Il cinema sta esagerando con il trucco?
Tra critici e addetti ai lavori c'è dibattito su dove stia portando la gara a far assomigliare sempre di più gli attori ai personaggi reali che interpretano
«Pennelli, pinzette, adesivi chirurgici e una colla usata in medicina che costa 600 euro al litro. Tutto è testato medicalmente per non rovinare la pelle. Le parti più delicate su cui applicare gli stampi sono gli occhi e il naso» raccontò un paio di anni fa Andrea Leanza, il “make-up artist, designer e prosthetic sculptor” che si era occupato di trasformare Pierfrancesco Favino in Bettino Craxi per il film Hammamet. Parlando di quel lavoro che per due mesi richiese ogni giorno «quattro ore di trucco, più una dedicata a costume e ritocchi», Leanza aggiunse: «abbiamo ricoperto tutta la testa di Favino aggiungendo anche lobi, labbra e una dentiera».
Parlando di King Richard – l’atteso film in cui Will Smith interpreta Richard Williams, l’inflessibile padre delle tenniste Venus e Serena – il regista Reinaldo Marcus Green ha invece detto che in alcune prove prima delle riprese i truccatori «erano riusciti davvero a far somigliare Smith a Williams in modo sconvolgente», tra le altre cose con una serie di accorgimenti per modificarne il naso e le guance. Ai truccatori e ai professionisti che in vario modo si erano occupati della cosa, Green disse però: «ragazzi avete fatto davvero un ottimo lavoro, ma non è quel che voglio. Guardai Will negli occhi e gli dissi: “non ne hai bisogno”». Secondo Green, Smith «doveva immergersi nel personaggio e sparire, ma questo non voleva dire diventare lui».
Tra i molti possibili, gli esempi di Smith e Favino ben rappresentano due approcci diversi alla stessa questione: quando si recita, in particolar modo quando si interpreta una persona nota agli spettatori, è meglio assomigliare il più possibile al personaggio, oppure è meglio lasciare che il volto e il corpo di chi recita siano il più liberi e naturali possibile?
Tra appassionati di cinema se ne sta parlando soprattutto in relazione al film House of Gucci, che in Italia uscirà il 16 dicembre. Oltre a Lady Gaga, Adam Drive, Al Pacino e Jeremy Irons, nel film – che racconta le vicende che negli anni Novanta riguardarono Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani – c’è Jared Leto, che interpreta Paolo Gucci ed è considerato una sorta di campione mondiale nel “diventare irriconoscibile” interpretando personaggi con aspetto e corporatura ben diversi dai suoi.
Secondo Vulture, le esagerate metamorfosi di Leto e di altri attori e attrici sono un problema, «una delle più strane abitudini di Hollywood». Specie quando comportano che al viso di chi recita siano aggiunti nasi finti, doppi menti, dentiere o divaricatori per narici, e che le facce di attrici e attori siano plasmate e modellate con protesi, lattice o silicone. «Questi trucchi sono pensati per aggiungere autenticità, ma in un modo perverso fanno il contrario», ha scritto Vulture, secondo cui c’è da chiedersi se ormai non si sia finito con «l’apprezzare l’imitazione più che la recitazione».
Scrivendo per BBC, anche Nicholas Barber ha espresso dubbi simili, e si è chiesto: «serve davvero che gli attori somiglino così tanto alle persone che interpretano?». Anche lui ha detto di non gradire per niente il fatto che Leto somigli così tanto a Paolo Gucci. «La sua frastornata clowneria, il suo lamentoso canticchiare e il suo stagionato accento italiano fanno pensare a uno sketch ambientato in una pizzeria di un qualche vecchio episodio dei Muppet», ha scritto Barber: «ma a sua difesa si può dire che la sua recitazione non è comunque più eccentrica dei suoi capelli e del suo trucco».
Seppur molto rappresentativo di questo fenomeno, Leto è comunque solo uno tra tanti. Di recente, si è parlato di una irriconoscibile Jessica Chastain diventata Tammy Faye Bakker, un personaggio parecchio noto negli Stati Uniti, per The Eyes of Tammy Faye, e della trasformazione con cui Nicole Kidman è diventata l’attrice, cantante e produttrice Lucille Ball per Being the Ricardos.
Sebbene probabilmente in Italia siano sconosciute ai più, Ball e Bakker sono molto conosciute negli Stati Uniti, in buona parte grazie alla loro intensa attività televisiva. Di conseguenza, agire affinché Chastain e Kidman assomiglino loro il più possibile era secondo Vulture «un’idea irresistibile», solo che si è finito con lo sconfinare nel territorio della «uncanny valley»: la “valle perturbante”, la definizione con cui in robotica ci si riferisce al concetto secondo cui, superata una certa soglia di somiglianza con gli umani, i robot antropomorfi creano disagio e turbamento in chi li osserva.
Vulture sostiene che anziché aiutare la sospensione di incredulità su cui si basa il cinema – quella secondo cui per un paio di ore si finge di prendere per vera una storia che evidentemente non lo è – un’eccessiva trasformazione dell’attore nel personaggio la comprometta. Perché si finisce per essere troppo distratti, addirittura turbati, da quella grande immedesimazione. Cosa che oltre a poter compromettere la recitazione, rovina l’esperienza di visione.
Vulture si chiede anche come mai, certi film, siano così interessati alla verosimiglianza di attori e attrici con personaggi reali (talvolta mostrandoli gli uni accanto agli altri nei titoli di coda) senza però mettere altrettanto in alto l’asticella nel rispettare la veridicità dei fatti narrati. «Forse» azzarda Vulture «è più facile parlare della trasformazione estetica di un attore anziché farsi certe domande sull’illusione dell’accuratezza storica».
Tutto un altro ordine di critiche riguarda inoltre il fatto che certe trasformazioni si possono fare solo da un verso all’altro, cioè con attori o attrici avvenenti e tendenzialmente con un ottimo fisico che vengono invecchiati, ingrassati (talvolta con appositi indumenti) e molto spesso imbruttiti.
Da questo, possono nascere due tipi di problemi: il primo, molto semplice, è che se Leto interpreta Paolo Gucci o Favino interpreta Bettino Craxi, qualche altro attore un po’ più somigliante a Gucci o Craxi non lo farà. Il secondo, è che, come ha detto a BBC la scrittrice e critica Kayleigh Donaldson, si rischia una sorta di «feticismo» nato dal guardare, e in un certo senso celebrare per fini promozionali del film, quanto brutti o grassi possano diventare certi divi giovani e belli. O semplicemente riderne, come spesso succede nel programma di Rai 1 “Tale e Quale Show”, in cui settimanalmente persone più o meno famose si “trasformano” in altre molto più famose, provando a imitarne voce e movenze, dopo che sono appunto state truccate per somigliare loro il più possibile.
«Ma qual è» ha chiesto Donaldson «il punto in cui certe cose smettono di essere utili strumenti nella cassetta degli attrezzi di un attore e diventano elementi di distrazione?».
Una risposta ovviamente non c’è. Ci sono però argomenti ed evidenze per sostenere invece che Favino che diventa Craxi e Toni Servillo che diventa prima Andreotti e poi Berlusconi siano invece ottime prove di recitazione, che non fanno altro che sfruttare le competenze e le professionalità di tutta una serie di addetti ai lavori col fine di migliorare l’efficacia delle interpretazioni. Parlando al Corriere della Sera del lavoro dietro alla craxizzazione di Favino, Leanza spiegò per esempio che il suo team era composto da 13 persone (una delle quali si occupava «di inserire ogni volta con un ago 250 capelli veri sulla calotta cranica») e che usò «più di 500 protesi e 44 “facce” di Bettino Craxi».
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Il primo e più semplice argomento in difesa della trasformazione in certi personaggi è che, se si continua a fare, evidentemente è perché la cosa continua a piacere. Il secondo è che recitare spesso presuppone proprio diventare altro da sé, in tanti modi diversi.
Si può poi dire che l’immedesimazione estrema sia un problema solo se fatta male. Sia Leto sia Kidman vinsero per esempio l’Oscar per come e quanto riuscirono a trasformarsi: Leto per Dallas Buyers Club e Kidman per The Hours, in cui divenne Virginia Woolf. Fu in genere molto apprezzato il modo in cui Gary Oldman divenne Winston Churchill per L’ora più buia, quello in cui Christian Bale (un altro grande trasformista del cinema) fu trasfigurato in Dick Cheney per Vice, o ancora il modo in cui Meryl Streep divenne Margaret Thatcher per The Iron Lady e Marion Cotillard si trasformò in Edith Piaf per La Vie en Rose. Sono inoltre molti i casi in cui trasformazioni drastiche sono state premiate con l’Oscar al miglior trucco e acconciatura, che esiste solo dal 1982, e non pochi quelli in cui quelle stesse trasformazioni portarono a Oscar per la recitazione.
A volte, una somiglianza non estrema può invece servire proprio a ricordare agli spettatori che stanno vedendo un film, con dei personaggi che somigliano a delle persone di cui non sono però la copia esatta. Succede per esempio in Spencer di Pablo Larraín, in cui Kristen Stewart interpreta Diana Spencer pur non somigliandole particolarmente. E succedeva in The Social Network di David Fincher, in cui Jesse Eisenberg somigliava appena a Mark Zuckerberg.
Ci sono inoltre margini per sostenere che l’incremento nella trasformazione di attori e attrici nei personaggi che interpretano sia più che altro una naturale conseguenza di altro: anzitutto, un sempre maggiore interesse verso i film biografici. E poi una sempre maggiore necessità di verosimiglianza dovuta al fatto che la qualità degli schermi si fa sempre più definita, e la concorrenza delle immagini modificate a computer sempre più agguerrita.
Non è un caso che argomenti e controargomenti di questo dibattito ricordino spesso quelli relativi al ringiovanimento digitale degli attori. Così come in quel caso, spesso è difficile capire dove finisce il lavoro del trucco (o della tecnologia) e dove inizia la bravura di chi recita. Non c’è accordo su quanto il saper recitare con un altro corpo, un’altra faccia e un’altra età sia parte della bravura del recitare, e quanto invece una maschera, un naso finto o una dentiera nascondano la recitazione e riducano la mimica facciale.
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