Che cause ha la pedofilia nella Chiesa
La recente autocritica dei vescovi francesi ha rinnovato una discussione complessa, che tira in ballo il celibato e l'idea stessa che abbiamo del prete
di Giulia Siviero
Per moltissimo tempo, la questione degli abusi sessuali anche contro minori all’interno della Chiesa è stata o silenziata o ridotta a un problema marginale legato alla devianza di alcuni singoli individui. Ora che in Francia la Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa (CIASE) ha pubblicato un rapporto in cui si parla di 330 mila persone abusate in circa settant’anni, e ora che la Conferenza episcopale francese (CEF) ha riconosciuto ufficialmente «la responsabilità istituzionale della Chiesa» e la «dimensione sistemica» di quelle stesse violenze, sono in corso molte discussioni per cercare di comprendere, innanzitutto, le cause che possono essere alla base di questi abusi sistematici.
È anche uno degli obiettivi della stessa Conferenza episcopale francese, che ha deciso di avviare un processo di riflessione attraverso la costituzione di gruppi di lavoro guidati da laici che si concentreranno su temi specifici tra i quali, appunto, «l’analisi delle cause di violenza sessuale all’interno della Chiesa».
In un recente articolo pubblicato sull’edizione francese di Slate ci si chiede se esista un profilo-tipo dei preti che sono anche predatori sessuali e se per i predatori sessuali la Chiesa possa essere un luogo attrattivo, per la speranza e forse consapevolezza di poter trovare, diventando preti, delle potenziali vittime silenziose e facilmente silenziabili.
Florence Thibaut, docente di psichiatria e presidente dell’International Association of Women’s Mental Health, ha preso parte al percorso che ha portato al rapporto del CIASE e ha avuto la possibilità di studiare le testimonianze degli autori di stupri e abusi sessuali sui minori all’interno della Chiesa. Ha precisato che solo il 10 per cento di loro «ha un profilo che corrisponde a quello dei predatori pedofili».
Il sociologo Josselin Tricou, autore di un libro sulla mascolinità dei preti, ha spiegato che «la violenza sessuale contro i bambini all’interno della Chiesa non è solo opera di preti con tendenze pedofile. Considerando il gran numero di casi di violenza, si può infatti dubitare che tutti gli abusatori siano marcati da questa parafilia». Altre studiose e altri studiosi hanno confermato, arrivando alla conclusione che nei profili della maggioranza degli aggressori entrano in gioco altri fattori.
Diversi studiosi, filosofi e psichiatri intervistati sui giornali francesi si sono chiesti se non sia la Chiesa stessa, per struttura, pratiche e mentalità, ad avere un ruolo nei comportamenti e nelle pratiche abusanti. E nelle diverse analisi che si possono leggere in queste settimane tornano con insistenza le questioni dell’obbligatorietà del celibato dei sacerdoti, del voto di castità, e quella del potere legato alla loro figura e al loro ruolo.
L’idea che il celibato o l’astinenza sessuale dei sacerdoti siano all’origine delle violenze commesse è molto comune. Diversi sacerdoti che hanno testimoniato nel rapporto del CIASE hanno in effetti riconosciuto di vivere un isolamento affettivo, «un isolamento in cui possono sviluppare un investimento emotivo» e «confondere l’affetto con il desiderio sessuale», dice Thibaut. Questa confusione può certamente derivare dall’immaturità emotiva di molti preti, che magari sono entrati in seminario in giovane età e che da lì in poi non hanno ricevuto alcuna educazione sessuale o all’affettività, se non quella che la sessualità stessa è un divieto e un tabù.
Ma se tutto questo può essere vero o quantomeno verosimile, un legame diretto tra il celibato e il passaggio a un atto di pedocriminalità è tutt’altro che accertato. Tale legame comporterebbe, tra l’altro, di mettere sullo stesso piano il desiderio per una persona adulta e il desiderio verso un o una minore.
L’opinione più diffusa è dunque di non attribuire troppa importanza al celibato o al voto di castità nell’analisi del sistema degli abusi all’interno della Chiesa. Almeno, non al celibato o alla castità in sé. E lo chiarisce anche il CIASE, dicendo che il celibato dei preti non ha alcun legame di causalità con le violenze sessuali commesse, tanto che un terzo di quelle stesse violenze è stato commesso da laici legati alle istituzioni della Chiesa, soprattutto nelle scuole, e dunque da persone non costrette al celibato o alla castità.
Marie-Jo Thiel, medica e docente di etica e teologia, ha individuato dunque come centrale in questo discorso il potere, che ha con il celibato ecclesiastico «un legame storico». Quella del celibato ecclesiastico è infatti una tradizione antichissima: è una prassi che risale ai primi secoli dopo Cristo, ma che si impose più tardi, dall’XI secolo in poi, grazie alla dottrina della “transustanziazione” in cui venne ribadita l’identificazione del sacerdote con Cristo in modo molto più profondo rispetto al passato.
Il celibato, come ha riassunto su Avvenire il sacerdote e psicologo Lello Ponticelli, «esprime un aspetto dell’imitazione di Cristo, l’unione intima, affettiva, profonda, in anima, corpo, affetti, sentimenti, sessualità, con Lui», esprime «una piena e appassionata dedizione alla Chiesa, a una comunità concreta» e non coincide con «la rinuncia ad amare», ma con «la scelta di amare teneramente e liberamente tutti e ciascuno, senza riserve, senza tenere nulla per sé, rinunciando al sesso, a una propria famiglia, ai figli, con tutto il valore simbolico che questo esprime». Secondo Ponticelli il celibato «è per annunciare il Regno che verrà, anticipando la morte nella propria vita – il senso più profondo del suo aspetto di ‘mortificazione’ – e così testimoniare la bellezza della risurrezione e il profumo dell’eternità, la gioia del paradiso dove non ci sarà più né moglie né marito».
Il legame con gli abusi sessuali potrebbe allora derivare in modo indiretto dal fatto che il celibato alimenta l’idea della sacralità del sacerdote, una convinzione che potrebbe indurlo a un sentimento di «onnipotenza» e ad auto-percepirsi come una specie di «superuomo».
Nathalie Sarthou-Lajus, vicedirettrice della rivista gesuita Études ed esperta di questioni religiose, ha spiegato che parte del problema è secondo lei proprio «lo status “a parte” del sacerdote» che in alcuni casi può fargli «covare la tentazione dell’onnipotenza». Questa onnipotenza, ha spiegato a sua volta il sociologo Josselin Tricou, può aver insinuato nei sacerdoti l’idea di poter esercitare un potere anche sui corpi degli altri. La posta in gioco nella violenza sessuale, ha spiegato, non è infatti il desiderio sessuale, ma la dinamica di potere che viene esercitata attraverso la sessualità.
L’idea del celibato ha poi alimentato l’idea che il sacerdote sia una creatura eterea e desessualizzata, priva di desideri e pulsioni. E questo ha a sua volta incoraggiato una fiducia quasi assoluta nei suoi confronti, ma anche il silenzio o la minimizzazione intorno ai crimini sessuali.
«La sacralizzazione del sacerdote e dei sacramenti di cui ha il monopolio può essere facilmente deviata per ottenere favori sessuali. Il principio della vocazione (l’idea che il sacerdote sia stato chiamato da Dio) ne accresce la presa e può far credere alla sua vittima di essere essa stessa scelta da Dio. L’influenza caritatevole (l’idea che il sacerdote non eserciti un potere ma si sacrifichi al servizio dei più piccoli) garantisce la sua impunità e la negazione che circonda il suo abuso di potere», conclude Tricou.
In tutto questo ha infine un ruolo la struttura stessa della Chiesa. I sacerdoti colpevoli di violenza sessuale ascoltati dal CIASE non hanno negato la responsabilità dell’istituzione, evocandone il silenzio e la mancata prevenzione di stupri e aggressioni sessuali al suo interno: in assenza di limiti, alcuni sacerdoti sembrano essersi sentiti autorizzati a perpetuare gli abusi.