La COP26 è stata un fallimento?
Molti dei propositi iniziali sono stati disattesi, ma si sono comunque fatti alcuni passi avanti
Tra sabato notte e la giornata di domenica, dopo la chiusura dell’accordo finale della COP26 di Glasgow, il sentimento prevalente tra i negoziatori partecipanti e gli osservatori esterni è stata la delusione. Alok Sharma, il presidente della conferenza, sabato notte si è commosso, ha detto di essere «profondamente frustrato» e che la Cina e l’India, che avevano contribuito all’ultimo a diluire la portata dell’accordo, dovranno «spiegare ai paesi sottoposti al cambiamento climatico perché hanno fatto quello che hanno fatto».
Boris Johnson, il primo ministro del Regno Unito, paese ospite, ha detto che «la gioia per i progressi fatti è tinta di delusione», e anche John Kerry, l’inviato degli Stati Uniti sulle questioni climatiche, si è detto deluso. Un rappresentante dei paesi del Pacifico, i cui stati insulari sono tra i più esposti al cambiamento climatico, ha detto che la COP26 è stata «un fallimento monumentale», anche se altri hanno espresso più ottimismo.
Anche se si prendono in considerazione gli obiettivi della conferenza espressi dagli stessi organizzatori, è facile dire che le attese della COP26 siano state disattese: il primo obiettivo, quello di rinnovare i piani di riduzione delle emissioni dei vari paesi, non è stato raggiunto. Più in generale, l’obiettivo principale della conferenza, che era quello di “tenere vivo l’1,5 °C” (espressione che si è molto diffusa in questi giorni, con cui si indica il tentativo di mantenere viva la possibilità di limitare l’aumento delle temperature globali medie sotto 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali) è difficile da definire raggiunto: i passi avanti per ridurre l’aumento delle temperature globali sono stati relativamente pochi a Glasgow.
Nonostante questo, ci sono state numerose novità positive. Anche se non sono state fatte nuove promesse sulle emissioni quest’anno, i paesi partecipanti saranno costretti a ridiscuterne l’anno prossimo, e questo non era scontato. Inoltre, per la prima volta nella storia degli accordi conclusivi di una conferenza ONU sul clima, sono stati citati i combustibili fossili e la necessità di ridurne l’utilizzo: per quanto possa sembrare strano che non fossero mai stati citati prima, anche questo è un risultato.
La parte più frustrante dell’accordo è stata sicuramente la modifica, decisa all’ultimo, della parte dedicata alla dismissione dei combustibili fossili, in particolare del carbone. La prima bozza di accordo, circolata giorni fa, parlava di «eliminare gradualmente l’uso del carbone e i finanziamenti per i combustibili fossili». La seconda bozza, circolata poco dopo, aveva già ammorbidito l’impegno, ma la versione finale l’ha annacquato di molto: non si parla più di eliminare gradualmente l’uso del carbone, ma di «ridurlo gradualmente».
Questo cambiamento, richiesto dai grossi paesi utilizzatori di carbone come Cina e India, è stato duramente criticato, perché ha ridotto di molto la portata su quello che avrebbe potuto essere uno degli avanzamenti più grandi della COP26. Ora che il compromesso è stato raggiunto, inoltre, sarà piuttosto difficile migliorarlo e modificarlo nelle conferenze dei prossimi anni.
Nonostante questo, si tratta della prima volta che i combustibili fossili sono citati in un documento di chiusura di una COP.
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Un’altra delusione (questa però già chiara ben prima della chiusura della conferenza) riguarda i Nationally Determined Contributions (NDC) per la neutralità carbonica, cioè le promesse dei paesi sulla riduzione delle emissioni per arrivare alla condizione in cui si emettono tanti gas serra quanto se ne rimuovono dall’atmosfera. Alla COP26, nessuno dei grandi paesi produttori di gas serra ha rinnovato o migliorato i propri NDC, a parte l’India. Altri grossi paesi e regioni, come l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Cina, avevano annunciato i loro impegni negli anni passati, e non li hanno aggiornati a Glasgow.
Questo è un serio problema, perché secondo varie analisi le promesse attuali sulla neutralità carbonica se non migliorate rischiano di portare a un aumento delle temperature globali di ben oltre i 2 °C entro la fine del secolo, con conseguenze catastrofiche a livello globale.
Era tuttavia ben chiaro fin dall’inizio della conferenza che a Glasgow non ci sarebbe stata la volontà politica per prendere nuovi impegni sulla riduzione delle emissioni da parte dei grandi paesi. Per questo, è stata adottata la miglior misura di ripiego possibile: nel documento finale si chiede ai paesi di ridiscutere i loro NDC l’anno prossimo, alla COP27 che si terrà in Egitto, e poi al prossimo ancora. Riparlare degli NDC tutti gli anni non è un fatto scontato: secondo gli accordi di Parigi, i paesi sono obbligati a rivedere i propri impegni sulle emissioni soltanto una volta ogni cinque anni. Riparlarne tutti gli anni può essere quanto meno un modo per valutare i progressi fatti.
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Un altro punto chiave della COP26 riguarda gli aiuti economici che i paesi più ricchi devono fornire ai più poveri per aiutarli a ridurre le emissioni e ad affrontare l’impatto del cambiamento climatico. Nel 2009, alla COP di Copenaghen, i paesi ricchi promisero che entro il 2020 avrebbero inviato, tra aiuti pubblici e privati, almeno 100 miliardi di dollari all’anno ai più poveri. Questo non è avvenuto: nel 2019, ultimo anno per cui ci sono dati disponibili, gli aiuti ammontavano a 80 miliardi.
A Glasgow i paesi ricchi hanno rinnovato la promessa fatta oltre 10 anni fa, e stanziato un fondo da 500 miliardi di dollari da versare in 5 anni. Questi soldi dovrebbero andare per metà a progetti di riduzione delle emissioni e per metà a progetti di “adattamento”, cioè di riduzione dell’impatto del cambiamento climatico. Questa era un’importante richiesta dei paesi poveri: buona parte degli aiuti inviati finora sono andati in progetti di riduzione delle emissioni, come per esempio per lo sviluppo di energie rinnovabili. Ma questi progetti di solito non hanno bisogno di grossi aiuti: se fatti correttamente, generano profitto e si finanziano da soli.
Per questo i paesi poveri hanno chiesto di aumentare la quota di fondi destinata a progetti di “adattamento”, che spesso sono a fondo perduto e che i paesi ricchi sono più restii a concedere. Anche in questo caso, i miglioramenti sono solo incrementali: gli stanziamenti erano stati decisi oltre 10 anni fa, e a Glasgow sono stati soltanto confermati, e resi un po’ più equilibrati nelle loro modalità di erogazione.