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  • Mercoledì 17 novembre 2021

Cerchiamo di capirci

Su quello di cui parliamo quando parliamo di «questioni di genere»: nell'introduzione al nuovo numero di Cose spiegate bene, che è in libreria da oggi

Un'illustrazione di Sarah Mazzetti per il nuovo numero di "Cose spiegate bene"
Un'illustrazione di Sarah Mazzetti per il nuovo numero di "Cose spiegate bene"

Il secondo numero di Cose spiegate bene, la rivista del Post dedicata a singoli temi da raccontare o appunto da spiegare, è in libreria da mercoledì 17 novembre. Si intitola Questioni di un certo genere e si occupa di genere e identità di genere, cercando di spiegare, raccontare e rendere comprensibili questi temi a tutte e tutti.

Cose si può ordinare sul sito del Post (con spedizione gratuita per le persone abbonate), ma si trova anche nelle librerie online di Bookdealer, IBS, Feltrinelli, Amazon: o potete chiederlo alle vostre librerie, preziose complici del successo del primo numero, e dove speriamo anche di vederci nelle presentazioni dei prossimi mesi. Questo è l’editoriale che apre il nuovo numero di Cose, scritto dal peraltro direttore del Post Luca Sofri.

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Il secondo numero di Cose parla di argomenti molto diversi da quelli spiegati nel primo (erano i Libri, vi ricordate?): ma c’è anche un’idea comune, nella scelta, e che cercheremo di applicare spesso. Ovvero che ci siano temi con cui abbiamo relazioni frequenti, di cui ci occupiamo, di cui parliamo, che sono importanti per le nostre società e culture, e che al tempo stesso vengono poco spiegati e raccontati nel loro contesto, nei «fondamentali», nella loro natura e significato. Nel caso delle «questioni di genere», e del più esteso dibattito sui diritti e sulle discriminazioni di questi anni, il dibattito stesso ha avuto – come sappiamo – una straordinaria accelerazione, senza dare il tempo a molti e molte di noi di aggiornare una conoscenza delle cose e a volte persino un intero «bagaglio culturale» su quei temi: col risultato che una discussione già importantissima e delicata come quella dell’identità e della libertà delle persone è diventata spesso affannata, superficiale o spiazzante proprio per una limitata condivisione delle sue basi o dei suoi stessi linguaggi. Questo numero di Cose è un tentativo di contributo – parzialissimo, inevitabilmente – per capirsi su «di cosa stiamo parlando». E naturalmente, per ottenere che un dibattito più consapevole porti a sempre meno discriminazioni e incomprensioni, per tutti: tra le vittime dell’ignoranza ci sono anche gli ignoranti.

Al Post discutiamo di questi temi da molti anni, con progressi continui e mai esauriti di comprensione delle cose. Per via di quello che facciamo – scrivere, in gran parte – sono gli aspetti legati al linguaggio quelli che hanno più occasioni di confronto e riflessione, nell’ambito delle «questioni di genere». Tra le tante spiegazioni che cercano di superare una superficiale e incompleta conoscenza di cosa sia il rapporto delle persone col proprio genere, questo numero di Cose ospita anche una più approfondita argomentazione di Vera Gheno sul linguaggio: ma le premetto qui una considerazione che descrive la ricerca di equilibrio in cui al Post ci mettiamo quotidianamente. Credo che ci siano due modi di usare il linguaggio e scegliere le parole, se si vuole – ognuno nel suo piccolo – «migliorare il mondo». Uno è quello di intervenire sulla lingua e sui termini che possono essere offensivi o discriminatori, malgrado il loro consolidato uso diffuso, e forzarne l’eliminazione e la sostituzione con formule meno familiari ma più rispettose. Grazie ad approcci di questo genere da parte soprattutto di chi crea modelli di uso della lingua – i media per primi, ma anche la politica, la scuola e le istituzioni pubbliche – soltanto nell’ultimo decennio quelle che dapprima a molti sembravano forzature incomprensibili o eccessive sono già diventate del tutto comuni e accettate, quando non condivise. Riuscendo a «migliorare» la lingua dal punto di vista del suo rispetto per tutti. È un cambiamento «dall’alto» e promosso da una minoranza, che crea attriti iniziali, ma spesso funziona pur esasperando a volte quegli attriti. Le giustissime e preziosissime scelte del «politicamente corretto» negli scorsi decenni hanno eliminato grazie al cielo dal linguaggio termini e modi di definire gli altri che oggi consideriamo inaccettabili: ma hanno evidentemente anche dato armi e argomenti alle peggiori demagogie reazionarie – quelle che chiamano «buonismo» la bontà, che si dicono vittime di persecuzioni, che «non si può più dire niente», eccetera – permettendo loro di sobillare e compattare ignoranze identitarie e di accentuare divisioni.

Un secondo modo di usare il linguaggio per migliorare le cose è sfruttare al meglio la sua efficacia naturale, quella di comunicare, di farsi capire e di capire: ovvero avere questa priorità per spiegarsi e per spiegare le cose, usando i termini più condivisi e compresi, limitando le forzature e giungendo a un cambiamento linguistico attraverso un cambiamento culturale piuttosto che viceversa: estendendo il più possibile l’uditorio e ottenendone fiducia e attenzione, a costo di rallentare l’esclusione dal vocabolario di formulazioni costruite in secoli di società maschiliste, omofobe, razziste.

Entrambi questi approcci hanno efficacie e controindicazioni: discendono dalla più generale necessità, tra gli umani, di far convivere educazione e repressione, ma ricorrendo alla repressione solo quando abbia fallito l’educazione. Cose cerca ancora di lavorare su quest’ultima, che ha un enorme potenziale: e cerca di spiegare bene le tante questioni che troverete in questo numero. Nel farlo, sta attenta alle parole, con scelte riflettute, con rimozioni accorte, persino con qualche forzatura quando è giusta. L’argomento di questo secondo numero è già l’argomento degli argomenti: il rispetto e la comprensione per quello che le persone vogliono essere, per quello che vogliamo essere. Ci è sembrato importante provarci.