Com’è cambiato il ruolo del presidente della Repubblica
Negli ultimi 30 anni è diventata una figura politica più rilevante che in passato, ma una tendenza all'interventismo c'è sempre stata
di Mario Macchioni
Al Quirinale «non va chi ha più voti, ma chi ha meno veti», ha detto un mese fa Romano Prodi durante la trasmissione DiMartedì. Prodi, la cui candidatura fallì clamorosamente nel 2013, si stava riferendo alle elezioni della prossima o del prossimo presidente della Repubblica che si terranno a fine gennaio, ma la sua frase si adatta anche a molte elezioni del passato, che spesso si sono sviluppate attorno a intricate trame di veti incrociati e franchi tiratori. Ma se negli ultimi decenni le modalità e i riti intorno all’elezione del Quirinale sono rimasti pressappoco gli stessi, il ruolo della presidenza della Repubblica è invece assai cambiato.
Individuare come e quando sia avvenuto questo cambiamento non è però scontato. Tra le istituzioni dell’ordinamento politico italiano, la carica di presidente della Repubblica è ritenuta da molti, anche in ambito giuridico, come la più enigmatica e la più difficile da inquadrare con precisione.
In un’importante sentenza del 2013 sulle intercettazioni al presidente Giorgio Napolitano da parte della procura di Palermo, la Corte Costituzionale impiegò lunghi paragrafi per mettere la figura del presidente della Repubblica nel contesto della Costituzione e per darne un’interpretazione complessiva. Scrisse, tra le altre cose, che il presidente della Repubblica si trova «al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato» e «al di sopra di tutte le parti politiche», e che le sue competenze «incidono» sui vari poteri politici «allo scopo di salvaguardare, ad un tempo, sia la loro separazione che il loro equilibrio».
Prima ancora il costituzionalista Livio Paladin aveva scritto nell’Enciclopedia giuridica che «la Presidenza della Repubblica si mostra la più difficile e sfuggente fra le cariche pubbliche previste dal vigente ordinamento costituzionale […] eccedente il mondo giuridico e collocata piuttosto sul piano delle realtà prettamente politiche».
Forse proprio per questa sua dimensione ineffabile, il ruolo del presidente della Repubblica non è mai rimasto uguale a seconda di chi lo ha ricoperto. Per quanto un’interpretazione diffusa lo intenda come un semplice notaio che ratifica gli accadimenti politici, o al limite come un arbitro, per lunghe fasi della storia repubblicana i presidenti hanno in realtà smentito questa interpretazione, rivelandosi protagonisti piuttosto attivi delle vicende politiche, scontrandosi con i partiti politici e assumendo un atteggiamento più interventista. Ed è capitato che uno stesso presidente restasse in disparte per alcune fasi del suo mandato, e cambiasse atteggiamento durante altri momenti.
La ragione di questa natura mutevole della presidenza della Repubblica si spiega in parte con la teoria dei poteri “a fisarmonica”, ideata da Giuliano Amato, giudice della Corte Costituzionale e più volte indicato come potenziale candidato al Quirinale, anche a questo giro. In sostanza, secondo questa teoria, quando il sistema politico è stabile e il governo gode di una maggioranza sicura, la prassi istituzionale prevede che il presidente della Repubblica possa stare da parte, e che l’ambito in cui esercita i suoi poteri sia limitato. Viceversa, se il sistema politico attraversa una crisi e se il governo è precario, allora i poteri del presidente della Repubblica si espandono (come una fisarmonica, appunto).
Questa prerogativa ha permesso all’istituzione di cambiare contestualmente al sistema politico, e di adattarsi al collasso dei partiti in seguito alle inchieste di Tangentopoli, iniziate nel 1992. Proprio per questo, secondo le interpretazioni più condivise, il ruolo del presidente della Repubblica è mutato in modo assai evidente negli ultimi trent’anni, occupando sempre di più la scena e contribuendo in modo sempre più decisivo alle scelte dei partiti, che nella cosiddetta Seconda Repubblica hanno progressivamente perso la capacità di autoregolarsi e di risolvere da soli le periodiche crisi politiche.
Non è un caso che la figura del quirinalista, nelle redazioni, si sia affermata dagli anni Novanta in poi. Nata per stare dietro alla gran quantità di esternazioni di Francesco Cossiga, presidente irrequieto soprattutto negli ultimi anni del suo mandato, si rivelò indispensabile anche negli anni successivi. Prima, i giornali e le televisioni avevano dovuto occuparsi raramente di ciò che avveniva al Quirinale. Ancora oggi, il palazzo della presidenza non ha una vera sala stampa, a differenza di Palazzo Chigi, sede del governo, e di Montecitorio, dove c’è la Camera dei Deputati.
Uno dei primi giornalisti a coprire con assiduità il Quirinale fu Marzio Breda, per il Corriere della Sera. Breda ha seguito da vicino i settennati di cinque diversi presidenti, ed è considerato il quirinalista più autorevole e affidabile in Italia. Secondo lui, la cesura in seguito alla quale la presidenza della Repubblica è cambiata di più corrisponde effettivamente alla crisi del sistema partitico dell’inizio degli anni Novanta: «Fino all’ultima stagione di Cossiga, il sistema politico era forte e quindi il presidente della Repubblica aveva meno bisogno di intervenire» dice Breda. «I partiti, che facevano perno sulla Democrazia Cristiana, per quarant’anni gli hanno dato le soluzioni precostituite. Sì, c’erano crisi di governo frequentissime, però erano tutte nell’ambito di regolamenti di conti, si trovava facilmente un equilibrio nuovo».
In quel contesto, nella maggior parte dei casi il presidente della Repubblica accettava le indicazioni dei partiti e le crisi momentanee si risolvevano. Poi il sistema politico entrò in una crisi più profonda, sia per motivi internazionali (il crollo del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda) che per motivi contingenti alla situazione italiana (la crisi economica e le inchieste di Tangentopoli). Il periodo tra il 1991 e il 1993 fu una fase confusa e concitata: si sciolsero i principali partiti che erano stati protagonisti nei quarant’anni precedenti e un’intera generazione di politici fu coinvolta nelle indagini giudiziarie. In quel vuoto emersero formazioni nuove, due delle quali esistono ancora oggi, la Lega Nord e Forza Italia.
Secondo Breda è «in questa confusione» che il sistema politico smise di proporre soluzioni stabili, motivo per cui «entrarono in gioco i presidenti della Repubblica». E dato che la crisi del sistema politico avviata in quel periodo non si è mai risolta, lo spazio occupato dal presidente della Repubblica e la sua rilevanza continuano ad aumentare.
In questo senso, i mandati di Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano sono due casi esemplari. Il primo fu eletto proprio negli anni della crisi di Tangentopoli, ed è ricordato per essersi scontrato duramente con Silvio Berlusconi all’epoca del suo primo governo, durante il quale Scalfaro pretese tra le altre cose un incontro a settimana per non perdere il controllo della situazione. Napolitano fu invece il primo presidente della storia a essere rieletto, nel 2013, ma come condizione per accettare l’incarico chiese ai partiti di fare una serie di profonde riforme istituzionali (con un discorso di insediamento in cui in sostanza rimproverò i parlamentari ed elencò i loro fallimenti, accompagnato da scroscianti applausi degli sgridati).
Un altro indicatore dei cambiamenti degli ultimi trent’anni è il numero dei viaggi compiuti dai vari presidente della Repubblica. In passato non si spostavano molto, né in Italia né all’estero («e parlavano ancora meno», ricorda Breda). Le loro apparizioni avvenivano soprattutto in occasioni come l’inaugurazione di opere pubbliche, motivo per cui venivano chiamati “taglianastri”. Poi le cose cambiarono negli anni Ottanta, con Sandro Pertini, e ancora di più negli anni Novanta. Gli ultimi presidenti hanno fatto decine di viaggi, che a volte prevedono incontri più informali ma spesso sono vere e proprie visite di Stato, con un cerimoniale preciso e il picchetto militare di accoglienza.
In ogni caso, sebbene la trasformazione della presidenza della Repubblica dopo Tangentopoli sia stata innegabile, il protagonismo dei presidenti non è del tutto una novità di quest’epoca. Già in passato, durante la Prima Repubblica perlopiù percepita come immobile e ingessata, c’erano eccezioni vistose, e proprio per questo c’è chi ritiene che la dimensione notarile dei presidenti cominciò a venire meno ben prima degli anni Novanta.
Alessandro Giacone, docente di Storia delle istituzioni politiche all’Università di Bologna, ha dedicato ampi studi all’evoluzione della presidenza della Repubblica. Secondo Giacone, per una breve fase negli anni Cinquanta e Sessanta si vide già il protagonismo che caratterizza attualmente il ruolo. Erano gli anni di Giovanni Gronchi e Antonio Segni, in effetti ricordati come quelli che provarono ad affermare un modello più presidenzialista.
Gronchi per esempio non esitava a esprimersi sulle questioni più disparate e spesso esercitava pressioni, dirette o indirette, per indirizzare l’azione dei governi secondo il suo volere. Una volta scrisse una lettera ad Amintore Fanfani, allora presidente del Consiglio, in cui accennava all’opportunità di «limitare il numero dei sottosegretari», che secondo Gronchi erano troppi. Ma già Luigi Einaudi, ancora prima, aveva dimostrato di sapere interpretare il suo ruolo con un certo decisionismo: fu il primo a nominare quello che oggi viene chiamato “governo del presidente”, cioè presieduto da una figura esterna alla politica e diversa dalle indicazioni dei partiti (l’economista Giuseppe Pella, in quel caso).
«Il momento in cui inizia davvero il ruolo più attivo dei presidenti è il 1953» dice Giacone, riferendosi alla nomina di Pella. «Quello è il primo segno che il regime parlamentare italiano ha anche qualche elemento di presidenzialismo». Di fatto, quindi, secondo Giacone l’interventismo presidenziale esiste praticamente da quando esiste il presidente della Repubblica. Dopo Segni, tuttavia, si ebbe una fase più passiva con Giuseppe Saragat e Giovanni Leone, per poi tornare all’interventismo piuttosto evidente di Pertini, perlomeno a livello mediatico.
In sostanza, una dimensione più attiva del ruolo era «in nuce» già negli anni Cinquanta e Sessanta, prima di emergere con più forza dagli anni Novanta in poi. Se si mettesse su un diagramma l’evoluzione storica in senso interventista della presidenza della Repubblica, quindi, non seguirebbe «una linea retta che va verso l’alto», dice Giacone, «ma piuttosto un movimento ondulatorio».