Perché Gramsci ha un gran successo all’estero
La diffusione globale delle sue opere è rara per un intellettuale italiano, ed è dovuta anche ad alcune influenti traduzioni
In un’intervista data a Politico nel settembre del 2020, il presidente francese Emmanuel Macron citò Antonio Gramsci. In quel momento Macron era diretto a Beirut, la capitale del Libano, dove poco più di un mese prima c’era stata l’enorme esplosione che aveva devastato il porto e una parte della città. Parlando della lunga crisi politica ed economica libanese, aggravata dalla pandemia e dall’esplosione, Macron disse che «il nuovo non riesce ad emergere, e il vecchio persiste. Dobbiamo trovare una via, questo è ciò che sto cercando di fare». Stava parafrasando un passaggio dei Quaderni del carcere di Gramsci, che nella versione originale dice:
La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
È una frase che negli ultimi anni è stata spesso citata soprattutto nella sua versione inglese da giornalisti, politici e accademici per raccontare il presente e le crisi che lo attraversano, ma anche in contesti assai diversi: per esempio, in una sua versione leggermente modificata, per promuovere l’esposizione di un’opera d’arte contemporanea.
L’ampia circolazione di questa frase è solo uno dei tanti esempi che testimoniano il rinnovato successo internazionale di Gramsci e delle sue opere, non così comune per un intellettuale italiano contemporaneo e paragonabile a quello, per esempio, di Umberto Eco o Pier Paolo Pasolini. È un successo che ha diverse cause, in parte legate alla biografia di Gramsci stesso, in parte alle caratteristiche del suo pensiero e di come sono circolate certe sue traduzioni nella seconda metà del Novecento.
Antonio Gramsci fu un intellettuale, politico, filosofo e giornalista, tra i personaggi più influenti della storia italiana contemporanea. Nacque ad Ales, in Sardegna, nel 1891. Da giovane fu studente di Lettere a Torino e militante del Partito Socialista, a cui si iscrisse nel 1913. Nel 1919 fondò il settimanale Ordine nuovo insieme al futuro leader comunista Palmiro Togliatti, e nel 1921 partecipò alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, nato con la scissione di Livorno, di cui divenne segretario generale e con cui fu eletto deputato, nel 1924. A gennaio dello stesso anno fondò L’Unità, l’organo di stampa del partito, che rimase tale fino al 1991 e poi divenne il giornale dei partiti eredi del Pci.
Nel 1926 Gramsci fu arrestato nonostante avesse l’immunità parlamentare, nell’ambito di una più ampia repressione degli avversari politici messa in atto dal regime fascista. Venne processato insieme ad altri dirigenti comunisti per cospirazione e incitamento all’odio di classe, con un impianto accusatorio traballante e pretestuoso. Il pubblico ministero concluse la requisitoria con una frase poi diventata celebre: «Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per venti anni».
Gramsci venne effettivamente condannato a vent’anni di carcere, ma l’intento del pubblico ministero fallì perché in quel periodo di detenzione Gramsci produsse le sue opere più importanti e influenti, le Lettere dal carcere e soprattutto i Quaderni del carcere, un’opera monumentale, considerata ormai un classico del pensiero politico, fatta di densi scritti che indagarono tanti aspetti della società e che introdussero paradigmi e categorie entrate nel lessico di moltissime discipline, dalla storia alla sociologia.
Nell’aprile 1937 Gramsci fu scarcerato con un’amnistia, dopo che era stato già messo in libertà condizionata a causa delle sue precarie condizioni di salute. Morì pochi giorni dopo la scarcerazione.
Sulla straordinaria circolazione delle opere di Gramsci ha scritto di recente la ricercatrice italiana Marzia Maccaferri, in un articolo pubblicato dalla rivista Tribune e intitolato How Gramsci Went Global (“Come Gramsci è diventato globale”). Maccaferri scrive che la «globalizzazione» di Gramsci è un fenomeno piuttosto recente, a cui contribuirono un paio di traduzioni inglesi dei Quaderni: la prima del 1957, molto parziale, la seconda del 1971, che diede un impulso decisivo alla circolazione dell’opera in lingua inglese.
I due traduttori, i britannici Quintin Hoare e Geoffrey Nowell-Smith, pubblicarono i loro estratti dopo aver visionato i manoscritti originali di Gramsci e una prima bozza dell’edizione critica del filosofo Valentino Gerratana, pubblicata poi nel 1975. Per adattare il pensiero di Gramsci all’inglese, Hoare e Nowell-Smith usarono una serie di espressioni che poi attecchirono nel lessico politico britannico, come historical bloc, civil society e soprattutto hegemony (“egemonia”).
La traduzione del 1971, scrive Maccaferri, si adattò perfettamente al contesto politico dell’epoca nel Regno Unito, e fornì ai movimenti di sinistra di recente formazione – come la New Left dei paesi anglosassoni degli anni Sessanta – nuovi strumenti di interpretazione dei sistemi politici, nonché di comunicazione.
Ma la diffusione globale delle opere di Gramsci non passò soltanto dalla lingua inglese, benché sia la più parlata e influente al mondo. Negli anni Cinquanta c’erano state anche due traduzioni altrettanto importanti, una spagnola, fatta dallo studioso argentino José Aricó, e una francese, non autorizzata, alla quale si rifece il filosofo Louis Althusser per scrivere il saggio Leggere il Capitale. Peraltro dalle traduzioni francesi derivano anche alcune di quelle successive pubblicate nei paesi arabi, mentre a quella di Aricó si deve parte della rielaborazione teorica del marxismo in Sud America.
Un altro paese in cui le opere di Gramsci circolarono abbondantemente nella seconda metà del Novecento è il Giappone, dove già all’inizio degli anni Settanta si sviluppò un folto gruppo di studiosi di Gramsci, dovuto in parte a una vicinanza del Partito Comunista giapponese a quello italiano, che diede vita in realtà a un filone di studi di scarsa rilevanza in Occidente.
Proprio per tenere traccia di tutte queste diffusioni, la Fondazione Gramsci cura dal 2007 una serie intitolata Studi gramsciani nel mondo, edita dal Mulino. Nel primo volume, gli studiosi Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru scrivevano che l’iniziativa era da tempo necessaria perché si assiste da almeno «tre decenni a una forte crescita di attenzione, nelle più diverse aree culturali del mondo, al “fenomeno Gramsci”». Secondo Vacca e Schirru il momento principale di questa «esplosione» furono i quarant’anni dalla morte di Gramsci, nel 1977, ma ebbero un ruolo anche le grandi attenzioni che ricevettero all’estero alcuni importanti passaggi storici italiani, come il “compromesso storico” tra Democrazia Cristiana e Pci.
La Fondazione ha anche messo insieme un’analisi quantitativa della diffusione delle opere di e su Gramsci, basandosi sugli indici delle biblioteche e sui database online. Secondo questa analisi, Gramsci è l’intellettuale italiano contemporaneo più citato nel mondo dopo Umberto Eco. Per trovare due intellettuali italiani con più occorrenze bisogna risalire a epoche più remote: Dante e Niccolò Machiavelli.
«La nostra bibliografia attualmente conta 22mila titoli in 42 lingue» racconta Maria Luisa Righi, ricercatrice della Fondazione e curatrice della Bibliografia gramsciana. È un’iniziativa che avviò lo studioso americano John M. Cammett e che raccoglie tutti i saggi e gli articoli su Gramsci a partire dal 1922 e tutte le edizioni e le traduzioni delle opere di Gramsci a partire dal 1927. «Normalmente non mettiamo neanche le ristampe, quindi è un numero al ribasso rispetto alla produzione reale».
Stabilire se alcune caratteristiche del pensiero di Gramsci abbiano contribuito alla sua diffusione nel mondo è un’operazione complessa. I Quaderni hanno un’estensione notevole e nel corso degli anni si sono prestati alle interpretazioni più diverse, nelle più diverse discipline e anche da parte di schieramenti politici lontani rispetto a quello a cui Gramsci apparteneva: «Per esempio il gramscismo di destra francese risale almeno agli anni Novanta», ricorda Righi. «Gli unici movimenti che non si sono mai avvicinati alle idee di Gramsci sono le ultra-destre statunitensi e sudamericane».
Tuttavia, tra le molte sfaccettature ci sono almeno tre elementi che si possono citare per inquadrare meglio la diffusione delle opere di Gramsci. Il primo è il ruolo degli intellettuali, dice Righi: «È chiaro che una teoria politica che attribuisce una grande importanza agli intellettuali non può che essere apprezzata dagli intellettuali stessi, che sono anche i primi mediatori del suo pensiero». Poi, continua Righi, la ricezione di massa è dovuta anche «al contributo che dà alla lettura della realtà, e probabilmente alla molteplicità degli interessi di Gramsci, in cui possono rispecchiarsi in molti».
Infine, un ulteriore elemento è l’antidogmatismo del suo pensiero, cioè la sua tendenza a non considerare nulla come una verità assoluta, neanche il marxismo. «Non dico che la sua visione fosse eretica, perché a Gramsci non sarebbe piaciuto» dice Righi. «Però era antidogmatica, senza dubbio».