Il nuovo tentativo di cambiare la sanità in Lombardia
È stato presentato da Letizia Moratti e prevede una riorganizzazione dei servizi sul territorio, ma non sembra risolvere i problemi legati al potere delle strutture private
Nel grattacielo Pirelli, conosciuto come il Pirellone, sede del Consiglio regionale della Lombardia, è in corso una delle sedute più lunghe degli ultimi trent’anni: i consiglieri stanno discutendo l’ennesimo tentativo di riforma della sanità regionale dopo le evidenti lacune emerse durante la prima ondata della pandemia da coronavirus. I confronti e le discussioni sulla riorganizzazione del sistema sanitario in Lombardia sono iniziate oltre un anno fa, ma solo negli ultimi mesi – con la nomina dell’assessora al Welfare Letizia Moratti, che ha sostituito Giulio Gallera – il dibattito si è focalizzato su una serie di proposte precise.
Più che riforma, Moratti e la maggioranza parlano di “linee di sviluppo” o di semplici modifiche alla cosiddetta legge Maroni del 2015 che a sua volta aveva riformato la riforma sanitaria del 1997 approvata durante il primo mandato di Roberto Formigoni.
I punti principali del nuovo testo sono quattro: il cosiddetto approccio “One Health”, che riconosce un legame tra la salute degli individui e quella degli animali e dell’ambiente; la libertà del cittadino sia nella scelta delle strutture ospedaliere, sia del personale; il rapporto tra sanità pubblica e privata; il raccordo tra sanità lombarda, aziende e università.
Nelle schede che indicano gli obiettivi della riforma si legge che tra le altre cose ci sarà un «potenziamento generale della medicina territoriale e dell’ambito della prevenzione» con l’istituzione di «Case della Comunità, ospedali di comunità, Centrali Operative Territoriali e potenziando l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI)» (ci torniamo). Il ruolo dei medici di medicina generale viene definito «centrale» nella cura dei pazienti, in particolare quelli affetti da malattie croniche. «Lo spirito di questa proposta di riforma è sicuramente il rafforzamento della sanità territoriale, in maniera molto concreta», ha detto Moratti.
I due punti più importanti delle linee guida, e su cui c’erano molte aspettative da parte della politica regionale, sono la cosiddetta libertà di scelta del cittadino e il rapporto tra sanità pubblica e privata. La sanità in Lombardia, infatti, è ancora oggi basata sulla visione dell’ex presidente Roberto Formigoni che durante i suoi mandati, dal 1995 al 2013, creò un sistema basato proprio sulla libertà di farsi curare dal servizio sanitario pubblico o da quello privato.
La visione di Formigoni venne resa possibile dalla riforma del 1997 che rese gli ospedali italiani sempre più simili ad aziende, con bilanci autonomi e manager professionisti, e che consegnò ai governi regionali – competenti sulla sanità in base a quanto stabilisce la Costituzione – l’autonomia di organizzarli come preferivano.
Oggi poco meno della metà della sanità lombarda è privata: opera per gran parte in regime di convenzione con il pubblico, cioè viene pagata dalla Regione per offrire le stesse tariffe e la stessa qualità di prestazioni del servizio pubblico. In alcune aree della regione, i privati sono divenuti i gestori dominanti della sanità locale. E per molti versi, come si è visto negli ultimi anni, questo è un problema.
Le aziende private, che operano per fare profitti, concentrano la loro attività soprattutto su operazioni poco rischiose e visite specialistiche, mentre gli ospedali pubblici si fanno carico prevalentemente dei pronto soccorso, dei traumi causati dagli incidenti stradali, della cura degli anziani e dei cronici, delle malattie rare.
Questa impostazione è stata confermata dagli ultimi dati di AGENAS, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, diffusi dal Corriere della Sera: nel 2019, prima dell’epidemia, in Lombardia i posti letto in totale erano 29.308, il 70 per cento pubblici e il 30 per cento privati.
Ma se si osservano nel dettaglio i diversi tipi di interventi, le percentuali cambiano. Gli interventi remunerativi e con ampia discrezionalità nel decidere se è utile o meno farli, per esempio quelli per obesità o per le valvole cardiache, vengono eseguiti per la maggior parte dai privati. Lo stesso vale per altre operazioni come l’impianto di defibrillatori, bypass coronarici, sostituzioni di anca e ginocchio. Gli ospedali pubblici eseguono gli interventi più costosi e con più rischi: trattano l’80 per cento delle emorragie cerebrali, l’87 per cento delle leucemie, l’82 per cento delle neoplasie all’apparato respiratorio. L’87,2 per cento dei neonati gravemente immaturi sono curati dalle strutture pubbliche.
Insomma: nonostante vengano finanziate in modo simile e messe di fatto sullo stesso piano, le strutture pubbliche si fanno carico di operazioni molto più rischiose rispetto ai privati, che invece possono concentrarsi sul massimizzare i propri profitti con operazioni ultra-specialistiche e ben pagate. «Gli erogatori privati possono scegliere quello che fanno e le prestazioni che offrono, non hanno i vincoli del servizio pubblico e quindi possono individuare le prestazioni più remunerative, senza considerare quali sono quelle che hanno un rapporto costi-benefici maggiore e che magari non sono remunerative, come per esempio la prevenzione», ha spiegato a The Submarine Angelo Barbato, ricercatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. Secondo AGENAS questa impostazione consente ai privati di accaparrarsi le prestazioni più remunerative, lasciando al pubblico le prestazioni magari più necessarie ma fonte più di debito che di guadagno.
Negli anni fra l’altro, questo impianto – una forte componente privata e concentrata in una serie di grandi ospedali moderni, spesso identificati come immagine dell’efficienza della sanità lombarda – ha trascurato l’assistenza territoriale, cioè la rete formata dai medici di medicina generale, guardie mediche, ambulatori locali e RSA, che secondo molti esperti avrebbe bisogno oggi del maggiore sviluppo e dei maggiori investimenti.
Le evidenti lacune di questa rete sono state una delle cause della risposta inadeguata alla prima ondata dei contagi: senza un riferimento intermedio tra i medici di base e gli ospedali, moltissime persone malate si sono rivolte al 118 e gli ospedali hanno avuto enormi difficoltà nell’assistenza di migliaia di pazienti.
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Le mancanze e i problemi di impostazione della sanità lombarda sono stati individuati anche da AGENAS, che in un documento pubblicato alla fine del 2020 cercò di spiegare i limiti della sanità in Lombardia tra cui l’assenza di un forte presidio centrale e la dispersione delle responsabilità in capo a 8 aziende di tutela della salute (ATS), la mancanza di un raccordo tra ospedali e medicina territoriale, le difficoltà di gestione delle risorse economiche e del controllo delle prestazioni dovute alla competizione tra gli ospedali pubblici e privati.
AGENAS propose di istituire un’unica ATS, di far tornare alla Regione le funzioni di vigilanza di tutti i privati attraverso strutture di controllo, di istituire dipartimenti di prevenzione e distretti. Insomma, più medicina sul territorio e più controlli.
Il nuovo tentativo di riforma ha accolto solo in parte i suggerimenti.
La sanità territoriale lombarda sarà effettivamente basata sulla rete costituita dai distretti: saranno uno ogni 100mila abitanti e uno ogni 20mila nelle aree montane. I distretti avranno il compito di «valutare il bisogno locale, fare programmazione e realizzare l’integrazione dei professionisti sanitari (medici di medicina generale, pediatri, specialisti ambulatoriali, infermieri e assistenti sociali)». Avranno una sede «facilmente riconoscibile e accessibile dai cittadini» e gestiranno le strutture territoriali: Case della Comunità, Centrali Operative Territoriali e Ospedali di Comunità.
Le Case della Comunità saranno 203: ambulatori aperti 24 ore al giorno, sette giorni su sette, in cui lavorano medici di medicina generale e dove le persone possono andare per un’assistenza medica immediata senza rivolgersi al pronto soccorso. Nelle Case della Comunità verranno seguiti i malati cronici e lavoreranno assistenti sociali per creare un dialogo diretto con i servizi sociali dei comuni. L’obiettivo dichiarato è quello di avere una maggiore collaborazione tra l’assistenza sociale e quella sanitaria.
La riforma prevede anche la costruzione di 60 ospedali di comunità dedicati ai ricoveri brevi e dove verranno eseguiti interventi semplici. Avranno in media 20 posti letto, fino a un massimo di 40. Le Centrali operative territoriali (COT) serviranno a rendere più semplice l’accesso delle persone all’assistenza sanitaria, per esempio attraverso il coordinamento tra i servizi domiciliari e quelli più sanitari, tra gli ospedali e la rete di emergenza-urgenza. In sostanza decideranno come deve essere gestita l’assistenza di un paziente, occupandosi anche di tenere i contatti tra le diverse strutture sanitarie a cui dovrà rivolgersi.
Per finanziare la riforma verranno utilizzati in larga parte i fondi garantiti dal Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (PNRR): saranno investiti 300 milioni per le Case della Comunità, oltre 150 milioni per gli Ospedali di Comunità e 17,8 milioni per le COT. Altri 85 milioni di fondi regionali verranno destinati per il Centro per la prevenzione delle malattie infettive.
Complessivamente, incluse le risorse regionali per il potenziamento della rete di offerta, vengono destinati 1 miliardo e 350 milioni per l’edilizia sanitaria. Man mano che verranno realizzate le nuove strutture, i costi del personale a regime sono stimati in 17,8 milioni nel 2022, 28,7 nel 2023, 29,7 euro nel 2024.
Secondo i consiglieri di opposizione, che hanno presentato oltre 1.900 emendamenti e più di 4 mila ordini del giorno, si tratta di una «non riforma della sanità» perché non sono previste modifiche all’organizzazione territoriale (le 8 ATS sono state confermate) e soprattutto perché viene mantenuto, se non aggravato, lo squilibrio tra pubblico e privato. Anche con la nuova riforma, le strutture private continueranno ad essere completamente slegate dalla programmazione regionale, cioè dalla richiesta dei servizi di assistenza basata su un’analisi della domanda. La discussione di così tanti emendamenti e ordini del giorno ha costretto il presidente del Consiglio regionale, Alessandro Fermi, a convocare i consiglieri per sedute che durano molte ore, dalle 8 a mezzanotte. L’obiettivo della maggioranza è di arrivare all’approvazione definitiva della riforma entro la fine della settimana.
I sindaci di centrosinistra dei capoluoghi lombardi – Milano (Beppe Sala), Bergamo (Giorgio Gori), Brescia (Emilio Del Bono), Varese (Davide Galimberti), Cremona (Gianluca Galimberti) e Lecco (Mauro Gattinoni) – lamentano lo scarso coinvolgimento dei territori. «Non è detto che le strutture identificate corrispondano ai bisogni reali, in base alle esigenze e alla densità della popolazione», ha detto Sala. Mentre secondo Gori «la crisi pandemica ha messo in risalto i limiti di assetto della sanità lombarda: dalle liste d’attesa, al sovraccarico dei pronto soccorso, alla carenza di medici di medicina generale. Rispetto ai limiti la risposta della regione ci sembra cogliere solo parzialmente l’opportunità di cambiamento».
Anche l’ANAAO-ASSOMED Lombardia (Associazione Nazionale Aiuti e Assistenti Ospedalieri), uno dei sindacati dei medici italiani, è molto critico. Il sindacato segnala «scarso coraggio nel cambiare radicalmente un sistema che ha moltissime criticità, presenti da prima della pandemia, l’assenza di un ragionamento di sistema sulla rete ospedaliera, il timore per l’apertura al privato anche sul versante previsto dal PNRR – cioè delle cure territoriali – che ovviamente implica la mancanza di investimenti nella medicina pubblica, la timida correzione dell’eccessiva libertà del privato accreditato e contrattualizzato, nonostante alcuni miglioramenti di dettaglio nel testo, comunque insufficienti per un’immediata traduzione pratica».