Questo posto potrebbe custodire tutte le nostre scorie nucleari
Corchiano, nel Lazio, è tra i territori individuati per il futuro deposito nazionale di rifiuti radioattivi, nonostante l’opposizione di chi ci vive
di Isaia Invernizzi, foto e video di Valentina Lovato
Quando smette di piovere, nei campi di Corchiano, in provincia di Viterbo, non è raro incontrare persone, perlopiù pensionati, che si aggirano con gli occhi fissi a terra. Indossano scarponi e mantelline, e usano un bastone per spostare le zolle bagnate e pesanti che in questa zona nascondono spesso reperti antichi. A volte si aiutano anche con i metal detector. Uno di loro è appena salito in auto, ha gli occhiali appannati e sorride. È indeciso, non sa se mostrare ciò che ha appena trovato, poi il vanto vince sulla prudenza: sporge la mano dal finestrino, tra l’indice e il pollice stringe un oggetto che sembra la punta di una lancia ancora incrostata di terra. «Voi però nun me conoscete», avverte.
L’ha trovata in uno dei campi che la Sogin, la società di stato che ha il compito di smantellare gli impianti nucleari italiani, ha indicato come potenzialmente idonei a ospitare un unico grande deposito nazionale di rifiuti radioattivi. I tecnici hanno scelto due aree tra noccioleti, uliveti, corsi d’acqua, un’oasi del WWF, e una rete di cunicoli etruschi ancora nascosta. Molte persone che abitano qui si chiedono come sia potuto accadere.
Corchiano, poco meno di quattromila abitanti, è uno dei comuni della Tuscia – nome che nell’uso contemporaneo identifica l’area dell’Alto Lazio, al confine con la Toscana e l’Umbria – che compaiono sulla CNAPI, la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il deposito nazionale di rifiuti radioattivi, le scorie attualmente stoccate in venti depositi sparsi sul territorio nazionale.
La carta è stata pubblicata nella notte tra il 4 e il 5 gennaio 2021. Se ne parlava da quasi vent’anni, era pronta già dal 2015, e fino all’inizio dell’anno era rimasta coperta da segreto. Le aree potenzialmente idonee sono 67 in tutta Italia e di queste 22 sono in provincia di Viterbo: quella di Corchiano è classificata come A1, tra le più adatte insieme ad altre 11.
In una delle 67 aree, su una superficie di 150 ettari, sarà costruito il nuovo deposito che servirà a stoccare 95mila metri cubi di rifiuti radioattivi, di cui 17mila metri cubi “a media e alta attività” e 78mila metri cubi “a molto bassa e bassa attività”. Circa 50mila metri cubi provengono dallo smantellamento degli impianti nucleari costruiti in Italia per la produzione di energia elettrica e via via dismessi dopo il referendum del 1987.
Le scorie non arrivano solo dalle ex centrali, ma anche da scarti di attività come la medicina nucleare, dove vengono utilizzate sostanze radioattive a scopo diagnostico, terapeutico e di ricerca. Per costruirlo serviranno 900 milioni di euro e sarà finanziato con parte della bolletta elettrica che già oggi copre i costi dello smantellamento delle ex centrali nucleari.
I rifiuti radioattivi – ovunque sarà costruito il deposito – saranno protetti da quattro barriere. La prima è un contenitore metallico cilindrico o a forma di parallelepipedo che conterrà i rifiuti in forma solida. I contenitori verranno custoditi all’interno di celle di cemento armato grandi 27 metri per 15 e alte 10 metri. All’interno del deposito si potranno stoccare fino a 90 celle. L’ultima barriera sarà una collina artificiale composta da strati di diversi materiali. La collina sarà alta qualche metro e avrà il compito di impedire l’ingresso dell’acqua.
Nessuno, neanche gli oppositori più agguerriti, pensa che non debba essere costruito un unico e grande deposito nazionale: è più sicuro rispetto a tanti piccoli depositi e consente di gestire le scorie in modo corretto per un periodo di almeno trecento anni. «È necessario per aspetti di sicurezza: ci consente anche di completare il decommissioning (lo smantellamento dei vecchi impianti nucleari) e restituire alle popolazioni i siti che ospitano gli impianti nucleari, e non da ultimo rispettare le normative europee che sono molto stringenti», ha detto l’amministratore delegato di Sogin, Emanuele Fontani. All’estero funziona già così: i depositi nazionali in funzione sono diciotto e sei sono in costruzione.
È quasi mezzogiorno, nei campi vicino a Corchiano l’aria odora di terra. In lontananza si vede la foschia che nelle giornate di maltempo segue il corso del fiume Tevere. La strada è sterrata e dal pickup di Rodolfo Ridolfi si distinguono grandi campi di noccioli, di ulivi, poi ancora di noccioli. Nel mezzo, casolari isolati e cumuli ordinati di legna accatastata. Sul ponte della ferrovia Roma-Orte sventola uno striscione con la scritta “No alle scorie nucleari”. Ce ne sono molti altri in paese, agli incroci e sulla strada principale.
Ridolfi è il presidente del comitato per la salvaguardia del territorio di Corchiano e della Tuscia, nato il 9 gennaio 2021 con l’obiettivo di partecipare all’estesa consultazione organizzata da Sogin. Il seminario nazionale, come è stata chiamata la lunga serie di incontri che si sono tenuti negli ultimi mesi, è stato pensato per coinvolgere comuni, province, associazioni, anche singole persone che vogliono dire la loro.
Nelle intenzioni dell’azienda, un confronto così ampio e aperto dovrebbe convincere uno dei 67 comuni delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale, ma al momento nessuno si è fatto avanti. È un percorso lungo, destinato a durare ancora per più di un anno, e non è detto che qualche comune non cambi idea.
All’inizio di dicembre Ridolfi ha partecipato alla sessione del seminario nazionale dedicata al Lazio trasmessa su YouTube. In dieci minuti, il tempo concesso a chiunque intervenisse, ha provato a spiegare perché i campi coltivati nel territorio di Corchiano non sono una zona adatta a costruire il deposito. Ha citato dati e studi finanziati dal comitato con un significativo impegno economico coinvolgendo geologi, avvocati, ingegneri, archeologi: l’opposizione alle scorie nucleari è stata presa sul serio.
Tra le altre cose, Ridolfi ha spiegato che l’economia della Tuscia è prevalentemente agricola, con una densità di addetti nel settore molto alta, 169 ogni mille abitanti, e un tasso elevato di terreni coltivati rispetto al territorio complessivo. «Crediamo che sia impossibile realizzare il deposito nelle aree della Tuscia, perché andrebbe a sostituire importanti coltivazioni e ne comprometterebbe altre», dice. «È ovvio che un prodotto agricolo acquista qualità se legato ad un territorio di valore: rifiuti così pericolosi non possono integrarsi con questa fonte primaria non solo di economia, ma soprattutto di civiltà».
Sogin stima che la costruzione del deposito avrà una ricaduta occupazionale di oltre quattromila persone all’anno per i quattro anni di costruzione. Dalla sua apertura, si prevede che darà lavoro a 700 persone per almeno 40 anni. Inoltre, sarà affiancato da un centro di ricerca – chiamato parco tecnologico – per studiare nuove tecniche di smantellamento delle centrali nucleari, gestione dei rifiuti radioattivi e salvaguardia ambientale. I benefici promessi, però, non sono bastati a convincere chi abita in queste zone e in tante altre regioni italiane dove sono nati comitati simili.
Le conseguenze della possibile presenza di un deposito di scorie nucleari hanno spinto diversi imprenditori a far parte del comitato fin dalla sua costituzione. «Qui ci sono in gioco anni di lavoro, di sacrifici», afferma Antonella Ruzzi che vive a Carbognano, dove coltiva nocciole e olive. Sostiene che già l’indicazione di Corchiano come area potenzialmente idonea abbia compromesso possibili investimenti: «Perché dovrei pagare un mutuo per un’azienda che non ha futuro? Se volessi vendere un pezzo di terra, inoltre, sarei molto penalizzata già ora».
La lunga perlustrazione tra i campi coltivati viene interrotta più volte. Il pickup si ferma in mezzo alla strada e Ridolfi indica un antico pozzo, un santuario, querce secolari: tutto rientra nell’area in cui verrebbe costruito il deposito di scorie. Sul confine i campi sprofondano in due forre, gole scavate dai torrenti che arrivano fino al Tevere: nella mappa pubblicata da Sogin non si vedono, ma ci sono, come dimostra il riconoscimento di “Monumento naturale delle forre di Corchiano” deciso dalla Regione Lazio nel 2008.
La seconda area indicata dai tecnici di Sogin invece confina con l’Oasi WWF di Pian Sant’Angelo. Nella Tuscia, sostiene Ridolfi, la cura dell’ambiente non è retorica. «Negli ultimi dieci anni qui a Corchiano la raccolta differenziata dei rifiuti ha superato l’80 per cento del totale: sarebbe ironico punire la nostra virtù con un impianto di trattamento, smaltimento e stoccaggio di rifiuti radioattivi».
Molte persone che abitano a Corchiano si chiedono come sia stato possibile che una selezione partita prendendo in considerazione l’Italia intera sia arrivata a individuare proprio questa porzione di terra. Ma tanti altri che abitano in altre regioni, in Piemonte, in Sardegna e in Sicilia, si sono fatti la stessa domanda.
Non è il risultato di una scelta intenzionale di Sogin: la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee è stata disegnata per esclusione. Sono stati incrociati e sovrapposti dati come la densità abitativa, il rischio idrogeologico e sismico, la presenza di siti Unesco, l’altitudine, le aree caratterizzate da versanti con pendenza superiore al 10 per cento. Non sono state incluse aree vicine ad aeroporti, dighe o aziende pericolose e a meno di di un chilometro dalle autostrade e dalle ferrovie principali. In totale sono stati individuati 28 criteri e al termine del lungo lavoro di esclusione sono emerse sulla mappa le 67 aree potenzialmente idonee su cui sono stati eseguiti approfondimenti.
Lorenzo Manni, geologo di Sogin dal 2014, è tra i professionisti che hanno lavorato alla carta delle aree potenzialmente idonee. Durante il seminario nazionale ha spiegato le complesse indagini che hanno portato alla definizione della mappa, come quelle sulla stabilità geomorfologica, per capire come si è formata e come è costituita la superficie terrestre in un territorio, oppure sulla stabilità idraulica. Sono stati considerati i possibili effetti del riscaldamento climatico a livello locale in accordo con gli scenari previsti dall’ONU.
«I criteri sono stati applicati all’intero territorio nazionale partendo da dati e studi con caratteristiche omogenee per tutta l’Italia», ha detto Manni. «Eventuali approfondimenti di indagine che verranno fatti nelle singole aree prenderanno in considerazione anche studi o analisi a sviluppo più locale, a scala sub regionale o comunale».
Sono questi criteri a non convincere molti tecnici e comitati che hanno presentato osservazioni durante il seminario nazionale. Elena Foddai, per esempio, è convinta che non sia stato dato il giusto rilievo ai beni storici e archeologici nascosti sotto i campi di Corchiano, di cui la punta di lancia trovata dal pensionato è solo un minuscolo segnale.
Foddai, archeologa con un dottorato di ricerca in etruscologia, collaboratrice della soprintendenza della provincia di Viterbo e dell’Etruria meridionale, ha mostrato le carte archeologiche della Tuscia durante il seminario nazionale.
Nelle aree indicate come potenzialmente idonee alla costruzione del deposito è stata evidenziata la presenza di tombe etrusche e antiche vie cave, un eremo rupestre e molti tratti visibili della via Amerina. «È una strada attraverso cui i romani sono penetrati in Etruria», ha spiegato. «Non è una strada qualsiasi, ma una strada basolata con i segni dei carri e delle strutture per far riposare i cavalli». Ai lati delle strade sterrate si vedono grandi massi squadrati incastrati tra le radici degli alberi cresciuti negli ultimi decenni, a volte l’erosione della pioggia ne scopre brevi tratti ben conservati. Servirebbero lunghi scavi per scoprirla interamente.
La Tuscia, lo dice lo stesso nome, era la terra degli etruschi. Lo dimostra anche la rete di cunicoli che venne creata nell’antichità per drenare i campi da coltivare, prevalentemente nascosta e ancora funzionante. Ai contadini capita spesso di imbattersi in questi canali sotterranei, arando il terreno. «Nella Tuscia c’è una concentrazione incredibile di evidenze archeologiche», ha detto Foddai ai tecnici di Sogin.
Un’opposizione così ferma e convinta non ha compromesso i risultati del seminario nazionale. In fondo, i comitati non hanno fatto nulla di diverso rispetto a quello che Sogin si aspettava quando ha aperto questa imponente consultazione e per questo rifiutano l’appellativo di NIMBY, acronimo che viene da Not In My BackYard, utilizzato per descrivere negativamente l’atteggiamento di chi si oppone alla costruzione di grandi opere nel proprio territorio.
Negli ultimi mesi, a differenza di consultazioni avvenute in passato per altre opere, il dibattito è stato sempre pacato, sotto controllo. Sogin ha acquisito una serie di informazioni che non aveva ancora raccolto e i suoi tecnici hanno risposto a centinaia di domande inviate da persone in ogni parte d’Italia. Il resoconto definitivo del seminario sarà pubblicato il 15 dicembre, e da allora ci saranno trenta giorni di tempo per presentare ulteriori osservazioni e documenti.
Uno dei pochi motivi di tensione sono state le parole dell’amministratore delegato di Sogin, Emanuele Fontani, durante un’audizione parlamentare, il 6 aprile alla Camera. Fontani ha definito il Lazio come una regione «interessante perché baricentrica sul territorio nazionale». Due giorni dopo, in seguito alle proteste di chi riteneva che un giudizio così netto sconfessasse gli obiettivi del seminario nazionale, Sogin ha precisato che la considerazione di Fontani «era riferita alla mera valutazione della distanza dai siti che attualmente ospitano i rifiuti radioattivi sul territorio nazionale. Era, pertanto, del tutto esemplificativa e finalizzata a sconfessare che esistano già scelte precostituite. L’esempio, al contrario, era volto a evidenziare che nulla è deciso».
Ridolfi ricorda bene quei due giorni. Il suo telefono aveva iniziato a squillare a ripetizione. Molti agricoltori erano arrabbiati. Qualcuno aveva proposto di salire sui trattori per dirigersi verso Magliano Sabina, a pochi chilometri di distanza, e bloccare l’autostrada. «Non è stato facile placare gli animi. Ci siamo riuniti e abbiamo spiegato che è più giusto portare avanti l’opposizione alle scorie nucleari nelle sedi istituzionali e con l’appoggio di professionisti. Con una manifestazione così eclatante avremmo aggiunto un problema a un altro problema».
Corchiano, come tanti altri comuni in Italia, dovrà attendere altre settimane per capire se le aree individuate da Sogin rientreranno nel prossimo passaggio della lunga procedura di selezione. Una volta esaminati i risultati del seminario nazionale e le ulteriori osservazioni, verrà studiata una versione aggiornata della mappa, chiamata CNAI, la carta nazionale delle aree idonee e quindi non più “potenzialmente idonee”. In seguito la proposta verrà inviata al ministero della Transizione ecologica, chiamato ad approvarla definitivamente insieme al ministero delle Infrastrutture.
Sogin spera che in questa ultima fase qualche territorio si candidi volontariamente a ospitare il deposito nazionale attraverso una cosiddetta manifestazione di interesse. Se nessuno si farà avanti, come sembrano suggerire le posizioni espresse dai comuni e dalle province durante il seminario nazionale, toccherà al ministero della Transizione ecologica prendere la decisione definitiva e scegliere dove il deposito verrà costruito per farlo entrare in funzione entro il 2029, con o senza l’assenso dei territori coinvolti.