Una polizia diversa, in Nuova Zelanda
Da anni il paese promuove campagne per favorire il reclutamento di donne e membri delle minoranze etniche, usando un approccio assai inusuale e apparentemente efficace
Negli ultimi anni, in diversi paesi occidentali i corpi di polizia sono stati assai criticati per i metodi spesso violenti impiegati nel compiere gli arresti o nel gestire manifestazioni. I casi più eclatanti si sono verificati negli Stati Uniti, dove le violenze dei poliziotti, molto spesso uomini bianchi, contro gli afroamericani hanno provocato enormi proteste e l’inizio del movimento Black Lives Matter.
Per certi versi l’immagine di corpo aggressivo e militaresco è un tratto comune di molte polizie occidentali, che fin dalla fase di reclutamento, e poi in quella di addestramento, mostrano un’attitudine più rivolta alla punizione, che alla protezione delle comunità. Molte, inoltre, condividono il fatto di essere poco rappresentative delle comunità che devono proteggere: cioè di includere pochi agenti donne o che appartengono a gruppi minoritari, che spesso sono anche i più vulnerabili.
Un corpo di polizia che negli ultimi anni si è particolarmente impegnato a superare questi problemi, ottenendo risultati soddisfacenti e venendo preso come modello anche all’estero, è quello della Nuova Zelanda.
Da anni il governo neozelandese ha avviato una serie di campagne di reclutamento assai inusuali, incentrate su un’immagine della polizia inclusiva, rappresentativa della composizione di genere ed etnica del paese (quasi il 30 per cento della popolazione è composta da gruppi etnici non europei).
È certamente più facile intraprendere iniziative di questo tipo in un paese come la Nuova Zelanda, che aveva già prima una polizia tra le meno violente al mondo (nella maggior parte dei casi non va nemmeno in giro armata), e che ha livelli di conflitto sociale molto inferiori rispetto a paesi assai più problematici, come appunto gli Stati Uniti. Il caso neozelandese è comunque interessante, perché ha messo al centro del dibattito alcuni concetti che sono alieni ai corpi di polizia di altri paesi, e che anche altrove potrebbero contribuire a ridurre le tensioni e le violenze.
La prima grossa inusuale campagna di reclutamento in Nuova Zelanda fu avviata nel 2017, con l’obiettivo di rendere più rappresentativo il corpo di polizia. Lo slogan era: «Ti importa abbastanza degli altri per diventare un poliziotto?».
Comprendeva diversi video su YouTube che usavano toni molto divertiti, e mostravano diversi agenti di polizia in situazioni a metà tra il professionale e il comico. Gli agenti, molti dei quali donne e appartenenti alle minoranze etniche della Nuova Zelanda, invitavano gli spettatori a fare domanda per unirsi alla polizia.
Il video che ebbe più successo mostrava un gruppo di agenti guidato da una poliziotta appartenente a un gruppo etnico minoritario, impegnato nella ricerca di un criminale. Nel video succedevano una serie di cose buffe e divertenti. Per esempio nel mezzo di un’operazione di polizia il gruppo di agenti era disturbato da una piccola orchestra di persone in kilt che suonavano la cornamusa; in un’altra scena, creata con una buona dose di suspense, si scopriva alla fine che un pericoloso criminale ricercato dalla polizia era in realtà un cagnolino che era scappato con una borsa tra i denti.
L’obiettivo di questo e di altri video era di mettere al centro i poliziotti e le poliziotte come figure in grado di proteggere la comunità, e allo stesso tempo di ridimensionare l’immagine del criminale.
In un altro video, che aveva toni più seri e meno scherzosi, la polizia faceva un esperimento: faceva recitare a un giovane attore la parte di un ragazzino affamato che andava a cercare cibo nella spazzatura, riprendendo le reazioni delle persone (in alcuni casi recitate dallo staff, in altri spontanee).
Il video mostrava come la maggior parte dei passanti ignorasse il ragazzino, e poi inquadrava le poche persone che si erano fermate e avevano offerto aiuto. Erano loro, suggeriva il video, le persone ideali per entrare nella polizia.
La campagna del 2017 ottenne ottimi risultati rispetto agli obiettivi che si era data: portò a un notevole aumento di domande per entrare nella polizia da parte di donne (35 per cento in più), persone maori (45 per cento in più), persone dell’area Asia Pacifico (80 per cento in più), vincendo per questo anche un premio da parte dell’Institute of Public Administration della Nuova Zelanda, un’organizzazione che si occupa di migliorare l’amministrazione pubblica del paese.
Un’altra iniziativa fu una campagna di comunicazione del 2019, rivolta alle persone più giovani, in cui alcuni poliziotti che avevano tatuaggi ne raccontavano il significato al pubblico, parlando di sé e della propria storia.
L’idea alla base era proporre un’immagine il più possibile diversificata delle persone che compongono il corpo di polizia, senza rappresentarlo come un corpo unico, cameratesco e compatto, sempre uguale a se stesso. Un concetto simile fu alla base di un’altra campagna di comunicazione, chiamata «Beyond the blue», in cui i poliziotti raccontavano le proprie passioni individuali e come erano arrivati a scoprirle.
Oggi sul sito ufficiale della polizia neozelandese c’è anche una sezione apposita dedicata ai rapporti tra la polizia e le persone della minoranza maori, che vengono incoraggiate a fare domanda per il reclutamento. Ci sono diverse sezioni dedicate alle donne, alla loro storia nel corpo di polizia, e nella sezione delle qualità richieste per diventare agenti si dice che «anche il senso dell’umorismo ha una sua importanza».
Brian Klaas, politologo alla University College di Londra e autore di uno studio su questo tema, ha riflettuto su come le campagne di reclutamento della polizia neozelandese possano servire a contrastare il cosiddetto «self-selection bias» all’interno della polizia: cioè la tendenza dei corpi di polizia a selezionare e attrarre soprattutto un certo tipo di profili, normalmente aggressivi e autoritari.
Klaas ha parlato del «self-selection bias» della polizia riferendosi soprattutto a quella degli Stati Uniti e agli sforzi, in parte vani, che sta facendo per riformarsi e diventare meno violenta e più inclusiva. Ma ha citato anche il Regno Unito, e il discorso vale anche per l’Italia.
Il cosiddetto «self-selection bias» è un problema che la stessa polizia neozelandese aveva in mente, quando ha ideato la campagna: la funzionaria della polizia neozelandese Kaye Ryan ha detto che l’obiettivo principale era proprio attrarre nella polizia persone completamente diverse da quelle che di solito facevano domanda per entrarci.
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