C’è poca “carità interpretativa”, sui social
L’assenza nelle discussioni online di un principio consolidato negli studi filosofici è considerata una delle ragioni dell’impoverimento del dibattito
Scott Alexander è lo pseudonimo di uno psichiatra californiano molto seguito e apprezzato da un influente gruppo di scienziati, filosofi, economisti e manager della San Francisco Bay Area, anche noto come la comunità dei Razionalisti. La sua popolarità è legata al blog che cura da anni, Slate Star Codex, successivamente convertito nella newsletter su Substack Astral Codex Ten, che si occupa di scienze, medicina, filosofia e politica e ospita frequenti discussioni complici, interessanti e civili tra i commentatori.
Il primo post di quel blog diceva: «Questo blog non ha un argomento, ma ha un ethos. Quell’ethos potrebbe essere riassunto come: la carità al di sopra dell’assurdità», ed è un’intenzione da cui dipende buona parte del successo di Alexander nel coltivare una sezione dei commenti in cui le discussioni seguono approcci e dinamiche totalmente diverse da quelle a cui è abituato chi frequenta i social network, con risultati molto più soddisfacenti in termini di qualità e serenità del confronto.
Alexander definì infatti «l’assurdità» come la naturale tendenza umana a respingere tutto ciò su cui non ci si trova d’accordo come qualcosa di talmente stupido da non meritare nemmeno di essere preso in considerazione. Una tendenza talmente diffusa che non considerare come legittimi interlocutori le persone che sostengono idee “assurde” è spesso considerato un comportamento virtuoso.
La carità, al contrario, sarebbe in questo contesto la capacità di superare quel tipo di risposta alle idee assurde e presumere che «se non capisci come qualcuno possa credere a qualcosa di così stupido, è più probabile che questo sia un fallimento di comprensione da parte tua che un fallimento della ragione da parte loro». Questo non significa non poter essere mai sicuri di avere ragione o torto su qualcosa, chiarì Alexander, ma che è importante comprendere le ragioni per cui una convinzione risulta attraente per qualcuno, prima di decidere se accoglierla o rifiutarla.
Il principio di “carità interpretativa” è a volte descritto come uno degli aspetti più carenti nell’attuale dibattito pubblico e in particolare nelle discussioni sui social network, spesso caratterizzate da una profonda polarizzazione delle idee e da conflittualità e aggressività, in un contesto in cui i tentativi di comprendere le ragioni di chi la pensa diversamente sono rari e per lo più malvisti.
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La formulazione del principio di carità interpretativa è storicamente attribuito al filosofo statunitense Donald Davidson, tra i maggiori esponenti della filosofia analitica, sorta in Europa all’inizio del Novecento per effetto del lavoro di autori come Gottlob Frege, Bertrand Russell e Ludwig Wittgenstein, e successivamente estesa a una tradizione filosofica molto influenzata da quegli autori e prevalente negli Stati Uniti e in altri paesi di lingua inglese.
Davidson, nato nel 1917 in Massachusetts e studente a Harvard tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta, insegnò in alcune delle più prestigiose università americane, tra cui Stanford, Princeton e Rockefeller, e infine all’Università della California, Berkeley, fino alla morte nel 2003. Fu allievo del filosofo e logico statunitense Willard Van Orman Quine, che durante i suoi viaggi di studio in Europa aveva conosciuto a sua volta esponenti della filosofia analitica e del Circolo di Vienna come il filosofo tedesco Rudolf Carnap e il logico polacco Alfred Tarski.
Proprio a partire dalle riflessioni di Quine, Davidson definì il principio di carità, riprendendo e collocando nel campo dell’interpretazione in senso lato un concetto che Quine aveva sviluppato nell’ambito della traduzione. Come Quine afferma nel libro del 1960 Parola e oggetto, a proposito dell’attività della traduzione linguistica, «le asserzioni che appaiono inizialmente false dipendono con ogni probabilità da differenze di linguaggio nascoste» piuttosto che dall’ignoranza dell’interlocutore.
Quine contestava l’idea che i significati degli enunciati siano entità astratte, comuni a tutte le lingue, e che quindi il compito del traduttore fosse essenzialmente quello di scoprire quali entità comuni si “nascondessero” dietro enunciati di lingue diverse. In un esperimento mentale noto come l’esperimento della “traduzione radicale”, fece l’esempio di un linguista che debba tradurre una lingua a lui completamente sconosciuta: la sua traduzione, osservò Quine, sarebbe inevitabilmente condizionata e guidata dalle sue presupposizioni logico-linguistiche e dai suoi schemi concettuali, e alla fine ne uscirebbe un dizionario diverso da quello della lingua che intendeva tradurre.
L’idea di Quine, in seguito ripresa da Davidson, è che i significati delle parole siano comportamenti da interpretare, non entità. E che la traduzione preferibile sia sempre il risultato di un’interpretazione che attribuisca al parlante della lingua da tradurre un insieme di credenze – e di comportamenti e atteggiamenti associati a quelle credenze – il meno possibile dissimile da quella dell’interprete. «L’insipienza del nostro interlocutore, oltre un certo limite, è meno probabile della cattiva traduzione», scrisse Quine.
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Secondo Davidson, dal momento che non si dispone di «nessuna chiave interpretativa maestra» in anticipo rispetto a una particolare interazione comunicativa, il principio di carità è il presupposto dell’interpretazione e della comprensione stessa. È un atto necessario da parte dell’interprete, che attribuisce un valore di razionalità e verità alle asserzioni del suo interlocutore (o a un testo) e ammette l’esistenza di un insieme di credenze condivise. Ed è un atto che risponde al bisogno di individuare il significato migliore possibile rispetto a quello che l’interlocutore intende, prima di essere in grado di assegnare valore ai contenuti dell’interazione e giudicare la coerenza del sistema di credenze.
Per Davidson, in altre parole, è essenziale assumere il punto di vista dell’interprete, ossia il presupposto che le persone siano in generale razionali e abbiano pensieri concatenati in modo coerente, presupposto senza il quale sarebbe difficile dare senso a ciò che cerchiamo di interpretare.
Approfondendo il concetto di carità in senso interpretativo nel primo post sul suo blog, Alexander citò una metafora proposta dal giornalista e scrittore britannico Gilbert Keith Chesterton, nel suo libro del 1929 Perché sono cattolico, e che suona come una formulazione alternativa del principio di carità. Un viaggiatore si imbatte in una recinzione che si trova in mezzo al nulla: non riesce a immaginare alcun motivo per cui abbia senso che una staccionata si trovi in quel punto, e pensa che sia stato stupido costruirne una. Decide quindi di buttarla giù, e appena lo fa viene incornato da un toro che si trovava oltre quella recinzione.
La morale della storia, per Chesterton, è: non rimuovere una recinzione finché non ti è chiaro perché sia stata costruita.
«Il recinto non è cresciuto lì da solo. Non è stato eretto da sonnambuli che l’hanno costruito nel sonno. È altamente improbabile che sia stato messo lì da scappati di casa che vagavano per strada. Qualcuno avrà avuto un qualche motivo di pensare che quel recinto fosse una buona cosa. E finché non sappiamo quale sia il motivo, non possiamo veramente giudicare se fosse ragionevole. È estremamente probabile che abbiamo completamente trascurato un qualche aspetto della faccenda, se qualcosa creato da esseri umani come noi sembra essere misterioso e del tutto privo di significato.
Non riuscire a immaginare un motivo per cui esista una recinzione in un determinato punto, scrive Alexander riflettendo sulla metafora di Chesterton, è il peggior motivo per rimuovere quella recinzione. Niente impedisce al viaggiatore di buttarla giù, ma è bene che questo avvenga eventualmente soltanto una volta che il viaggiatore sia consapevole del fatto che, per esempio, quell’area fosse in passato destinata all’allevamento del bestiame e che ora non lo è più.
Secondo Alexander, nelle discussioni vale il discorso della staccionata, e tanto più nelle discussioni su Internet, generalmente alimentate da una scarsa predisposizione a considerare le opinioni degli altri secondo un principio di carità. «Se non hai idea di come una persona possa credere a qualcosa, e quindi decidi che quella persona è stupida, sei molto simile al viaggiatore di Chesterton che rimuove la recinzione (e i filosofi, come i viaggiatori, sono ad alto rischio di imbattersi in un toro)».
La carità nell’interpretazione è vantaggiosa anche quando non è richiesta, prosegue, perché il modo più efficace per imparare qualcosa è «capire esattamente perché una posizione sbagliata è sbagliata», anche all’interno di sistemi di credenze che ci appaiono assurdi. E questo è possibile soltanto a patto di ricostruire una posizione stupida puntando a formularne una intelligente che vi si avvicini il più possibile , e poi vedere cosa è possibile impararne.
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Un’idea simile a questa fu espressa anche dal filosofo inglese Julian Baggini, cofondatore della rivista di divulgazione filosofica The Philosophers’ Magazine, in un articolo pubblicato sul Guardian nel 2012. «Per carità intendo lo sforzo di cercare di comprendere le opinioni e gli argomenti di coloro con cui non siamo d’accordo nella forma più empatica per noi possibile, mostrandoci critici nei confronti delle loro versioni più solide, non nei confronti di quelle più fragili o delle loro rappresentazioni caricaturali», scrisse Baggini. Suggerì inoltre un approccio che partisse dal presupposto che «siamo tutti limitati nella nostra comprensione e che, non importa quanto siamo sicuri, potremmo sbagliarci».
Da tempo questo approccio al dibattito e al confronto è incentivato da alcuni studiosi e opinionisti in un contesto, quello delle discussioni online e di quelle offline che ne riprendono i toni e le dinamiche, in cui è notoriamente prevalente l’espressione perentoria e aggressiva dei propri argomenti, e il categorico e sprezzante rifiuto di quelli altrui.
L’idea di considerare le posizioni percepite come “opposte” alle proprie confutandone le esposizioni più sensate e razionali è assai minoritaria, rispetto alla possibilità di attaccare quelle più evidentemente scalcinate, contraddittorie e male argomentate. Soprattutto quando questo genere di confronti avviene su piattaforme, come Twitter, Instagram o Facebook, i cui meccanismi tecnici ed economici sono strettamente legati a dinamiche di engagement che beneficiano dall’opposizione di tifoserie in aperta e inconciliabile ostilità reciproca.
La “carità interpretativa”, in questo senso, è auspicata anche in una sfumatura diversa, non solo come metodo per favorire il dialogo tra posizioni molto diverse ma anche per ripristinare quello tra persone che condividono a conti fatti valori, principi e speranze, pur divergendo per esempio su questioni più puntuali. Persone a cui, sui social network, può facilmente capitare di ritrovarsi in quelle che vengono percepite come fazioni avverse, proprio per l’assenza della “carità interpretativa” nelle discussioni che le coinvolgono. La sua applicazione, per esempio, è evocata talvolta in quei casi in cui una formulazione per qualche motivo ambigua espressa da qualcuno viene interpretata attribuendole i significati e le intenzioni peggiori possibili, più o meno consapevolmente. Episodi frequenti e che portano a grandi e talvolta violente discussioni anche in casi in cui, in realtà, si tratta a ben vedere di banali fraintendimenti.
Leggere attraverso il principio di carità e quindi prendere sul serio le posizioni apparentemente più lontane dal senso comune e incomprensibili, cercando di spiegarle e collegarle a un sistema più ampio di credenze, è un tratto caratteristico dello stile di Alexander. Questo approccio metodologico, come notato in un articolo pubblicato dal New Yorker a luglio 2020, è ciò che rende le sue analisi a volte prolisse e «bizzarre» ma allo stesso tempo piene di argomenti spesso controintuitivi ed efficaci. Ed è lo stesso che in alcune occasioni, peraltro, ha portato Alexander ad analisi su questioni delicate e controverse che hanno ricevuto estese critiche online, rimaste però generalmente nell’ambito del disaccordo civile.
Questo metodo, peraltro, lo ha portato a volte a riconoscere come sbagliate sue posizioni precedenti e ha contribuito, scrive il New Yorker, «a far capire, tra le persone a cui piace avere ragione su tutto, che la cortese accettazione del proprio errore – la failure mode [una metodologia utilizzata per analizzare le modalità di guasto o di difetto di un processo, un prodotto o un sistema] – dovrebbe essere considerata una mossa di alto livello piuttosto che qualcosa da stigmatizzare».