L’energia dell’arte performativa
Centrale Fies è un esempio di rigenerazione di uno spazio che rischiava di essere distrutto e invece è diventato un riferimento per molti artisti europei
di Claudio Caprara
Dino Sommadossi è stato, fino a pochi giorni fa, il direttore della Biblioteca comunale di Dro, un comune di poco più di cinquemila abitanti in provincia di Trento. Siamo andati a trovarlo soprattutto perché è anche il direttore e il presidente della cooperativa che gestisce uno dei più importanti centri di residenza e produzione delle arti performative contemporanee europee.
Si chiama Centrale Fies perché si tratta veramente di una centrale idroelettrica asburgica, sorta nel 1911 che è ancora parzialmente in attività. Oggi la produzione è marginale e si può dire che sia stata sostanzialmente dismessa negli anni ’60, quando l’Enel decise di realizzare una nuova centrale a Torbole, undici chilometri più a sud, con turbine idrauliche più moderne ed efficaci.
Quella piccola produzione di energia elettrica, marginale e residuale, è il motivo per cui la centrale non è stata definitivamente abbandonata e non ha avuto un destino del tutto diverso da quello odierno.
La storia dall’inizio
Sommadossi è di quella generazione che “ha fatto il ’77 a Bologna”. Faceva parte dell’ala creativa del movimento studentesco (la newsletter di Strade blu di questa settimana è dedicata a questa storia). Quella carica di ideali e di utopie ha accompagnato la sua vita.
«Eravamo dogmatici, lavoravamo per cambiare la società, per fare la rivoluzione dove eravamo, anche nel nostro piccolo paese. Ci sentivamo legati ad un processo di rinnovamento della struttura culturale italiana. C’era una grande energia».
Nel 1979 Sommadossi tornò a Dro e vinse il concorso per essere assunto come bibliotecario. Le attività culturali erano un coro e la banda. Basta. «Eravamo una zona abbandonata, nella parte meridionale della provincia di Trento, non succedeva nulla».
La biblioteca divenne molto presto un elemento propulsore di idee e di iniziative.
«Con il gruppo di persone che si erano aggregate attorno alla biblioteca, abbiamo deciso di fare delle iniziative. Nel 1980 ci fu la prima edizione di Drodesera. Il festival nacque perché era nata la biblioteca».
La sede di quella prima microscopica edizione fu il teatro parrocchiale. Si può dire che questa storia sarebbe stata diversa se, l’anno dopo, non fosse stato distribuito un volantino contro l’abrogazione della legge sull’aborto, che invitava a votare no al referendum, davanti al teatro, dove era stato organizzato un concerto. Il parroco non la prese bene e da quel momento non concesse più il teatro.
La mancanza di un luogo dove fare delle cose costrinse gli organizzatori a utilizzare degli spazi che non erano mai stati utilizzati per la cultura: «Pensammo di lavorare all’aperto, utilizzando le strade, i cortili, le piazze, l’argine del fiume, posti in montagna, i castelli… Diversi anni dopo, nel ’93, alla direttrice Barbara Boninsegna venne in mente di chiedere l’utilizzo di un luogo un po’ lontano dal paese, perché una compagnia aveva bisogno di lavorare per un intero mese, facendo spesso prove notturne. Venti artisti che lavorano per così tanto tempo non erano compatibili con una realtà urbana. Per due anni ottenemmo il permesso di utilizzare l’esterno della centrale per questi primi interventi creativi».
La scelta di tematizzare il festival prima con il teatro di strada, in grado di coinvolgere direttamente la popolazione, poi con la presenza di compagnie del teatro contemporaneo, del teatro di ricerca e di performing art nazionale ed internazionale scaturì dall’analisi di che cosa mancava in Trentino.
«Avevamo capito che era giusto aprire un’attività in un settore non frequentato da altri e che la provincia dava maggiori spazi di libertà e di creatività a questi artisti rispetto alle grandi città».
La cosa funzionò
Nei primi anni ’80, sull’onda delle innovazioni che erano partite da esperienze culturali di successo (a cominciare dall’Estate romana inventata dall’Assessore alla cultura Renato Nicolini), venne approvata una legge provinciale che finanziava le attività culturali nei comuni. A fronte di questa novità si era formata un’associazione culturale dei volontari, poi nacque una cooperativa, vale a dire un soggetto giuridico in grado di chiedere e ottenere questi finanziamenti.
Erano scelte che permettevano di rendere più stabile e “aziendale” l’esperienza, ma che avevano più a che fare con la concretezza delle necessità, che con l’utopia della creatività.
«Prima erano i comuni che ottenevano i finanziamenti e da quel momento sono diventate le associazioni; e io stavo al centro di questo flusso per fare collaborare pubblico e privato. È stata una fase molto interessante, che ha dato una notevole spinta alla nostra iniziativa».
C’è stato chi storceva il naso?
«Sì. I partiti popolari: PCI da una parte e DC dall’altro ci guardavano con la stessa diffidenza. La loro visione della cultura era sostanzialmente conservatrice. Ci accusavano di essere velleitari, elitari, di fare cose lontane dal popolo, eccessivamente spostate sull’avanguardia. Loro volevano che fossero valorizzati i cori della montagna. Sono cose bellissime, che noi facciamo, ma non ci bastavano. Affrontammo un confronto duro, ma che ha fatto crescere tutti. Certamente noi abbiamo avuto il coraggio di continuare, di batterci per un’apertura culturale ampia e siamo riusciti a difendere e a fare crescere il festival».
Sommadossi ha una visione pragmatica del rapporto con la politica: «Fare cultura è fare politica. Abbiamo sempre avuto un confronto dialettico con la politica tradizionale, ma alla fine se non ci fosse stata una condivisione non avremmo potuto portare avanti il nostro progetto».
Il festival durava una decina di giorni, nel mese di luglio. Fin dalle prime edizioni erano presenti artisti italiani e stranieri, che venivano ospitati nelle case, a contatto con la gente di Dro.
«Non avevamo modelli. Andavamo a Santarcangelo, ma noi eravamo diversi, anche se abbiamo sempre ritenuto importante mantenerci in collegamento con altri piccoli festival che si facevano in Italia. Ci è sempre interessato valorizzare quei luoghi dove gli artisti potevano esprimersi con serenità, fuori dai grandi teatri, e dove potevano avere libertà creativa e anche andare contro le regole del mercato. Qui da noi sono arrivati artisti che hanno rinnovato profondamente il sistema teatrale. I nomi potrebbero essere tanti: quando Marco Paolini realizzò il suo progetto sul Vajont, lo presentò a Dro. In un periodo abbiamo prodotto degli spettacoli e siamo andati in giro per l’Europa a fare danza nelle strade della Spagna o in fabbriche recuperate e in luoghi rigenerati in Germania a mettere in scena i lavori che venivano preparati qui».
Dopo gli esperimenti in esterno dei primi anni ’90 la centrale divenne un luogo stabile per Drodesera nel 2000. Il passaggio dal centro del paese a un luogo da recuperare non fu indolore.
«Avevamo predisposto una navetta che dal centro di Dro arrivava qui e funzionava dalle 18 alle 6 del mattino. Questo piccolo viaggio faceva arrivare le persone lentamente, dalla strada vedevano le luci, sentivano le musiche, facevano poche centinaia di metri a piedi, attraversavano un ponte di legno sul fiume e si trovavano immerse in un’atmosfera affascinante».
Era in atto una trasformazione: da luogo con problemi di accesso, senza parcheggio, isolato, era diventato un luogo con una forte identità.
«La centrale era abbandonata, non c’era la corrente elettrica, mancavano i bagni. Comunque era una fabbrica, non era fatta per accogliere le persone. Ci aspettava un lavoro lungo – che non è ancora finito – e il festival è stata una delle risorse che ci hanno permesso di cominciare l’opera di rigenerazione. Fin dall’inizio abbiamo capito che questo non era un teatro: era un luogo di residenza, era un luogo da vivere con gli artisti».
Sommadossi racconta che fu importante “intercettare” per otto anni un convegno di politica, economia e visioni del futuro: Vedrò, una manifestazione promossa da Enrico Letta. Era un appuntamento che garantiva delle risorse, che venivano investite per portare avanti i lavori nella Centrale.
Nel tempo la cooperativa ha ottenuto il comodato d’uso per trent’anni della centrale e con questo la possibilità di accedere a finanziamenti per i lavori di ristrutturazione: con pazienza e tenacia, il progetto culturale è cresciuto accanto ai lavori di ristrutturazione della centrale.
La Factory di Centrale Fies
«Avevamo in testa di realizzare delle residenze in grado di ospitare gli artisti e per questo progetto ottenemmo un finanziamento triennale della Provincia autonoma di Trento. Su come destinare queste risorse ci fu un lungo confronto tra di noi, come avviene sempre. Io avevo in mente di destinare un terzo a un importante artista europeo, un terzo ad un rilevante artista italiano e la rimanente quota a giovani artisti italiani. Ero molto convinto di questo, ma alla fine prevalse l’idea di destinare tutto il contributo ai giovani artisti italiani, come proponeva Barbara Boninsegna», che oltre ad essere la direttrice artistica di Centrale Fies è da sempre la compagna di Dino Sommadossi.
La Factory nacque con cinque gruppi di artisti: il più giovane aveva 16 anni, la più vecchia 22.
Sommadossi usa spesso la parola “rivoluzione”. «Fu per davvero una scelta rivoluzionaria. Gli artisti avevano una serie di diritti: di residenza, di accompagnamento, di amministrazione, acquisivamo competenze esterne quando lo si riteneva necessario. Gli artisti non erano obbligati a presentare contenuti e a produrli ma in totale libertà potevano ricercare, studiare, al limite per produrre altrove i frutti dei loro progetti.»
Il solo obbligo era un confronto comune, per fare crescere tutti.
L’applicazione di questa idea ha dato dei risultati importanti. «Gli artisti che sono stati da noi, nel tempo, hanno presentato 1900 spettacoli in tutto il mondo, abbiamo vinto i più importanti premi italiani e internazionali (a cominciare dal Premio Ubu). La cosa più rivoluzionaria è che questo sistema permetteva l’errore: il tempo lungo di lavoro permette di sbagliare e poi di recuperare. Sul mercato, se un giovane artista sbaglia, il più delle volte viene espulso».
La Centrale oggi
Nel suo settore l’esperienza di Dro è conosciuta in tutto il mondo: ha proposto una visione dell’arte performativa che viene spesso adottata da altri soggetti. Chi gestisce la centrale, oggi?
«Ci sono due cooperative. La prima – Cooperativa il Gaviale – è quella storica, di produzione e lavoro, con una decina di soci, ci lavorano 8 persone a tempo indeterminato (90% donne), poi altri collaboratori a partita Iva, un’altra cinquantina di persone che viene attivata durante l’anno quando ci sono specifiche necessità. Con la cultura si mangia e si fa mangiare. Il bilancio è di circa un milione e trecentomila euro l’anno e soprattutto una ricaduta economica delle attività sul territorio molto forte: facciamo lavorare i fabbri, gli artigiani, gli elettricisti, gli uffici comunicazione, i grafici, i ristoranti… Abbiamo stimato che in questi anni siano arrivati sul territorio molto più di tre milioni di euro. Poi abbiamo rigenerato un bene che era abbandonato.»
La seconda cooperativa, Fies Core, ha l’obiettivo di utilizzare gli strumenti della cultura per lavorare con il territorio.
«I progetti che si fanno vanno a alimentare un immaginario, poi si può lavorare su tutto. Per esempio Fies Core ha fatto un progetto per rilanciare le prugne di Dro, una coltura che stava morendo. Lo ha fatto con la forza propulsiva della Centrale, perché la cultura non è un ambito, è un modo per affrontare i problemi».
Durante il Covid i teatri sono rimasti chiusi, le strutture di residenza, con tutte le precauzioni del caso, hanno sostanzialmente continuato la loro attività.
Da Dro sono passati centinaia di artisti e per avere un’idea più precisa delle opere prodotte, nelle prossime settimane sarà possibile consultare on line oltre 38 mila documenti che compongono l’archivio.
Il tema della continuità del progetto c’è. «Barbara Boninsegna, che ha più visione di me, si è circondata in questi anni di giovani curatori con i quali ha condiviso la direzione artistica, e con loro continua a costruire i progetti. Abbiamo l’idea di fare crescere la struttura, ma vogliamo essere pronti a fare un passo indietro.»
Tra i giovani che vorrebbero prendersi delle responsabilità e che a Centrale Fies si sentono a casa c’è Elisa Di Liberato. Si è sempre occupata di teatro e oggi fa parte del team di comunicazione di Centrale Fies. È arrivata a Dro nel 2012 perché è una componente del collettivo Mali Weil, un gruppo di performer e artisti visuali, sostenuto dalla Centrale. Col tempo la collaborazione si è intensificata e prosegue.
La definizione che Di Liberato dà di questo luogo è: «Centrale Fies è un luogo dove si coltiva biodiversità culturale, attraverso la ricerca nelle arti, ma non solo».
Allora cerchiamo di capire meglio che cosa voglia dire occuparsi di comunicazione in un posto come questo: «Nel nostri gruppo di lavoro ci occupiamo della filosofia del centro, anche per trasformarla in comunicazione, in “discorso culturale”. Noi cerchiamo di realizzare quelle visioni che ci traghetteranno nel futuro».
Cosa si fa a Centrale Fies
La selezione degli artisti che possono entrare a Centrale Fies riguarda il lavoro della direzione artistica di Barbara Boninsegna e il gruppo di curatori e curatrici che in questi anni la affiancano. A loro arrivano le richieste e in qualche caso è proprio il board che invita l’artista ad una residenza, oppure a una produzione, alla presentazione di un lavoro e, a volte, a un incarico da curatore (come recentemente è avvenuto con Marco D’Agostin).
Centrale Fies si sta evolvendo e sta diventando in forma più netta un centro di ricerca per le arti performative e sta cambiando anche la natura della programmazione al pubblico.
Dopo quarant’anni di festival con una proposta concentrata in un periodo breve, il futuro sarà diverso: più ampio, più vario nelle figure dei curatori e capace di valorizzare la ricerca che si fa qui, facendola conoscere al pubblico.
Ma non solo. «Negli ultimi anni Centrale Fies – spiega Di Liberato – sta diventando anche un luogo di residenza non solo per gli artisti che devono creare un nuovo spettacolo, ma anche un’università dei centri di formazione».
Quando siamo andati a Dro c’erano ospiti gli allieve e allievi del corso di coreografia dell’Accademia reale di belle arti di Bruxelles, che hanno scelto di aprire lì il loro anno accademico. Compiono un’esperienza “immersiva” che i docenti considerano positiva e importante, tanto che questo è il quinto anno che si ripete.
La Centrale è aperta tutto l’anno per le residenze e per le sperimentazioni degli artisti. In inverno non tutte le stanze sono riscaldate e quindi ci sono maggiori disagi nell’usufruire delle strutture.
Quest’anno è stata istituita una borsa di studio dedicata a Agitu Ideo Gudeta – un’imprenditrice etiope che lavorava in Trentino, assassinata il 29 dicembre 2020 nella sua casa di Frassilongo, in provincia di Trento – rivolta ad artiste e artisti “razzializzati”, cioè che hanno trovato degli ostacoli nella realizzazione della loro carriera artistica dovuti al loro luogo di provenienza, a un passato migratorio, all’appartenenza a particolari gruppi etnici. «Abbiamo fatto una call. Sono arrivati molti progetti e, al di là della borsa di studio assegnata a Silvia Rosi, altri progetti sono stati identificati come interessanti da sostenere: ad esempio quello di Francis e Christian Offman».
Un altro tema molto sensibile su cui si lavora in Centrale Fies riguarda le differenze di genere. Per i prossimi quattro anni – nell’ambito della rete APAP (Advancing Performing Arts Project), che comprende 11 organizzazioni culturali di tutta Europa – Centrale Fies curerà la comunicazione e l’identità visiva del progetto “Feminist Futures Festival” è un progetto itinerante in undici realtà europee, ispirato ai concetti di femminismo intersezionale e senza genere. Un femminismo più inclusivo, che comprende chi ha un’identità sessuale diversa, consapevole che esistono più livelli di oppressione.
Completare la rigenerazione
Il lavoro di rigenerazione (che detto per una centrale ha un effetto rafforzato) verrà completato, grazie all’aggiudicazione di nuove risorse, nei prossimi due anni.
«Quando riusciremo ad ampliare i nostri spazi – si augura Di Liberato – realizzeremo nuove foresterie e luoghi d’accoglienza, per rafforzare sempre di più il nostro centro permanente per le pratiche artistiche e la ricerca in tanti ambiti: la danza e il teatro danza, il teatro civile, l’approfondimento e l’ampliamento della nozione di performance, la sperimentazione e le pratiche in cui l’arte diviene un punto di passaggio il design, l’architettura, la rilettura del paesaggio, il turismo…»
Cosa serve oltre a una visione del futuro, per andare avanti?
La sensazione che si ha, di fronte alla meraviglia di Centrale Fies, è che non ne possa nascere un’altra.
«Tutte le cose uniche sono irripetibili – osserva Dino Sommadossi – ma se ci sono delle condizioni di sostenibilità, possono esserci molte esperienze positive legate alla rigenerazione di edifici dismessi. È un processo che in Europa è diffuso e in Italia è avviato».
Per il presidente della Centrale «recuperare risorse e fabbricati abbandonati è una necessità del nostro tempo. Lo si deve fare senza speculazioni, senza trasformare queste attività in un profitto per pochi, ma destinando gli spazi recuperati a finalità sociali e culturali. Si è dimostrato, non solo da noi, che se si lavora per il bene comune si trovano soluzioni redditizie per tutto il territorio. Quando le idee arrivano prima degli investimenti, i progetti rimangono vivi, crescono un passo alla volta. Noi abbiamo pensato ad una rigenerazione funzionale alle nostre idee. Credo che questo sia un modo sano di agire».
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