La Commissione Europea vuole dare più diritti ai rider
E a tutti gli altri lavoratori delle piattaforme digitali, tramite una nuova proposta di direttiva che potrebbe avere grandi conseguenze
La Commissione Europea ha presentato giovedì una proposta di direttiva per migliorare e regolamentare le condizioni dei lavoratori delle piattaforme digitali; si parla quindi anche dei cosiddetti rider, i fattorini che fanno servizio di consegna a domicilio attraverso piattaforme come Glovo, Deliveroo, Just Eat e Uber Eats, e dei driver, cioè gli autisti dei servizi di taxi come Uber. Se approvata, la direttiva potrebbe avere effetti molto profondi: milioni di persone in tutta Europa potrebbero essere riconosciute come lavoratori dipendenti e ottenere nuovi diritti, garanzie e benefit; inoltre, le piattaforme potrebbero essere costrette a cambiare in maniera radicale il modo in cui operano.
Rispetto ad alcune leggi approvate dagli stati membri, come per esempio la cosiddetta “ley rider” entrata in vigore quest’anno in Spagna, la proposta di direttiva europea ha una portata estremamente ampia.
Anzitutto perché riguarda tutti i lavoratori delle piattaforme digitali: non soltanto i rider e i driver, ma anche tutti coloro il cui lavoro è organizzato tramite una piattaforma digitale. Sono compresi, per esempio, i lavoratori che offrono servizi di traduzione tramite piattaforme, o quelli che offrono servizi di pulizia domestica o altri lavori manuali. Per essere considerate tali, le piattaforme devono organizzare il lavoro delle persone che ne fanno uso: sono dunque escluse dalla direttiva le bacheche online.
La parte più importante della direttiva riguarda senza dubbio l’inquadramento dei lavoratori delle piattaforme. Secondo la Commissione, oggi in Europa ci sono circa 500 piattaforme digitali, che danno lavoro a 28 milioni di persone. Di queste, 5,5 milioni sarebbero classificate erroneamente: farebbero cioè il lavoro di un dipendente pur avendo un contratto da lavoratore freelance, o viceversa.
Questo problema è molto sentito da anni praticamente in tutti i paesi in cui operano le piattaforme, e di recente è diventato particolarmente evidente soprattutto con i rider, molti dei quali, sintetizzando, sostengono di avere gli obblighi e gli oneri dei lavoratori dipendenti, senza però godere degli stessi benefit e della stessa sicurezza.
Molti dei lavoratori delle piattaforme – anche se non è del tutto chiaro quanti siano sul totale – chiedono da tempo, anche protestando, di essere inquadrati come lavoratori dipendenti. Le piattaforme sostengono invece che la maggioranza dei loro lavoratori prediliga l’indipendenza data da contratti flessibili, e che comunque la loro funzione sia semplicemente quella di intermediari tra i lavoratori e i clienti, non di datori di lavoro.
Per risolvere questo problema, la Commissione ha messo a punto una serie di criteri che dovrebbero determinare se una piattaforma digitale è o no un datore di lavoro. Secondo la Commissione, le piattaforme potrebbero essere datori di lavoro se:
- determinano il livello di remunerazione o ne fissano i limiti massimi;
- supervisionano le performance del lavoratore tramite sistemi elettronici;
- restringono la libertà di scegliersi le proprie ore di lavoro o i propri compiti;
- impongono delle regole specifiche su come i lavoratori si debbano vestire o comportare nei confronti dei clienti;
- limitano la possibilità di costruirsi una propria clientela o di lavorare per qualcun altro.
Se una piattaforma rispetta almeno due di questi criteri, allora sarà automaticamente considerata come un datore di lavoro, e i suoi lavoratori potranno godere di diritti come le ferie garantite, un salario minimo (nei paesi in cui è previsto), congedi parentali, permessi per malattia, accumulo dei contributi per la pensione, tra le altre cose.
Questo automatismo, definito “presunzione confutabile di subordinazione”, è piuttosto importante, perché significa che basta il rispetto di due criteri per designare il datore di lavoro come tale.
Le piattaforme possono opporsi a questa designazione tramite un meccanismo previsto dalla direttiva e chiamato “rebuttal” (cioè “confutazione”, “replica”), ma l’onere della prova spetta a loro. Sta alla piattaforma, infatti, provare alle autorità nazionali che i rapporti di lavoro con i propri lavoratori non sono una forma di impiego dipendente: è il contrario di quanto successo finora, in cui sono stati quasi sempre i lavoratori che, davanti a un tribunale, hanno dovuto provare di essere dei lavoratori dipendenti per chiedere che fossero concessi loro alcuni diritti.
Le altre novità previste dalla proposta di direttiva riguardano la trasparenza degli algoritmi di gestione dei lavoratori, cioè di quei sistemi di decisione automatica che per esempio assegnano una consegna a un rider piuttosto che a un altro: le piattaforme devono essere più trasparenti su come funzionano gli algoritmi e devono dare ai lavoratori la possibilità di contestare le loro decisioni.
La direttiva impone inoltre alle piattaforme di comunicare alle autorità degli stati membri maggiori informazioni sulle persone che lavorano tramite loro e a quali condizioni.
Ci vorrà comunque ancora molto tempo prima che la direttiva entri effettivamente in vigore, se mai entrerà: dovrà essere discussa dal Parlamento Europeo, e poi passerà all’esame del Consiglio dell’Unione, cioè dei governi dei singoli stati membri, che dovranno decidere di accoglierla nella loro legislazione nazionale, applicando probabili modifiche. Molti aspetti della proposta potrebbero inoltre cambiare, anche a causa dell’influenza delle piattaforme, che quasi sicuramente cercheranno di attenuare alcuni degli aspetti per loro più critici della proposta.
Parlando con il New York Times, un rappresentante di Uber ha detto che l’azienda è contraria alla proposta della Commissione Europea, perché metterebbe a rischio migliaia di posti di lavoro e costringerebbe le piattaforme ad aumentare i costi per i clienti. Molte piattaforme digitali, come per esempio quelle per la consegna del cibo a casa, hanno modelli di business molto criticati e operano sostanzialmente in perdita: praticamente nessuna piattaforma di delivery ha finora fatto registrare un anno di profitti, nonostante il grande successo dei loro servizi.
Anche per questo, la minaccia che regolamentare il mercato della piattaforme farebbe aumentare i costi per i clienti finali è già stata usata ampiamente in passato.
Per esempio, alla fine del 2020 le piattaforme organizzarono un referendum in California, negli Stati Uniti, per essere esentate da una legge che le avrebbe obbligate a pagare ai lavoratori salario minimo e sussidio di disoccupazione. Le piattaforme organizzarono la campagna referendaria più costosa della storia della California, minacciando che se il referendum non fosse passato le piattaforme sarebbero state costrette ad aumentare i prezzi. Il referendum proposto dalle piattaforme passò. Ma pochi mesi dopo, come notò The Verge, le piattaforme alzarono i prezzi ugualmente.