Questa elefantessa deve avere i diritti di una persona?
Lo deciderà la Corte di Appello dello stato di New York, con possibili conseguenze per molti altri animali in cattività
Nello zoo del Bronx, a New York, un’elefantessa asiatica di circa 50 anni vive da sola in un’area recintata di 4mila metri quadrati. Si chiama Happy ed è una delle tre elefantesse che nel 2005 dimostrarono per la prima volta che gli elefanti sono in grado di riconoscere la propria immagine in uno specchio: solo i primati e i delfini riescono a fare altrettanto.
L’anno prossimo, forse già a gennaio, questa capacità potrebbe avere un ruolo in un processo. La Corte di Appello dello stato di New York dovrà infatti stabilire se Happy sia una “persona”, cioè un individuo con diritti morali e legali di fronte alla legge americana, con potenziali grosse conseguenze per molti altri animali in cattività.
Il caso di Happy è stato portato in tribunale dal Nonhuman Rights Project (NhRP), un’organizzazione non profit che da anni cerca di ottenere la modifica dello status legale di alcuni animali, in modo che non siano considerati proprietà. Le leggi degli Stati Uniti – così come quelle della maggior parte dei paesi del mondo – distinguono sostanzialmente tra due entità giuridiche, “persone” e “cose”, senza la possibilità di avere definizioni intermedie: sono persone in senso giuridico gli esseri umani, ma anche le società. Le persone hanno dei diritti, compreso quello dell’habeas corpus, che tutela dall’essere reclusi senza una giusta motivazione legale, mentre le cose no.
Il NhRP vorrebbe che a Happy fosse riconosciuto questo diritto e che potesse lasciare lo zoo del Bronx, per poi essere portata in un rifugio per animali selvatici in cui vivere in spazi più ampi e, soprattutto, insieme ad altri elefanti.
L’organizzazione aveva già provato a ottenere la stessa cosa in passato per altri animali non umani – ad esempio, tra il 2013 e il 2018, per gli scimpanzé Kiko e Tommy – ma finora non ha mai avuto successo. Non è detto che ci riuscirà con Happy, ma il suo caso ha sicuramente ottenuto una grande attenzione negli Stati Uniti, tanto che circa 1,5 milioni di persone hanno firmato una petizione per la sua liberazione.
La storica Jill Lepore ha invece ricostruito tutta la storia di Happy (e degli elefanti negli Stati Uniti in generale) in un lungo articolo pubblicato dall’Atlantic che fa capire bene come il caso dell’elefantessa sia molto più complesso di quanto potrebbe apparire.
Non si conosce la data di nascita di Happy, ma si sa che quando fu catturata in Thailandia, all’inizio degli anni Settanta, aveva probabilmente meno di un anno. È anche probabile che abbia assistito allo sterminio della sua famiglia: in natura le elefantesse vivono in branchi con una struttura matriarcale, i cuccioli vivono a lungo con le madri e le zie e, se sono femmine, continuano a farlo anche da adulte. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta i cuccioli di elefante erano molto richiesti negli zoo e nei circhi americani, e la loro cattura spesso comportava l’uccisione delle loro famiglie.
Quel che è certo è che Happy arrivò negli Stati Uniti insieme ad altri sei cuccioli di elefante, a cui furono dati i nomi dei sette nani della fiaba di Biancaneve – “Happy” corrisponde all’italiano “Gongolo”.
Inizialmente Happy fu portata in uno zoo-safari in Florida. Nel 1974, quando doveva avere all’incirca quattro anni, fu separata dalla maggior parte dei suoi compagni: insieme a Grumpy (“Brontolo”), l’elefantessa con cui aveva un legame più forte, fu portata in un altro zoo, in Texas. Poi tre anni dopo nel Bronx, sempre insieme alla sua compagna: lì, per anni, Happy, Grumpy e un’elefantessa più vecchia di nome Tus furono cavalcate dai bambini newyorkesi e impegnate in spettacoli in cui dovevano eseguire dei comandi indossando vestiti a pois.
Nel 1985, dopo anni di proteste degli attivisti animalisti per le condizioni di vita di molti animali negli zoo, le esibizioni con i comandi finirono e le tre elefantesse furono spostate in un’area più grande dello zoo. Fu anche deciso che avrebbero avuto contatti ridotti con le persone, pur avendo vissuto fino a quel punto a stretto contatto con i visitatori. Seguendo lo stesso nuovo orientamento sulla cattività degli elefanti, lo zoo decise inoltre di non acquisirne di nuovi da far vivere insieme a quelli che aveva già.
Nel 2002 Tus, che probabilmente svolgeva un ruolo simile a quello di una madre per Happy e Grumpy, morì. Due mesi dopo altre due elefantesse dello zoo, Patty e Maxine, attaccarono Grumpy, che dovette essere sottoposta a eutanasia a causa delle ferite subite. Da allora Happy ha vissuto da sola perché non sta bene insieme a Patty (anche Maxine è morta nel frattempo). Inoltre mostra segni di ansia ogni volta che deve essere spostata all’interno dello zoo.
Secondo i gestori dello zoo del Bronx la cosa migliore per il suo benessere è che continui a restare isolata: è vero che gli elefanti in natura vivono in branco, ma Happy ha una sua personalità e una sua storia a causa delle quali la situazione attuale è la migliore possibile. Chi vuole la sua liberazione non la conosce abbastanza per poter dire lo stesso, sostiene lo zoo.
Il NhRP la pensa diversamente e ha creato l’efficace slogan «Happy is not happy», «Happy non è felice», una delle ragioni per cui la campagna in favore del caso dell’elefantessa ha avuto particolare successo. Per Steven Wise, capo dell’organizzazione, l’ansia mostrata da Happy dipende dal fatto che lo zoo in cui si trova non si è dimostrato capace di ospitarla in condizioni di benessere.
In passato elefanti che avevano avuto vite complicate si sono trovati bene nei rifugi come quelli in cui il NhRP vorrebbe che fosse portata Happy. È ad esempio il caso di Sissy, un’elefantessa più o meno coetanea di Happy: nella sua vita è stata esibita in quattro zoo diversi, ha passato 10 anni da sola e durante un periodo di isolamento ha ucciso una delle persone addette a occuparsi di lei. Per questo ha subito gravi maltrattamenti, a causa dei quali la sua proboscide è rimasta parzialmente paralizzata. Nel 2000 ci si aspettava che sarebbe morta a breve, ma una volta condotta in un rifugio per elefanti nel Tennessee si è ripresa: in poco tempo si è legata con un’altra elefantessa, si è calmata, ha smesso di essere aggressiva e oggi continua a vivere nel rifugio, in uno spazio che è circa 3mila volte quello in cui vive Happy.
Joshua Plotnik, l’etologo cognitivo che nel 2005 aveva osservato le reazioni di Happy davanti a uno specchio, sta invece dalla parte dello zoo del Bronx: ritiene che anni fa l’elefantessa si sarebbe effettivamente trovata bene tornando a vivere insieme ad altri elefanti ma che oggi, dopo cinquant’anni in cattività, molti dei quali trascorsi in isolamento, non è detto che gradirebbe la vicinanza dei suoi simili.
Lo zoo da una parte e il NhRP dall’altra hanno un diverso approccio sul caso di Happy. Se il primo considera la sua personalità, il secondo vuole difendere il suo status di “persona”: entrambi dicono di avere a cuore il benessere dell’elefantessa, ma il loro modo diverso di considerarla una “persona” li porta a conclusioni opposte.
Alla fine però a decidere sarà la Corte d’Appello di New York. Nel 2018 lo stesso tribunale aveva negato lo status di “persona” agli scimpanzé difesi dal NhRP, ma un giudice, Eugene M. Fahey, aveva osservato che «la questione se un animale non umano abbia diritto alla libertà stabilita dall’habeas corpus è profonda e potrebbe avere importanti conseguenze; riguarda la nostra relazione con la vita attorno a noi e un giorno non potremo più ignorarla».
Nello stesso anno un caso simile riguardante un cavallo era stato portato davanti a un tribunale in Oregon. In quell’occasione il giurista Richard Cupp, un oppositore dello status di “persona” per gli animali, aveva detto: «Un caso che potrebbe portare miliardi di altri animali in tribunale sarebbe un disastro. Una volta che ammetti che un cavallo, un cane o un gatto possono sporgere denuncia per aver subito degli abusi, si arriva in un attimo alla considerazione che una “persona” non può essere mangiata».