Cerchiamo di capirci
Su quello di cui parliamo quando parliamo di «questioni di genere»: nell'introduzione al nuovo numero di Cose spiegate bene, che è in libreria da oggi
Il secondo numero di Cose spiegate bene, la rivista del Post dedicata a singoli temi da raccontare o appunto da spiegare, è in libreria da mercoledì 17 novembre. Si intitola Questioni di un certo genere e si occupa di genere e identità di genere, cercando di spiegare, raccontare e rendere comprensibili questi temi a tutte e tutti.
Cose si può ordinare sul sito del Post (con spedizione gratuita per le persone abbonate), ma si trova anche nelle librerie online di Bookdealer, IBS, Feltrinelli, Amazon: o potete chiederlo alle vostre librerie, preziose complici del successo del primo numero, e dove speriamo anche di vederci nelle presentazioni dei prossimi mesi. Questo è l’editoriale che apre il nuovo numero di Cose, scritto dal peraltro direttore del Post Luca Sofri.
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Il secondo numero di Cose parla di argomenti molto diversi da quelli spiegati nel primo (erano i Libri, vi ricordate?): ma c’è anche un’idea comune, nella scelta, e che cercheremo di applicare spesso. Ovvero che ci siano temi con cui abbiamo relazioni frequenti, di cui ci occupiamo, di cui parliamo, che sono importanti per le nostre società e culture, e che al tempo stesso vengono poco spiegati e raccontati nel loro contesto, nei «fondamentali», nella loro natura e significato. Nel caso delle «questioni di genere», e del più esteso dibattito sui diritti e sulle discriminazioni di questi anni, il dibattito stesso ha avuto – come sappiamo – una straordinaria accelerazione, senza dare il tempo a molti e molte di noi di aggiornare una conoscenza delle cose e a volte persino un intero «bagaglio culturale» su quei temi: col risultato che una discussione già importantissima e delicata come quella dell’identità e della libertà delle persone è diventata spesso affannata, superficiale o spiazzante proprio per una limitata condivisione delle sue basi o dei suoi stessi linguaggi. Questo numero di Cose è un tentativo di contributo – parzialissimo, inevitabilmente – per capirsi su «di cosa stiamo parlando». E naturalmente, per ottenere che un dibattito più consapevole porti a sempre meno discriminazioni e incomprensioni, per tutti: tra le vittime dell’ignoranza ci sono anche gli ignoranti.
Al Post discutiamo di questi temi da molti anni, con progressi continui e mai esauriti di comprensione delle cose. Per via di quello che facciamo – scrivere, in gran parte – sono gli aspetti legati al linguaggio quelli che hanno più occasioni di confronto e riflessione, nell’ambito delle «questioni di genere». Tra le tante spiegazioni che cercano di superare una superficiale e incompleta conoscenza di cosa sia il rapporto delle persone col proprio genere, questo numero di Cose ospita anche una più approfondita argomentazione di Vera Gheno sul linguaggio: ma le premetto qui una considerazione che descrive la ricerca di equilibrio in cui al Post ci mettiamo quotidianamente. Credo che ci siano due modi di usare il linguaggio e scegliere le parole, se si vuole – ognuno nel suo piccolo – «migliorare il mondo». Uno è quello di intervenire sulla lingua e sui termini che possono essere offensivi o discriminatori, malgrado il loro consolidato uso diffuso, e forzarne l’eliminazione e la sostituzione con formule meno familiari ma più rispettose. Grazie ad approcci di questo genere da parte soprattutto di chi crea modelli di uso della lingua – i media per primi, ma anche la politica, la scuola e le istituzioni pubbliche – soltanto nell’ultimo decennio quelle che dapprima a molti sembravano forzature incomprensibili o eccessive sono già diventate del tutto comuni e accettate, quando non condivise. Riuscendo a «migliorare» la lingua dal punto di vista del suo rispetto per tutti. È un cambiamento «dall’alto» e promosso da una minoranza, che crea attriti iniziali, ma spesso funziona pur esasperando a volte quegli attriti. Le giustissime e preziosissime scelte del «politicamente corretto» negli scorsi decenni hanno eliminato grazie al cielo dal linguaggio termini e modi di definire gli altri che oggi consideriamo inaccettabili: ma hanno evidentemente anche dato armi e argomenti alle peggiori demagogie reazionarie – quelle che chiamano «buonismo» la bontà, che si dicono vittime di persecuzioni, che «non si può più dire niente», eccetera – permettendo loro di sobillare e compattare ignoranze identitarie e di accentuare divisioni.
Un secondo modo di usare il linguaggio per migliorare le cose è sfruttare al meglio la sua efficacia naturale, quella di comunicare, di farsi capire e di capire: ovvero avere questa priorità per spiegarsi e per spiegare le cose, usando i termini più condivisi e compresi, limitando le forzature e giungendo a un cambiamento linguistico attraverso un cambiamento culturale piuttosto che viceversa: estendendo il più possibile l’uditorio e ottenendone fiducia e attenzione, a costo di rallentare l’esclusione dal vocabolario di formulazioni costruite in secoli di società maschiliste, omofobe, razziste.
Entrambi questi approcci hanno efficacie e controindicazioni: discendono dalla più generale necessità, tra gli umani, di far convivere educazione e repressione, ma ricorrendo alla repressione solo quando abbia fallito l’educazione. Cose cerca ancora di lavorare su quest’ultima, che ha un enorme potenziale: e cerca di spiegare bene le tante questioni che troverete in questo numero. Nel farlo, sta attenta alle parole, con scelte riflettute, con rimozioni accorte, persino con qualche forzatura quando è giusta. L’argomento di questo secondo numero è già l’argomento degli argomenti: il rispetto e la comprensione per quello che le persone vogliono essere, per quello che vogliamo essere. Ci è sembrato importante provarci.