Come stanno i Cahiers du Cinéma
Negli ultimi due anni la storica e prestigiosa rivista francese ha attraversato un cambio di proprietà, le dimissioni della redazione, e continua ad avere i suoi problemi
Nel suo numero di dicembre la rivista francese di cinema Cahiers du Cinéma ha pubblicato la sua classifica dei dieci migliori film dell’anno: ha vinto First Cow ed è in generale una lista parecchio francese, con due film che la Francia la contengono perfino nel titolo. Forse un segno della francesizzazione che qualcuno aveva temuto quando nel 2020 la storica rivista, fondata settant’anni fa a Parigi e diventata una delle più prestigiose e rispettate al mondo, aveva cambiato proprietà. Erano seguite le dimissioni dell’intera redazione, in polemica con il fatto che a gestirla sarebbero stati, tra gli altri, alcuni produttori cinematografici francesi. Da allora i Cahiers du Cinéma – di cui molti si ricordano ormai solo annualmente per la loro “Top 10” – sono ripartiti. Almeno per ora, però, non sembrano essere cambiati poi troppo.
Top 10 2021 de la rédaction des Cahiers du cinéma pic.twitter.com/z3QH2VZx6C
— Cahiers du Cinéma (@cahierscinema) November 29, 2021
I Cahiers du Cinéma furono fondati nell’aprile 1951 da André Bazin, Léonide Keigel, Joseph-Marie Lo Duca e Jacques Doniol-Valcroze, e nei primi anni ci collaborarono tra gli altri Éric Rohmer, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol e François Truffaut, tra i più grandi registi francesi del Novecento. Nacquero come evoluzione della rivista Revue du Cinéma, che esisteva dal 1928, e il nucleo iniziale dei suoi redattori era composto da appassionati e studiosi di cinema, molti dei quali frequentavano due cineclub parigini.
Fin da subito i Cahiers du Cinéma si distinsero con posizioni originali e spesso estreme sul cinema, per la qualità della scrittura e per la profondità delle analisi dei redattori. Tramite le loro analisi, e soprattutto in alcuni articoli di Truffaut, criticarono gran parte di quel che era il cinema francese del tempo a cui contrapposero il concetto di politica degli autori, che in estrema sintesi metteva al centro della critica cinematografica gli autori, cioè i registi, anteponendo il loro stile, la loro visione creativa e l’interezza della loro opera rispetto ai singoli film.
Molti redattori della rivista decisero poi di diventare registi e diedero vita alla corrente cinematografica nota come Nouvelle Vague. Un po’ come se alcuni polemici opinionisti di calcio si mettessero ad allenare, promuovendo un nuovo e apprezzatissimo modo di giocare.
I Cahiers divennero sempre più critici e ostili verso tutto ciò che andava contro le proprie posizioni: nel cinema, ma anche nella cultura e nella politica (negli anni Settanta si radicalizzarono al punto da attraversare il cosiddetto “période Mao”). Gli anni più importanti e rimpianti rimasero i Cinquanta e i Sessanta – quelli dei “Cahiers gialli”, dal colore della carta delle copertine pubblicate fino al 1964 – ma anche nei decenni successivi riuscirono a resistere e mantenere una certa importanza nelle letture di alcuni e una certa rilevanza nella considerazione di molti. Non a caso, ancora oggi tanti conoscono la fama della rivista anche senza averne mai nemmeno avuto una copia tra le mani.
Anche negli ultimi anni, i Cahiers du Cinéma hanno continuato a essere per molti la rivista di cinema: autorevole, colta e fatta da chi se ne intende davvero. Nel febbraio 2020 Richard Brody, da oltre vent’anni critico cinematografico del New Yorker, scrisse: «leggo e ammiro molte riviste di cinema, in inglese e in francese, ma i Cahiers, anche quelli degli ultimi decenni, sono ancora mossi dalla forza della passione e dell’urgenza che c’erano alle origini».
Tuttavia, proprio per certe posizioni della rivista, da molti è stata ed è tuttora percepita come emblematica di un modo altezzoso ed eccessivamente ricercato di intendere, raccontare e celebrare un certo tipo di cinema e di cultura, disprezzando il resto. Già prima del 2020 i Cahiers erano finiti in mezzo a polemiche su come andasse gestita e cosa dovesse essere la rivista, e c’erano stati diversi cambi di proprietà, alcuni dei quali piuttosto turbolenti. Per restare però in questo secolo, nel 2009 la società editrice dei Cahiers fu venduta dal gruppo che controllava Le Monde a una società con sede a Londra guidata dall’imprenditore Richard Schlagman, che arrivava dall’editoria.
Residente in Svizzera e, a quanto si dice, non granché interessato al cinema, Schlagman lasciò che ad occuparsi della rivista fosse soprattutto Stéphane Delorme, che la spinse politicamente a sinistra e la aprì al cinema mondiale, conservando comunque notevoli attenzioni e apprezzamenti anche per quello francese. Per quel che vale, nei dieci anni in cui è stato direttore al primo posto della classifica annuale sono finiti cinque film francesi (Holy Motors, Lo sconosciuto del lago, P’tit Quinquin, Les Garçons sauvages e Le livre d’image) e cinque stranieri (Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, Twin Peaks, Vi presento Toni Erdmann, Habemus Papam e Mia madre).
Sotto la sua direzione la rivista, di cui ogni mese erano vendute circa 15mila copie, arrivò talvolta vicina al pareggio di bilancio, ma mai a generare profitti. Nel 2019 si iniziò a scrivere che Schlagman volesse vendere i Cahiers e un possibile acquirente, che però preferì restare anonimo, disse a Les Echos: «la rivista non guadagna con regolarità soldi sufficienti a ripagarne le spese, la si compra se si è interessati al nome o per ragioni di cuore». Aggiunse: «è difficile pubblicare una rivista che fa solo tagliente critica di cinema».
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A inizio 2020 si concretizzò l’offerta di quella che è l’attuale proprietà: un consorzio formato da venti soci che pagò la testata circa due milioni e mezzo di euro. Il gruppo, che possiede tuttora i Cahiers, è guidato da Éric Lenoir, che è amministratore delegato di una società che non si occupa di cinema e che spiegò di voler riportare la rivista alla reputazione di un tempo (parlandone in francese usò la parola “standing”) e di volerla rendere «chic», «accogliente» e «critica senza essere oltraggiosa».
Della nuova proprietà fanno parte, tra gli altri: Grégoire Chertok, soprannominato “il banchiere cinefilo”; Xavier Niel, che possiede anche alcune quote di Le Monde e ha fondato una società informatica; Marc Simoncini, fondatore del sito d’incontri Meetic; e Alain Weill, fondatore del canale tv d’informazione BFM TV e amministratore delegato della società di telecomunicazioni SFR. Oltre a loro, ma con quote minori, ci sono imprenditori con interessi nel cinema e produttori cinematografici francesi. Molti di loro, scrisse il Guardian, erano considerati vicini al presidente Emmanuel Macron.
Ma in polemica con la nuova proprietà, in particolare per via del possibile conflitto d’interessi dovuto alla presenza di alcuni soci legati al mondo del cinema francese, nel febbraio 2020 la maggior parte della redazione dei Cahiers annunciò le dimissioni. Ai tempi si parlò delle dimissioni dell’intera redazione, composta – a seconda delle fonti e dei calcoli – da un numero compreso tra le 10 e le 20 persone; in realtà non fu proprio tutta, visto che tre dei redattori scelsero di restare.
La parte dimissionaria della redazione spiegò che la presenza di otto produttori cinematografici minava l’indipendenza della rivista. I dimissionari sostennero che fosse stato detto loro in modo esplicito di «tornare a concentrarsi sul cinema francese». Aggiunsero che secondo loro i Cahiers non erano mai stati né chic e nemmeno conviviali, e che non volevano lo diventassero. Il comunicato diceva inoltre che la redazione – che aveva criticato il modo in cui i media avevano raccontato il movimento dei gilet gialli – non gradiva «la vicinanza al potere» di alcuni suoi soci.
In quei giorni molti articoli, pubblicati non solo in Francia, espressero solidarietà alla redazione. Brody scrisse che c’era «un piano per trasformare i Cahiers in una rivista promozionale», e che quella era «scalata ostile» che ne «tradiva il passato».
Altre posizioni furono meno categoriche. Le Monde scrisse che la situazione era stata rappresentata «in modo leggermente esagerato» e che Delorme si era dimesso (insieme a gran parte della redazione) «perché aveva capito che non avrebbe avuto posto nella nuova rivista». Definì poi Lenoir «un grande appassionato dei Cahiers», uno che ne collezionava le copie, e raccontò che già alcuni mesi prima dell’acquisizione si era incontrato con «vari cinefili francesi» per immaginare con loro il futuro della rivista. Specificò poi che «i quattro principali nuovi finanziatori [Chertok, Marc Simoncini, Xavier Niel and Eric Lenoir] non erano in conflitto di interessi con il settore cinematografico» e che insieme i quattro avevano la maggioranza delle quote.
Sempre secondo Le Monde, il fatto che i soci coinvolti economicamente nel cinema fossero più d’uno, ognuno con i suoi interessi non necessariamente allineati a quelli degli altri, era una sorta di garanzia del fatto che si sarebbero in qualche modo compensati a vicenda.
Le Monde criticò poi la proprietà precedente, scrivendo che nel decennio in cui erano stati di proprietà di Schlagman e diretti da Delorme «la stella dei Cahiers si era offuscata», che negli anni le copie vendute erano diminuite e che negli ultimi mesi Schlagman aveva avuto perfino difficoltà a pagare alcuni collaboratori. Il tutto mentre si era scelto di rinunciare alla pubblicazione di libri o saggi legati alla rivista e senza che si puntasse in alcun modo sul sito o su una versione digitale della rivista.
Nel maggio 2020 i Cahiers non uscirono e il primo numero sotto la nuova proprietà – e con la guida della redazione affidata a Marcos Uzal, arrivato da Libération – fu quello di giugno, il 766esimo nella storia della rivista. Dopo averlo letto, Eugenio Renzi scrisse sul Manifesto che il formato era «ancora quello degli ultimi quindici anni» e il contenuto era «posato, ben ordinato, ben equilibrato, senza rischi». Aggiunse: «gli articoli di giornalismo sono assai ben fatti (una buona inchiesta sul VOD, un’ottima intervista con il montatore Yann Dedet); quelli di teoria e analisi sono ben scritti ma odorano un po’ di tesi di dottorato».
Intervistato da Libération nel giugno 2020, Uzal parlò dei Cahiers come di una rivista «in condizioni economiche piuttosto brutte» dando la colpa a Schlagman. Disse che tra dipendenti e collaboratori la nuova redazione era formata da 12 persone. A fine anno, la “Top 10” fu questa:
– TOP 10 2020 des @cahierscinema – pic.twitter.com/m2xUv55yIt
— Cahiers du Cinéma (@cahierscinema) December 2, 2020
Nel corso del 2020 i Cahiers hanno dedicato le loro copertine a Francis Ford Coppola, al cinema in streaming, a Léa Seydoux, a Quentin Tarantino, ma anche a personaggi, film e questioni più legate al cinema più propriamente d’autore, francese e non.
In generale, fatta eccezione per la sua “Top 10” del 2021, che comunque interessa marginalmente una nicchia piuttosto piccola di appassionati, sembra che i Cahiers non si siano fatti notare granché. Spesso, quando se ne parla altrove, lo si fa per altre questioni: a ottobre, il sito La Lettre A raccontò per esempio che i suoi conti erano ancora «dans le rouge», in rosso, e che restava da capire se la digitalizzazione e la diversificazione avrebbero potuto migliorare le cose. Forse anche a causa dei problemi pandemici dell’intero settore cinematografico, i più recenti dati sulla diffusione della rivista mostrano un tendenziale calo rispetto agli anni passati.
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