L’evoluzione di Adam McKay
Negli ultimi anni il regista di alcune delle più amate commedie demenziali degli anni Duemila si è dato a film sempre più impegnativi, con altrettanto successo
Da mercoledì in alcuni cinema italiani c’è Don’t Look Up, che dal 24 dicembre sarà anche su Netflix. È un film catastrofico e satirico, perché parla di due astronomi che provano ad avvertire il mondo dell’arrivo di una cometa che distruggerà il pianeta, senza che il mondo se ne curi granché. È costato oltre 100 milioni di dollari e ci recitano Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Cate Blanchett, Meryl Streep, Jonah Hill e Timothée Chalamet.
Lo ha diretto Adam McKay, che fino a qualche anno fa faceva commedie tendenti al demenziale – diventate abbastanza di culto – e che dal 2015 si è messo a fare film sempre più ambiziosi e politici, con uno stile molto riconoscibile – e anche non per tutti i gusti – che lo ha reso uno dei registi più richiesti di Hollywood. Ha cominciato con La grande scommessa, e poi con Vice – L’uomo nell’ombra, candidati in tutto a 13 premi Oscar. E ora ha fatto Don’t Look Up, per il quale, come ha scritto Vanity Fair, ha convinto DiCaprio «a diventare un trasandato professore e Streep a essere una presidente trumpiana».
Nato in Colorado nel 1968, McKay e si è quasi laureato in Letteratura inglese, perché a pochi esami dal traguardo scelse di «accontentarsi di una laurea immaginaria» e tentare la sua strada come comico. Riuscì a farsi notare e a fine anni Novanta fu ingaggiato come autore per il Saturday Night Live, lo storico (già allora) programma statunitense: dell’idea di proporsi come autore anziché come attore parlò come della migliore della sua vita. Anche perché insieme a lui arrivò nel programma un giovane Will Ferrell, di cui divenne grande amico e assiduo collaboratore.
Gli sketch scritti e poi anche diretti da McKay, e interpretati da Ferrell, piacquero molto e la coppia passò dalla televisione al cinema. Come primo film volevano farne uno su una rivendita di auto e su chi ci lavorava, ma il progetto fu rifiutato e finirono col fare Anchorman – La leggenda di Ron Burgundy. Uscì nel 2004 ed è una commedia ambientata negli anni Settanta con protagonista un conduttore televisivo, nella quale recitano tra gli altri Vince Vaughn, Steve Carell, Luke Wilson e con le apparizioni di Jack Black e Ben Stiller. Tutti membri del cosiddetto “Frat Pack”, un gruppo di comici e autori comici americani di cui Anchorman diventò tra i film più rappresentativi e amati.
Seguirono Ricky Bobby – La storia di un uomo che sapeva contare fino a uno – sulle corse NASCAR, con John C. Reilly e Sacha Baron Cohen a fare da spalle comiche di Ferrell – e nel 2008 Fratellastri a 40 anni: sempre comico, ancora con Ferrell e Reilly. Così come il precedente incassò oltre 100 milioni di dollari: molti, visto che quel tipo di film costava poco e coi DVD e i passaggi in tv portava guadagni anche negli anni successivi. A molti diede però la sensazione di essere nient’altro che la reiterazione di qualcosa di già visto.
Ferrell e McKay, nel frattempo diventati grandi amici e soci nella Gary Sanchez Productions da loro fondata, proseguirono con I poliziotti di riserva e Anchorman 2 – Fotti la notizia, i cui incassi furono doppi rispetto al primo. I due fecero anche la commedia teatrale You’re Welcome America, in cui Ferrell faceva George W. Bush, e fondarono il sito di video comici Funny or Die, che ebbe un notevole successo.
Tutto ciò che la coppia aveva fatto stava sotto il cappello della commedia: a volte con un pizzico di satira, altre volte più demenziale. All’Hollywood Reporter, che gli chiese come mai a un certo punto smise di fare commedie tradizionali, McKay rispose:
«Capii che il mondo si stava allontanando sempre più dagli anni d’oro della commedia, tra gli anni Novanta e i primi Duemila. Quelle commedie parlavano di uomini bianchi che non valevano niente […]. Poi iniziai a vedere la devastazione di quella cultura, e smise di essere divertente. Ci furono cambiamenti grandi, potenti, tettonici: il collasso finanziario, l’ascesa dell’estrema destra, la crisi climatica, l’acuirsi delle disparità di reddito. Divenne insensato, quasi assurdo fare quelle commedie vecchio stampo».
McKay decise insomma di fare altro, e visto che Ferrell «non aveva lo stesso desiderio», si mise a farlo da solo. Nel 2015 uscì La grande scommessa, un film che faceva anche ridere ma era perlopiù un dramma e una satira che affrontava in modo parecchio originale – che in seguito altri tentarono di replicare con minore successo – il complicato tema della crisi finanziaria del 2008.
Era tratto da The Big Short – Il grande scoperto, un libro sulla vera storia di alcuni investitori che si accorsero della crisi finanziaria che stava per arrivare e decisero di “scommettere” contro il sistema per arricchirsi proprio grazie alla loro intuizione. La storia, con protagonisti Christian Bale, Ryan Gosling e Brad Pitt, era intramezzata da spiegazioni semplici di cose difficili. La più famosa delle quali arrivava da Margot Robbie che, da una vasca da bagno, diceva: «quando sentite subprime pensate alla merda». C’era un attore anche comico, ma era Carell, non Ferrell.
Sul New Yorker, Anthony Lane ne scrisse: «tutto quello che avreste voluto sapere sui credit-default swaps [i mancati pagamenti dei mutui] ma non avete mai osato chiedere: è tutto qui. Nel film tutto funziona così bene, in maniera così allegramente incauta, che ci rendiamo conto a fatica di essere lì a fare il tifo per un gruppo di cinici assoluti che sono pronti a guadagnare decine di milioni di dollari dalle sventure di altri». Nominato a cinque Oscar, La grande scommessa vinse quello per la miglior sceneggiatura non originale.
Ancora più in là andò Vice – L’uomo nell’ombra: su Dick Cheney, controverso e influentissimo vicepresidente degli Stati Uniti quando il presidente era George W. Bush, interpretato da Sam Rockwell. Il film piacque a diversi critici e fu candidato a otto Oscar, ma non fu propriamente un successo di pubblico. Intervistato da Vanity Fair, McKay ha detto in effetti di rimpiangere di aver fatto «un fottuto funerale», un film che «si dimenticò del sorriso, della necessità del senso dell’umorismo durante il racconto».
Sono elementi che invece non mancano in Don’t Look Up, che parte da premesse simili a quelle di film catastrofici come Armageddon o Deep Impact per parlare di come politica, media e un bel pezzo di popolazione percepiscano come prioritarie cose che non lo sono affatto. Don’t Look Up parla di una cometa ma i riferimenti sono evidentemente all’emergenza climatica e McKay ne ha parlato come del suo film più personale, perché «combina sentimenti ed emozioni degli ultimi dieci, venti, trent’anni: tanto umorismo, tanta tristezza, tanta paura e tanta preoccupazione». Tra i riferimenti ha citato Quinto Potere (il suo «preferito di sempre» citato con un discorso in Don’t Look Up), Il dottor Stranamore e L’asso nella manica di Billy Wilder.
Una delle principali critiche a Don’t Look Up è che voglia fare troppo e troppe cose e che quindi finisca col perdersi: è in effetti un film ambizioso, che prova a mascherare nella commedia le tante cose, alcune piuttosto provocatorie, che ritiene di avere da dire.
Intanto, McKay – descritto da VanityFair come «un dichiarato socialista democratico e un superfan di Bernie Sanders» – ha lasciato la società che aveva fondato con Ferrell e ne ha fondata una nuova, Hyperbolic Industries, che produce film, serie, documentari e podcast. La società ha prodotto il documentario su QAnon Q: Into the Storm, un podcast di commento a Don’t Look Up e si occuperà di Bad Blood, in cui Jennifer Lawrence sarà Elizabeth Holmes, fondatrice di Theranos che portò avanti la più grande truffa nella storia della Silicon Valley. Con una diversa società, McKay è inoltre produttore della serie Succession, l’acclamata serie tv sulle beghe dentro a una famiglia di miliardari proprietaria di un colosso mediatico di destra, di cui peraltro ha diretto il primo episodio.
Di Ferrell, McKay continua a parlare con rispetto: ancor più che per le differenti vedute su che film fare o produrre insieme, la loro amicizia si incrinò quando un paio di anni fa McKay non lo scelse, preferendogli Riley, amico di entrambi, per il ruolo dell’imprenditore Jerry Buss in Winning Time, una miniserie sui Lakers degli anni Ottanta.
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