Le lunghe e travagliate indagini sulla morte di David Rossi
Nel 2013 il corpo del manager di MPS fu trovato sotto la finestra del suo ufficio, ma la tesi del suicidio è stata più volte messa in dubbio
Negli ultimi giorni sono emersi nuovi particolari sugli avvenimenti che seguirono la morte di David Rossi, capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, avvenuta la sera del 6 marzo 2013. Rossi precipitò attorno alle 20 dalla finestra del suo ufficio, al terzo piano di Palazzo Salimbeni, sede centrale dell’antica banca toscana, salvata tre volte negli ultimi dieci anni grazie a interventi pubblici.
Ascoltato dalla Commissione d’inchiesta che indaga sulla vicenda, il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco ha raccontato che quella sera, dopo l’arrivo dei carabinieri, dei soccorsi e dei pubblici ministeri, lui e i pm salirono nell’ufficio di Rossi. Tutti davano già per scontato che la causa della morte fosse stata il suicidio, ipotesi successivamente messa in discussione, e secondo Aglieco gli oggetti nella stanza furono toccati e spostati in vari modi, di fatto contaminando la scena di un potenziale crimine.
Aglieco ha detto ai membri della Commissione parlamentare che il pubblico ministero Antonino Nastasi, una volta arrivato nella stanza, si sedette sulla poltrona di Rossi e provò ad accendere il computer toccando più volte il mouse. Prese poi il cestino della spazzatura e rovesciò il contenuto sulla scrivania. All’interno c’erano dei fazzoletti sporchi di sangue e dei bigliettini strappati. Il colonnello ha anche detto che uno dei pubblici ministeri presenti nella stanza, non ricorda quale, chiuse la finestra da cui era caduto Rossi.
Nastasi rispose poi al cellulare che Rossi aveva lasciato sulla scrivania. Questa circostanza era già nota: ne aveva scritto in un libro, Il caso David Rossi, Davide Vecchi, giornalista, direttore del Corriere dell’Umbria e oggi consulente della commissione d’inchiesta. Sul cellulare arrivarono due telefonate: una, durata 38 secondi, di Daniela Santanché, amica di vecchia data del capo della comunicazione di MPS, e una, che non ebbe risposta, del giornalista Tommaso Strambi, allora capo della redazione senese della Nazione. Nella stanza di David Rossi non vennero seguite normali procedure di investigazione: veniva data per scontata la tesi del suicidio. Una tesi che la famiglia del manager ha sempre contestato.
La testimonianza di Aglieco davanti alla Commissione parlamentare è l’ultimo elemento di una storia intricata, con ancora molti punti da chiarire e attorno alla quale non sono mancate narrazioni suggestive ma prive di veri riscontri. La vicenda della morte di Rossi è diventata anche terreno di scontro politico: Siena è infatti stata governata, fino al 2018, da giunte di sinistra o di centrosinistra, e il Monte dei Paschi è sempre stato considerato molto vicino al potere politico della città. Rossi morì in un periodo in cui il Monte dei Paschi di Siena era al centro di polemiche e di indagini della magistratura.
Varie testimonianze hanno segnalato che nelle settimane che precedettero la sua morte, Rossi era preoccupato e angosciato. Il clima, attorno al Monte dei Paschi, era pesante: la Procura di Siena aveva avviato da alcuni mesi un’indagine sulla cattiva e, si ipotizzava, fraudolenta gestione della banca da parte dei vertici che l’avevano governata fino al 2012. Sotto indagine era in particolare l’operato del presidente Giuseppe Mussari, manager a cui Rossi era stato molto legato.
Mussari voleva fare di MPS un polo di aggregazione per altre banche. Nel 2007 decise di acquisire la Banca Antonveneta di Padova dal gruppo Santander. L’operazione comportò per Monte dei Paschi l’esborso di nove miliardi di euro, una cifra giudicata spropositata da molti analisti. In più MPS si accollò i debiti che Antonveneta aveva nei confronti di ABN Amro, banca dei Paesi Bassi.
L’inchiesta della magistratura senese, iniziata nel 2012, si concentrò sulle modalità con cui era stato gestito un aumento di capitale per l’acquisizione della banca padovana e sulle presunte modalità con cui i bilanci degli anni successivi erano stati manomessi proprio per evitare che si capisse che l’acquisto non era stato affatto redditizio. Per coprire le perdite erano stati creati prodotti derivati dai nomi esotici, Alexandria e Santorini, la cui esistenza era stata nascosta alla stessa Banca d’Italia. I derivati sono titoli che non hanno un loro valore intrinseco, ma per l’appunto lo derivano da altri prodotti finanziari, ovvero da beni reali alla cui variazione di prezzo sono agganciati. Sono strumenti molto speculativi che promettono ampi guadagni, ma che comportano anche forti rischi.
L’operazione di MPS fu concordata con la banca giapponese Nomura. Quest’ultima acquistò i titoli Alexandria e Santorini a un prezzo fuori dal mercato, consentendo a MPS di occultare la perdita in bilancio. Venne stipulato un contratto in base al quale MPS si impegnava, in cambio di liquidità, a cedere a Nomura Buoni del Tesoro trentennali per poi ricomprarli negli anni ad un prezzo più alto.
A gonfiare i costi dell’affare erano stati anche i crediti inesigibili – cioè che probabilmente non avrebbero potuto essere riscossi – della banca padovana. I debiti che MPS si ritrovò in seguito all’acquisizione di Antonveneta salirono a 17 miliardi, tra acquisto e passività ereditate. L’accusa rivolta ai vertici di MPS fu quindi di non aver realizzato quelle analisi (due diligence) che avrebbero mostrato prima dell’acquisto la reale situazione di Antonveneta. Si parlò a lungo di maxi-tangenti e di pagamenti a partiti ed esponenti politici, ma l’inchiesta ha sempre riguardato esclusivamente reati finanziari.
Nel 2019, in primo grado, Mussari fu condannato dal tribunale di Milano a 7 anni e 6 mesi mentre per l’ex direttore generale, Antonio Vigni, furono decisi 6 anni e tre mesi. Furono condannati anche l’ex manager della banca Daniele Pirondini a 5 anni e 3 mesi e il responsabile dell’area finanziaria Gianluca Baldassarri a 4 anni e 8 mesi. I reati che portarono alle condanne furono aggiotaggio, falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo alla vigilanza.
Tutto questo stava emergendo, con fughe di notizie sui giornali, proprio nei primi mesi del 2013. Lo stesso nome di David Rossi comparve più volte sui quotidiani come manager molto vicino all’ex presidente Mussari. I cronisti che all’epoca seguirono la vicenda ricordano come a Siena si avvertisse la sensazione che chiunque lavorasse in MPS fosse una sorta di delinquente. La banca che era stata un vanto della città, fonte di prestigio e benessere, veniva ora identificata come centro di malaffare che aveva portato Siena stessa al decadimento.
Il potere finanziario e quello politico venivano in questo accomunati. Il libro Il caso David Rossi racconta di un legale della banca, Riccardo Quagliana, arrivato a Siena nel febbraio di quell’anno: «Abbiamo avuto minacce di morte, hanno detto che ci ammazzavano i bambini (…). Era una situazione complessa, molto complessa che su tutti i dirigenti della banca, quelli più alti, aveva un peso non indifferente tanto che io decisi di non trasferire più la mia famiglia perché trovai una testa di maiale con una maschera sotto casa». Il 15 febbraio 2013, quando Mussari arrivò in Procura a Siena per essere interrogato, fu accolto da decine di persone al grido di «ladro, ladro».
Rossi aveva confidato alla moglie, Antonella Tognazzi, di avere paura. Lo disse anche a Carla Ciani, la mental coach del Monte dei Paschi, arruolata dal nuovo amministratore delegato Fabrizio Viola per motivare i dipendenti. Ciani ha testimoniato che Rossi le aveva detto di temere di essere arrestato e di perdere il lavoro. Sui giornali erano infatti uscite anche indiscrezioni su un suo possibile allontanamento dalla banca. In quei giorni era stato arrestato il responsabile dell’area finanziaria, Gianluca Baldassarri.
Il 4 marzo Rossi ebbe uno scambio di mail con Fabrizio Viola. Parlando dei magistrati scrisse: «Stanno cercando di ricostruire gli scenari politici e i vari rapporti». E poi: «Ho bisogno di un contatto con queste persone perché temo che mi abbiano male inquadrato come elemento di un sistema e di un giro sbagliati». Più avanti, nella stessa mail, scrisse: «Capisco che il mio rapporto con certe persone possa farglielo pensare ma non è così (….) Se mi avessero chiamato a testimoniare glielo avrei spiegato, invece mi hanno messo nel mirino come se fossi chissà che cosa. Almeno è l’impressione che ne ho ricavato. Avendo lavorato con tutti sono perfettamente in grado di ricostruire gli scenari, se è quello che cercano».
In quelle mail compare anche questa frase: «Vorrei garanzie di non essere travolto da questa cosa, per questo lo devo fare subito, prima di domani». Viola rispose con due mail. Nella prima disse: «La cosa è delicata, non so e non voglio sapere cosa succederà domani. Lasciami riflettere». Nella seconda invitò Rossi a telefonare ai magistrati e a chiedere un appuntamento urgente. Tra le mail inviate da Rossi ce ne fu una molto inquietante, che però Viola disse poi di non aver visto (le mail arrivavano a un indirizzo di posta della segreteria). Rossi scrisse: «Stasera mi suicido, davvero, aiutatemi».
Rossi era angosciato soprattutto da quando, un paio di settimane prima, i magistrati avevano fatto perquisire la sua abitazione per via dei suoi legami con Mussari. Alessandro Profumo, presidente di MPS dal 2012 al 2015, ricordò che Rossi era preoccupato di essere arrestato. La moglie confermò, sostenendo che quella del marito non era solo paura: «Era diventato ossessivo. Venerdì primo marzo mi disse che il giorno successivo sarebbero venuti ad arrestarlo perché era sabato e i mercati erano chiusi». Carolina Orlandi, figlia della moglie di Rossi, raccontò ai magistrati di aver notato in quei giorni che l’uomo aveva graffi all’altezza dell’avambraccio sinistro. Lui prima spiegò che si trattava di segni accidentali, ma quando Carolina insistette disse: «Hai visto, nei momenti di nervosismo, quando vuoi sentire dolore fisico per essere più cosciente». Aggiunse: «Non parlare di questa cosa né fuori né in casa».
Nel cestino del suo ufficio, quello il cui contenuto venne rovesciato sul tavolo dal pubblico ministero, vennero trovati tre bigliettini, scritti solo parzialmente. Erano indirizzati alla moglie. In tutti e tre diceva di aver fatto «una cazzata troppo grossa». Nel più lungo dei tre scrisse: «Amore, ti chiedo scusa ma non posso più sopportare questa angoscia. In questi giorni ho fatto una cazzata immotivata davvero troppo grossa. Non ce la faccio più. Credimi, è meglio così». Di aver fatto «una cazzata», Rossi lo disse anche al fratello Ranieri con cui pranzò il giorno in cui morì. Aggiunse che un amico di cui si era fidato lo aveva tradito.
Nel luglio del 2013, quattro mesi dopo la morte, i pm senesi chiesero l’archiviazione del caso: secondo la loro ricostruzione quello di Rossi era stato senza dubbio un suicidio. Il 14 agosto il pm Aldo Natalini dispose anche la distruzione degli unici reperti trovati nell’ufficio del manager, compresi i fazzoletti sporchi di sangue.
La moglie si oppose all’archiviazione. Per lei, e anche per molti giornali, tante cose andavano chiarite. In sostanza non era stata fatta nessuna indagine mentre avrebbero dovuto essere prese in considerazione anche ipotesi diverse da quella del suicidio. Per la famiglia c’era la forte possibilità che Rossi fosse stato ucciso o fosse stato spinto al suicidio.
Tognazzi ricostruì con i propri legali gli eventi del 6 marzo. Quella sera chiamò diverse volte al telefono il marito senza avere risposte. Alle 19.40 telefonò al capo segreteria di Rossi, Gian Carlo Filippone, per chiedere aiuto. Anche Filippone iniziò a chiamare il cellulare del suo capo. Alle 19.41 il telefono di Filippone squillò ma lui non fece in tempo a rispondere. Sul display, come chiamata persa, comparve il numero di David Rossi. Subito dopo, la moglie riprese a chiamare, chiedendo aiuto anche alla figlia Carolina. Alle 20.16 qualcuno rispose al telefono di Rossi, per appena tre secondi.
La figlia di Tognazzi chiamò Filippone, e i due decisero di andare alla sede di MPS. Solo il capo della segreteria salì al terzo piano. Trovò la porta di Rossi chiusa, entrò e vide che la finestra era spalancata. Si affacciò: il corpo dell’uomo era sul selciato, nel vicolo. Filippone tornò al piano terra, da Carolina Orlandi, e disse: «Si è suicidato». I soccorsi vennero chiamati alle 20.41.
Per la famiglia i punti da chiarire erano, e sono ancora oggi, molti. La procura e le forze di polizia intervenute sulla scena della morte agirono nella convinzione che si trattasse di un suicidio. La relazione dei legali della famiglia Rossi fu severa: gli investigatori non avevano sequestrato i reperti, non avevano ritenuto necessario analizzare i vestiti e i fazzoletti di carta sporchi di sangue; non avevano infilato in un sacchetto di plastica il cellulare ma lo avevano addirittura usato per rispondere a una chiamata. Ancora: non cercarono DNA o tracce ematiche nell’ufficio; non acquisirono né sequestrarono i video delle 12 telecamere di sorveglianza ma solamente di una; non fecero fare gli esami istologici sulle ferite rilevate sul corpo del manager; non individuarono i presenti nella sede di MPS né si accertarono che esistessero dei registri; non convocarono e sentirono le persone che nella giornata avevano incontrato Rossi. In definitiva: non fecero nessuna vera indagine.
Il video acquisito dai magistrati, diffuso da molti siti italiani ed esteri, segnava al momento della caduta di Rossi le 19.59. I periti di parte e della procura accertarono però che, per un problema tecnico, il momento della caduta andava anticipato di 16 minuti, alle 19.43. Restava la domanda su chi avesse risposto al telefono di Rossi quando lui era già precipitato al suolo. Secondo i periti nominati dalla famiglia bisognava anche spiegare perché sulla nuca di Rossi ci fosse una profonda lesione a forma di V. E perché sul polso destro ci fosse un profondo segno dell’orologio, quando il braccio non aveva impattato violentemente a terra e lo stesso orologio era stato trovato lontano dal corpo.
Secondo i legali della famiglia, osservando il video delle telecamera di sorveglianza, l’orologio sembrava addirittura precipitare al suolo venti minuti dopo l’impatto del corpo del manager. Sempre secondo i legali il corpo, precipitando, sembrava non avere spinta verso l’esterno ma che cadesse invece in maniera perpendicolare, rimanendo immobile durante l’intero volo.
Il gip di Siena decise comunque l’archiviazione. Un anno dopo, in un’intervista televisiva, la moglie di Rossi disse che sulla morte del marito c’erano ancora molti dubbi. Un perito di parte, Luca Scarselli, tornò ad analizzare per intero il video ripreso dalla telecamera di sorveglianza la sera del 6 marzo 2013. Il video integrale durava 58 minuti e venti secondi. Il perito individuò la presenza di un uomo con un cappuccio in testa vicino al corpo di Rossi. Tre minuti dopo compariva un veicolo e poi un altro uomo. Seguivano ombre in movimento, e un uomo che parlava al telefono alle 20.27 (la prima telefonata arrivò ai soccorsi alle 20.41). Nel video appariva anche un furgoncino appartenente a un tuttofare che, contattato, raccontò che in quei giorni stava verniciando vari punti dell’edificio, tra cui alcuni ai piani superiori del Monte dei Paschi. Le suole di Rossi, era stato annotato nei rilievi, erano sporche di bianco.
Nel novembre 2015 la Procura di Siena decise di riaprire le indagini. Vennero fatte nuove perizie, analizzati i reperti rimasti, fatte simulazioni della caduta, ascoltati nuovamente tutti i testimoni. Restavano tante ipotesi e domande, ma nulla di concreto venne provato. L’8 febbraio 2017 il procuratore capo di Siena firmò la nuova richiesta di archiviazione. Il 4 luglio la gip Roberta Malavasi accolse di nuovo la tesi dei pubblici ministeri: David Rossi si era ucciso, l’inchiesta andava archiviata.
Nel 2018 la trasmissione Le Iene diffuse un fuori onda in cui un ex sindaco di Siena ed ex dirigente del Monte dei Paschi, Pierluigi Piccini, parlava di presunte feste erotiche in una villa al mare, a cui avrebbero partecipato alcuni magistrati senesi. Gli stessi magistrati che, secondo Piccini, seguirono il caso della morte di Rossi. L’ipotesi adombrata dalla trasmissione fu che i magistrati fossero stati spinti a condurre indagini superficiali dalla minaccia di rivelazioni su quelle feste. La Procura di Genova aprì un’inchiesta per abuso d’ufficio e favoreggiamento della prostituzione. Il 21 gennaio scorso, l’indagine fu ufficialmente archiviata.
Il 21 dicembre a Siena torneranno i Ris dei carabinieri per quella che è stata chiamata la “maxi-perizia” ordinata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. Verranno ricreate le condizioni del 6 marzo 2013 nell’ufficio del responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi. Sarà simulata la caduta dalla finestra per cercare ancora una volta di appurare se fu un suicidio, come ha stabilito la magistratura, o se successe qualcos’altro.
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Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.