In Bosnia tira una brutta aria
Il presidente che rappresenta l'etnia serba parla esplicitamente di ritirarsi dalle istituzioni federali: secondo alcuni è la crisi più grave dalla fine della guerra
di Luca Misculin
Da alcune settimane la Bosnia ed Erzegovina sta attraversando una crisi politica che alcuni hanno definito come la più grave dalla fine della guerra civile, che si concluse nel 1995. Le ragioni, come spesso accade nei paesi della penisola balcanica, sono di natura etnica: a fine luglio Milorad Dodik, uno dei tre presidenti della Bosnia, quello che rappresenta l’etnia serba, ha avviato un boicottaggio delle istituzioni politiche federali e nelle settimane successive ha minacciato di ritirare i rappresentanti dell’entità regionale serba da altre istituzioni federali come l’esercito, i tribunali e gli apparati amministrativi.
Decisioni del genere metterebbero fine al fragilissimo equilibrio politico e istituzionale su cui si regge la Bosnia, aumentando il rischio di una nuova guerra civile fra le varie etnie. «In nessun periodo dopo la fine della guerra, probabilmente, si è parlato così tanto della possibilità di nuovi combattimenti», ha scritto Foreign Policy.
La Bosnia è divisa nella Federazione della Bosnia ed Erzegovina (abitata in prevalenza da bosniaci musulmani e croati) e nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, abitata in prevalenza da serbi. Le due entità – più una terza, più piccola e sottoposta al controllo internazionale – sono il risultato degli accordi di pace di Dayton del 1995. Per prevenire nuove violenze si architettò un complesso sistema istituzionale per cercare di garantire autonomia a ciascun gruppo etnico, senza però permettere a nessuno dei tre di prevalere.
La Repubblica Serba è tradizionalmente la più aggressiva fra le entità bosniache, ed è protagonista di continue tensioni per via del nazionalismo dei suoi abitanti e leader politici. Secondo diversi osservatori, anche la crisi di questi giorni nasce dalla spregiudicatezza e aggressività di Dodik.
Tutto è iniziato alla fine di luglio con un intervento piuttosto inconsueto dell’Alto rappresentante per la Bosnia: una figura nominata da alcuni governi stranieri e prevista dagli accordi di Dayton che detiene alcuni speciali poteri esecutivi, come la rimozione di funzionari e politici e la promulgazione di leggi.
L’Alto rappresentante allora in carica, Valentin Inzko, decise di emanare una legge per vietare di negare il massacro di Srebrenica, compiuto nel 1995 dall’esercito serbo guidato dal generale Ratko Mladić e che si concluse con l’uccisione di oltre 8mila musulmani bosniaci. Politico l’ha definita la decisione più significativa presa da un Alto rappresentante negli ultimi vent’anni.
Il genocidio di Srebrenica è riconosciuto da gran parte della comunità internazionale, tanto che a giugno un tribunale dell’ONU ha confermato in appello l’ergastolo a Mladić per genocidio per via del suo ruolo nella guerra e durante il massacro di Srebrenica. Ma è ancora un tema molto controverso nella Repubblica Serba dove molti lo ritengono un atto di violenza come molti altri avvenuti durante la guerra.
Poco dopo la decisione di Inzko, Dodik annunciò che i funzionari e i rappresentanti della Repubblica Serba non avrebbero più partecipato alle riunioni delle istituzioni federali, compreso il Parlamento. Da allora Dodik ha mantenuto la sua parola e la politica bosniaca si è di fatto paralizzata, dato che per prendere gran parte delle decisioni serve l’assenso dei rappresentanti delle tre componenti etniche, con rarissime eccezioni.
Nelle settimane successive Dodik ha poi minacciato una serie di altre misure come la formazione di un esercito autonomo della Repubblica Serba e il ritiro dei giudici di etnia serba dai tribunali federali, spiegando che avrebbe preso unilateralmente queste decisioni entro la fine di novembre. A ottobre poi la Repubblica Serba ha compiuto altre scelte che hanno aumentato la tensione, come la creazione di un’agenzia sanitaria autonoma dalle istituzioni federali – cosa che sarebbe vietata dalla Costituzione bosniaca – e una grande e minacciosa esercitazione anti-terrorismo della propria forza di polizia nei pressi della capitale Sarajevo.
Republika Srpska police drill at Jahorina, #Bosnia https://t.co/2xrpIBit35
— Mersiha Gadzo (@MersihaGadzo) October 22, 2021
È uno stallo politico e istituzionale che le altre etnie non hanno la facoltà di spezzare, anche per come funziona il sistema istituzionale bosniaco. «A causa dei molteplici livelli delle autorità governative», ha scritto su Haaretz l’analista politico bosniaco Hamza Karcic, «tutti i principali partiti politici che rappresentano i bosniaci musulmani si trovano sia al governo sia all’opposizione a seconda dei vari livelli del governo. L’incertezza su chi abbia davvero la responsabilità complica l’attuazione di una risposta condivisa alla crisi».
«Si tratta praticamente di una secessione non dichiarata», ha scritto il successore di Inzko, Christian Schmidt, in una recente lettera inviata al segretario generale dell’ONU António Guterres. Secondo Schmidt, le azioni e le minacce di Dodik «mettono a rischio non soltanto la pace e la stabilità della Bosnia e della regione, ma se non otterranno una reazione da parte della comunità internazionale potrebbero portare alla disgregazione degli accordi di pace».
L’obiettivo di Dodik è piuttosto chiaro anche perché è lo stesso da anni, cioè da quando da politico moderato e ragionevole divenne un leader ultranazionalista e vicinissimo a Vladimir Putin: la secessione della Repubblica Serba, vera e propria oppure di fatto, in uno stato autonomo appoggiato dalla Serbia e dalla Russia.
Del resto il consenso per la causa nazionalista serba nella Repubblica Serba è altissimo: nel 2016 gli abitanti della Repubblica votarono per rendere il 9 gennaio, la data a cui si fa risalire l’inizio della guerra civile in Bosnia, una festa nazionale. Nonostante il referendum fosse stato osteggiato dai bosniaci musulmani e dai croati cattolici, e dichiarato illegale dalla Corte Costituzionale, il Sì aveva vinto col 99,81 per cento dei voti. Il referendum era stato indetto proprio da Dodik.
Non è la prima volta che Dodik decide di aumentare l’aggressività della sua retorica, tanto che la rivista Balkan Insight si è chiesta se le sue recenti minacce non facciano parte di un’operazione per rafforzare il suo controllo sulla politica della Repubblica Serba.
Ci sono diverse ragioni che spingono a prenderlo sul serio. Su tutte la notevole freddezza che l’Unione Europea ha sviluppato negli ultimi anni nei confronti dei paesi balcanici. Fino a pochi anni fa l’espansione dell’Unione Europea nei Balcani era considerata necessaria per completare l’Unione da un punto di vista sociale e geografico, dato che i Balcani sono considerati tradizionalmente un territorio europeo; e vari osservatori la giudicavano inevitabile.
Oggi però diversi paesi dell’Europa occidentale percepiscono i paesi dell’Est e dei Balcani essenzialmente come un problema: parliamo di stati assai poveri, dove la corruzione è endemica e i diritti delle minoranze e delle donne vengono raramente rispettati, e in cui l’ostilità per gli stranieri che vengono dall’Africa o dal Medio Oriente è la norma. Il processo di adesione dell’Albania e della Macedonia del Nord, i due paesi orientali considerati più vicini ai valori e agli standard europei fra quelli fuori dall’Unione, sta proseguendo fra molte lentezze e scetticismi. Il risultato è che l’Unione Europea ha sempre meno idea di come comportarsi nei confronti di quello che succede al di fuori dei suoi confini orientali.
«Credo che la mancanza di comprensione di quello che sta avvenendo in Bosnia, soprattutto da parte dell’Unione Europea, sia enorme», ha spiegato a Politico Senada Šelo Šabić, analista del think tank croato Institute for Development and International Relations (IRMO): «e sfortunatamente sarà proprio l’Unione Europea a pagare il prezzo più alto per questa mancanza di comprensione e di una reazione tempestiva».
Alcuni osservatori guardano con maggiore fiducia agli Stati Uniti, che storicamente hanno sempre avuto un ruolo piuttosto attivo nei Balcani. Nelle ultime settimane sono stati in visita ufficiale in Bosnia due alti funzionari dell’amministrazione di Joe Biden, l’inviato speciale per i Balcani occidentali Gabriel Escobar e il sottosegretario al Dipartimento di Stato Derek Chollet. Al momento però nemmeno la mediazione statunitense sta portando a risultati concreti.