Le proteste contro il murale di Ratko Mladić a Belgrado
L'ex generale serbo, criminale di guerra in Bosnia, è onorato con un murale in città, che è diventato una questione politica per il governo
Da diverse settimane a Belgrado ci sono proteste e scontri per un murale che rappresenta l’ex generale serbo Ratko Mladić, che lo scorso giugno è stato condannato in appello all’ergastolo da un tribunale delle Nazioni Unite, con le accuse di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, per il suo ruolo nella guerra in Bosnia negli anni Novanta, e in particolare nel massacro di Srebrenica e nell’assedio di Sarajevo.
Per i gruppi di estrema destra, Mladić resta un “eroe” che si è opposto alla presenza delle popolazioni musulmane nei Balcani e che viene ancora celebrato con manifesti e scritte. Per altri, l’ex generale è un criminale di guerra che non dovrebbe essere rappresentato sui muri della città. Diversi osservatori vedono in questo scontro per la conquista di uno spazio pubblico un passaggio importante per capire che tipo di immagine la Serbia vorrà trasmettere al mondo, dopo la sentenza delle Nazioni Unite su Mladić e in vista della sua candidatura come paese membro dell’Unione Europea.
– Leggi anche: Cosa fu il massacro di Srebrenica
Euronews, in un lungo reportage, ha raccontato che il murale al centro della controversia di queste ultime settimane si trova a Belgrado, sul lato di un edificio nel quartiere centrale di Vračar, solitamente frequentato per i suoi caffè e ristoranti. Ritrae Mladić con un berretto dell’esercito mentre fa il saluto militare. L’immagine è accompagnata dalla frase: «Siamo grati a tua madre, generale». Non è chiaro chi sia o chi siano gli autori, ma l’immagine è stata fatta lo scorso luglio, poco dopo la condanna di Mladić al tribunale delle Nazioni Unite. Da allora praticamente ogni due giorni è stato coperto con secchi di vernice o altro da chi non lo vuole, e poi – dato che è protetto da uno strato di lacca trasparente – perfettamente ripulito da chi invece lo vuole.
I residenti del palazzo su cui si trova il murale non lo vogliono: hanno presentato un reclamo chiedendone la rimozione che però, dopo cinque mesi, non è ancora avvenuta.
Il momento di maggior tensione tra sostenitori e detrattori del murale si è verificato lo scorso 9 novembre, durante la Giornata internazionale contro il fascismo e l’antisemitismo, dopo che un gruppo di attiviste e di attivisti aveva annunciato che avrebbe organizzato, quel giorno, un evento di pulizia del muro.
– Leggi anche: Il divieto di negare il genocidio di Srebrenica
Il presidio era stato vietato dal ministero dell’Interno, ufficialmente per motivi di sicurezza, ma due attiviste, Aida Ćorović e Jelena Jaćimović, si sono comunque presentate: «Pensavo che non avremmo dovuto fare altro che stare lì per mostrare che non tutti pensano che Ratko Mladić sia un eroe. Sono rimasta stupita dal fatto che eravamo solo in due, e ho pensato: “Questo è orribile, passerà il messaggio che hanno vinto loro, e non posso permetterlo”», ha raccontato Ćorović. Quindi, ha comprato delle uova in un negozio lì vicino e con Jacimović le ha lanciate contro l’immagine. Entrambe sono state fermate e arrestate.
Le immagini delle due donne che vengono trascinate via da alcuni poliziotti in borghese hanno causato, quella stessa notte, proteste e lievi scontri tra gruppi contrapposti, arginati dalla polizia in tenuta antisommossa.
La polizia di Belgrado ha respinto le accuse di essere intervenuta per difendere il murale, dicendo che gli agenti in borghese erano stati mandati sul posto solo per garantire la sicurezza e l’applicazione del divieto di assembramenti. Quella stessa notte, dopo la fine dell’intervento della polizia, i membri di un gruppo nazionalista di destra sono comunque rimasti vicino al murale cantando slogan a sostegno di Mladić, indisturbati.
Il ministro dell’Interno serbo, Aleksandar Vulin, che è arrivato sul posto a tarda notte, ha definito il raduno di attiviste e di attivisti «vile e guidato da cattive intenzioni». E il giorno dopo, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha confermato che la polizia si trovava lì per prevenire gli scontri. Vučić ha anche chiesto perché gli attivisti avessero scelto quella data particolare, sostenendo che si trattava di «una performance destinata a danneggiare l’immagine della Serbia».
A metà novembre ci sono stati altri presidi e manifestazioni contrapposte: da una parte militanti, organizzazioni non governative per i diritti umani e associazioni come quella delle “Donne in Nero”, per chiedere la rimozione del murale. Dall’altra, a poca distanza, alcune decine di nazionalisti con tute e maschere nere inneggiavano a Mladić.
Il murale, spiega Euronews, non è l’unico, ma è diventato simbolico: ora è sotto costante sorveglianza da parte di alcuni gruppi di uomini che hanno anche allestito un tavolo con due sedie lì accanto. «Sono molto giovani, vestiti di nero, e insultano chiunque tenti di avvicinarsi o si fermi troppo a lungo per dare un’occhiata».
Nel frattempo, poco lontano dal murale di Mladić ne è apparso un altro dedicato a Draža Mihailović, leader del movimento cetnico durante la Seconda guerra mondiale, monarchico-conservatore, anticomunista, e collaborazionista nazista condannato per crimini di guerra durante il processo di Belgrado del 1946.
Nelle ultime settimane, in giro per la città sono comparsi altri murales e graffiti per Mladić “eroe serbo” a cui attivisti e attiviste contro la glorificazione dei criminali di guerra hanno risposto dipingendo su vari edifici della città il “fiore di Srebrenica”, un fiore verde e bianco con undici petali per ricordare la data dell’11 luglio 1995, internazionalmente riconosciuta come Giorno della Memoria per il genocidio di Srebrenica.
Grafiti cveta Srebrenice nalaze se na više lokacija u Beogradu, u naseljima Dorćol, Vračar i Savski venac.
Grafiti su ispisani u noći sa 12. na 13. novembar 2021. godine.
Grafiti se sastoje od cveta Srebrenice u beloj i zelenoj boji, i natpisa PAMTIMO u beloj boji.#beograd pic.twitter.com/8BkFxwaKqr— ꧁𓊈𒆜🅺🆄🅿🅴🅺 🅴🅵🅴🅽🅳🅸🅹🅰𒆜𓊉꧂ (@K_U_P_E_K) November 13, 2021
Giorni fa, le sedi di alcune delle ONG coinvolte in queste ultime azioni, la Youth Initiative for Human Rights (YIHR) e quella delle Donne in Nero, ma non solo, sono state vandalizzate. Ivan Đurić, responsabile di YIHR, ha detto che è stata fatta denuncia ma che comunque non succederà nulla: «Non è la prima volta che ci succede. I nostri uffici sono stati vandalizzati quattro anni fa, e prima ancora sei anni fa: ogni volta che l’argomento della glorificazione dei criminali di guerra torna al centro del dibattito, il nostro ufficio e gli uffici delle Donne in Nero finiscono per essere deturpati», ha detto.
«Un’altra cosa molto comune è che nessuno è mai stato ritenuto responsabile per questo», ha detto Đurić. Ha anche aggiunto che non è difficile capire chi ci sia dietro gli attacchi più recenti: «Sono gli stessi giovani che difendono il murale. Il momento del primo attacco era legato alla fine di uno dei loro raduni. Il colore dello spray è lo stesso del murale di Mladić, gli aggressori indossavano le stesse giacche nere e felpe con cappuccio di quelli che lo sorvegliavano. Non ci vuole davvero un genio per capire chi è stato».
Non si tratta comunque solo di vandalismo. Attivisti e attiviste hanno ricevuto, soprattutto online, minacce molto esplicite e mirate: frasi come “sappiamo dove vivi” seguite dall’indirizzo della persona, o “sappiamo quale attività possiede tuo padre nel quartiere”.
Fino ad ora, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha criticato solo le azioni degli attivisti e delle attiviste. Vučić ottenne il suo primo incarico di rilievo con il Partito Radicale serbo di Vojislav Šešelj – a sua volta imputato per crimini di guerra dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia – un partito nazionalista, di estrema destra e antieuropeista. Alla fine degli anni Novanta Vučić venne eletto ministro dell’Informazione e durante il suo mandato, anche a causa dell’entrata della Serbia nella guerra del Kosovo, venne approvata una controversa legge sull’informazione che di fatto sanzionava tutti i media opposti al regime di Slobodan Milošević, che allora era presidente, e che limitava fortemente la libertà di stampa.
Dopo aver fondato il Partito Progressista, nel 2012 Vučić divenne vice primo ministro, ministro della Difesa e poi primo ministro dal 2014, basando la sua campagna elettorale sulla promessa di condurre la Serbia verso un futuro democratico, europeista e dicendo di voler abbandonare le sue posizioni estremiste e nazionaliste, così come il suo passato.
Tuttavia diversi giornalisti serbi e politici di opposizione sostengono che Vučić, anche come primo ministro, abbia continuato a mantenere posizioni ambigue su molte questioni e un forte controllo sui media, sia attraverso l’apparato statale sia attraverso le proprietà in mano ai suoi alleati oligarchi, usando metodi intimidatori contro gli attivisti dell’opposizione e strumentalizzando le autorità fiscali del governo per fare indagini mirate e screditanti. Sebbene nel 2010 Vučić abbia ammesso che a Srebrenica era stato commesso «un crimine orribile», questa sua posizione non si è mai tradotta in un pieno riconoscimento del genocidio o in una condanna pubblica di Mladić.
Đurić, della ONG YIHR, pensa che i commenti di Vučić sulle loro azioni relative al murale – pronunciati proprio mentre il paese sta portando avanti i negoziati per aderire all’Unione Europea – mostrino che la questione va ben oltre una semplice immagine su un muro. Questa questione «si sta trasformando in uno dei test più seri per l’attuale governo. Non c’è molto spazio per una mancanza di chiarezza che possa soddisfare sia i governi occidentali che la loro base nazionalista in patria».
Se fino a qui Vučić è stato in grado di placare, scrive Euronews, «sia i membri della comunità internazionale come l’Unione Europea sia i nazionalisti più estremisti che fanno parte della sua base elettorale», ora sarà difficile non prendere una posizione esplicita sul murale. E, di conseguenza, dichiarare lealtà ai nazionalisti più intransigenti o agire concretamente contro il negazionismo del genocidio.
– Leggi anche: Radovan Karadžić, l’impostore