicembre. «La presenza di voci molto eterogenee ha suggerito interventi minimali rispetto alle proposte più ambiziose che erano state presentate», dice Gorlani. «Pur nel suo minimalismo, si sentiva il bisogno di questo inizio di revisione: dopo questi anni è meglio che nulla».