Le nuove norme antimafia negli appalti
Introducono nuovi meccanismi di controllo per evitare di penalizzare ingiustamente le aziende e di perdere i fondi europei
Le norme che regolano le interdittive antimafia, cioè le esclusioni dai rapporti con la pubblica amministrazione di aziende sospettate di infiltrazioni o contiguità con organizzazioni criminali, sono state cambiate in modo da prevedere procedure e sanzioni meno rigide e invasive per determinate casistiche in cui i presunti rapporti con la mafia potrebbero essere inesistenti, involontari oppure occasionali.
Il nuovo impianto giuridico, da tempo richiesto anche dai dirigenti di polizia che si occupano di antimafia, serve a evitare che precauzioni eccessive blocchino l’utilizzo dei fondi pubblici e in particolare quelli del Recovery Fund, e a prevenire il rischio di penalizzare ingiustamente le aziende coinvolte e i loro dipendenti. Si tratta insomma di un tentativo di trovare un equilibrio più efficiente tra la necessità di controllare preventivamente le aziende coinvolte negli appalti pubblici, interrompendo da subito i rapporti con quelle su cui esistono sospetti di contiguità con la mafia, e quella di non sanzionare ingiustamente imprese che in realtà non hanno colpe, con tutte le conseguenze potenziali sui dipendenti e sul progresso degli appalti in generale.
Per capire perché si sia avvertita la necessità di prevedere nuove norme, bisogna partire dai numeri. Secondo la Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, nel 2020 i provvedimenti interdittivi nei confronti di aziende sono stati 2.130, cresciuti rispetto al 2019 del 38%. Nel 2021, con dati che arrivano al 31 ottobre, sono già stati 1.789. Il maggior numero di provvedimenti è stato deciso in Campania (529), Calabria (454) ed Emilia-Romagna (235), che nel 2020 ha superato la Sicilia (217). Si è trattato nella maggioranza dei casi di interdittive giustificate e necessarie, ma a volte sono state dovute anche a sospetti non verificati e che, alla fine, sono risultati infondati. Oppure, anche, sono state applicate in casi in cui l’azienda poteva essere “bonificata”, cioè ripulita da eventuali contaminazioni criminali senza doverla bloccare, senza far perdere il posto di lavoro ai dipendenti. Le procedure inoltre si sono dimostrate spesso farraginose e lunghe.
Con l’arrivo dei fondi stanziati dal Recovery Fund dell’Unione Europea, al timore delle possibili infiltrazioni mafiose nelle aziende che concorrono agli appalti della pubblica amministrazione si è affiancato quello, apparentemente contraddittorio, che controlli troppo lenti e complessi possano rallentare e bloccare i lavori, comportando così la perdita dei finanziamenti.
Le nuove norme sono state decise con un decreto legge, il numero 152 del 6 novembre, denominato “Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose”: nelle intenzioni servono a tutelare il più possibile la cosiddetta “continuità aziendale”, cioè i posti di lavoro di un’azienda, senza rinunciare alle verifiche necessarie sulla permeabilità dell’azienda all’infiltrazione mafiosa.
I nuovi strumenti messi a disposizione delle prefetture sono due: il primo è il contraddittorio con l’impresa sospettata di infiltrazione, mentre il secondo è un percorso chiamato di “prevenzione collaborativa”.
Il contraddittorio funziona così: se un’azienda coinvolta in un appalto pubblico, in base alle verifiche effettuate dal prefetto, è sospettata di infiltrazione criminale, può difendersi chiedendo di essere ascoltata e presentando una serie di documenti. Al termine del contraddittorio il prefetto decide se rilasciare la liberatoria, e cioè certificare che l’azienda è libera da infiltrazione, passare direttamente all’interdittiva nei casi di sospetti più conclamati oppure attivare il nuovo strumento della collaborazione preventiva. Quest’ultimo viene adottato quando si pensa che il contatto dell’imprenditore con un’impresa mafiosa sia stato solo occasionale o addirittura inconsapevole. Un esempio è quello di un’azienda al cui interno ci siano lavoratori con parenti mafiosi. Oppure quello di un piccolo imprenditore vittima del racket che però non ha denunciato gli estorsori.
Con la collaborazione preventiva non ci sono interdizioni, e l’azienda può continuare a lavorare con la pubblica amministrazione senza perdere licenze o concessioni. Si tratta in pratica di un provvedimento di sorveglianza, in cui vengono monitorati movimenti di denaro e contratti, che può durare da sei a 12 mesi. In quel periodo l’azienda deve seguire le misure decise dal prefetto per arrivare all’eliminazione di qualsiasi sospetto di contatti con imprese riconducibili a organizzazioni criminali.
Il nuovo sistema, come ha spiegato al Sole 24 Ore Costantino Visconti, direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Palermo, «punta a proteggere le aziende sia dai condizionamenti mafiosi sia dalla morte». Piergiorgio Morosini, giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Palermo, ha così riassunto le esigenze dietro alle nuove norme parlando col sito Lavialibera: «Dobbiamo tenere conto di due aspetti: l’esigenza di intervento tempestivo per mettere in quarantena le imprese, attraverso misure interdittive e prefettizie, e la terapeuticità: vogliamo distruggere le aziende con evidenti costi dal punto di vista occupazionale e della produttività? Oppure curarle e prevenire ulteriori sviluppi negativi? Immaginare di mettere in sicurezza un’impresa per mantenerne produttività e occupazione è un modo sicuramente moderno di concepire l’azione di contrasto».
Anche il direttore della Direzione Investigativa Antimafia, Maurizio Vallone, aveva sollecitato l’adozione di nuove norme: «Ci sono casi», aveva detto, «in cui i nostri Gia (i Gruppi Interforze Antimafia istituiti presso le prefetture, ndr) si trovano in difficoltà perché sanno che un’interdittiva basata sulla mera percezione di contiguità tra impresa e mafia non reggerebbe a un ricorso al TAR. Ricorso che è quasi automatico e può durare da dieci mesi a due anni, fermando o rallentando i lavori».
La disciplina della direttiva antimafia è regolata dal Libro II del Codice antimafia. Stabilisce che quando un ente pubblico indice una gara d’appalto deve inviare alla prefettura i dossier delle aziende che concorrono. Prima dell’introduzione delle nuove norme il prefetto aveva solo due strade: o la liberatoria oppure l’interdittiva. In questo secondo caso l’azienda, con un provvedimento amministrativo cautelare preventivo, viene estromessa dall’appalto in corso ma anche da qualsiasi futuro rapporto con la pubblica amministrazione.
La legge Severino, o legge anticorruzione, del 2012, aveva poi istituito anche le cosiddette “White List” presso le prefetture. Riguardano fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori che operano nei settori a rischio e non sono soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa. La prefettura è tenuta a effettuare controlli periodici sulle aziende iscritte che possono anche essere cancellate dall’elenco.
Per capire se le nuove norme funzioneranno come sperato bisognerà però attendere i prossimi mesi. In regioni con un alto numero di provvedimenti, come Campania, Calabria ed Emilia-Romagna, potrebbe essere difficile organizzare contemporaneamente molti contraddittori e percorsi di bonifica.