Cosa si è deciso finora, e cosa no, alla COP26
Oggi è l'ultimo giorno, almeno sulla carta, ma i negoziati potrebbero proseguire anche nel fine settimana: manca l'accordo finale e le posizioni sono ancora distanti
Da calendario, venerdì è l’ultimo giorno della COP26, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite che si è tenuta nelle ultime due settimane a Glasgow. Molto probabilmente, però, i lavori andranno avanti ancora nel fine settimana, come è già successo diverse volte negli anni scorsi: per arrivare a un accordo finale è necessario il consenso unanime degli oltre 200 paesi partecipanti, e le posizioni sono ancora distanti su diversi temi, come gli impegni per la riduzione delle emissioni dei singoli paesi, il divario tra paesi poveri e ricchi e alcune decisioni sulla dismissione dei combustibili fossili.
In generale, nonostante vari passi avanti e alcuni accordi importanti limitati a singoli settori, è ormai sicuro che gli impegni presi a Glasgow per la riduzione dei gas serra non saranno sufficienti per mantenere l’aumento delle temperature globali medie sotto 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali, l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi.
Nonostante questo, se l’accordo finale riuscirà a essere sufficientemente forte potrebbero comunque esserci diversi risultati notevoli, tra cui il primo appello a dismettere completamente i combustibili fossili nella storia dell’ONU e l’obbligo per i paesi di rivedere annualmente i loro impegni per la riduzione dei gas serra, e non ogni cinque anni come avviene adesso.
Questi punti però sono ancora oggetto di una negoziazione piuttosto complessa, e non è detto che saranno presenti nell’accordo finale.
Le questioni da decidere
La questione più importante rimane quella dei Nationally Determined Contributions (NDC) per la neutralità carbonica, cioè le promesse dei paesi per arrivare alla condizione in cui si emettono tanti gas serra quanti se ne rimuovono dall’atmosfera.
Secondo un’analisi diffusa giovedì dall’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), se saranno rispettati i più recenti impegni sulla riduzione delle emissioni e le altre promesse fatte a Glasgow, si riuscirà a limitare l’aumento delle temperature globali a 1,8 °C. Non è una previsione del tutto negativa, perché l’Accordo di Parigi aveva come obiettivo principale mantenere l’aumento sotto i 2 gradi, pur compiendo sforzi per mantenerlo entro 1,5 gradi.
Un’altra analisi diffusa qualche giorno dopo dall’associazione Climate Action Tracker, però, ha mostrato dati molto più pessimistici.
L’associazione ha preso in considerazione esclusivamente gli impegni a breve termine, quelli che saranno attuati nei prossimi dieci anni, che sono più dettagliati e che saranno realizzati con ragionevole certezza. Ha tralasciato invece gli impegni a lungo termine, che sono più aleatori e che potrebbero essere più facilmente trascurati. In questo contesto, le temperature aumenterebbero di 2,4 gradi entro la fine del secolo, ben oltre i limiti che provocherebbero conseguenze catastrofiche sull’ambiente.
Alla COP26, nessuno dei grandi paesi produttori di gas serra ha rinnovato o migliorato i propri NDC, a parte l’India. Altri grossi paesi e regioni, come l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Cina, avevano annunciato i loro impegni negli anni passati, e non li hanno aggiornati a Glasgow.
Una delle principali questioni in discussione in questi ultimi giorni di COP26 riguarda proprio la necessità di aggiornare gli NDC.
Nelle varie bozze del documento finale che sono state rese pubbliche in questi giorni, si propone non soltanto di fare in modo che i paesi rivedano i loro impegni sulle emissioni per il 2030 in modo da renderli compatibili con gli obiettivi di Parigi, ma anche che questi propositi siano rivalutati tutti gli anni, in modo da tenere traccia dei progressi. Secondo l’Accordo di Parigi, gli NDC devono essere rivisti ogni cinque anni, cosa che li rende rapidamente obsoleti.
Altri elementi di discussione riguardano il fatto che per la prima volta nelle bozze del documento finale si parla della necessità di dismettere il carbone e i sussidi pubblici che incentivano l’utilizzo di combustibili fossili, tema molto discusso soprattutto dai paesi che di questi sussidi fanno maggior uso, come i paesi produttori di petrolio del Medio Oriente. La parte sulla dismissione era presente nella prima versione della bozza del documento finale, ma è stata ammorbidita nella seconda: non si parla più di dismettere i sussidi per i combustibili fossili, ma di dismettere i sussidi «inefficienti», e questa potrebbe essere una scappatoia per i paesi che vorranno continuare a finanziare i combustibili fossili.
Altri temi riguardano le compensazioni finanziarie che i paesi più ricchi devono fare ai paesi più poveri per aiutarli nella transizione energetica, e che finora non sono stati sufficienti, e la costituzione di regole precise per il cosiddetto mercato dei crediti di anidride carbonica, in cui le emissioni sono regolamentate da un sistema di permessi e in cui i paesi che mettono in pratica iniziative per la loro riduzione ricevono benefici.
Gli accordi settoriali
Se questi sono i problemi ancora da risolvere, nelle due settimane di negoziati sono stati comunque raggiunti diversi accordi cosiddetti “settoriali”, cioè riguardanti aspetti specifici della lotta al riscaldamento climatico, e stretti non all’unanimità ma tra vari gruppi di paesi.
I leader di 100 paesi hanno raggiunto un grosso accordo contro la deforestazione, in cui promettono di fermare questo fenomeno entro il 2030, e stanziano, tra fondi pubblici e privati, quasi 20 miliardi di dollari per promuovere politiche contro la deforestazione.
Un’altra iniziativa, firmata da 108 paesi, compresi gli Stati Uniti e l’Unione Europea, prevede la promessa di ridurre del 30 per cento le emissioni di metano entro il 2030. Alcuni grossi paesi produttori di metano, come la Cina, l’India e la Russia, sono rimasti tuttavia fuori dall’accordo (anche se la Cina ha detto in seguito che sta valutando di entrarvi).
Una cinquantina di paesi ha inoltre raggiunto un accordo sul carbone, che prevede la dismissione delle centrali a carbone entro il 2030 (per i paesi più ricchi) o per il 2040 (per i paesi più poveri), e un’interruzione immediata alla costruzione di nuove centrali.
Un altro accordo firmato tra 22 paesi prevede che tra il 2035 e il 2040 tutti i nuovi autoveicoli venduti saranno elettrici. Non hanno firmato tuttavia i principali paesi produttori di auto, come Germania, Giappone, Stati Uniti, Cina.
In generale, secondo un’analisi di Climate Action Tracker, questi accordi settoriali avranno una portata soltanto «limitata», sia perché hanno ambizioni relativamente modeste sia perché in molti casi non sono stati firmati dai paesi più importanti. Alcuni firmatari si sono già tirati indietro: la ministra dell’Ambiente dell’Indonesia, paese che ospita la terza foresta pluviale più grande del mondo e che ha firmato l’accordo contro la deforestazione, ha già detto che non lo rispetterà, perché «inappropriato e ingiusto». «Il grande progetto di sviluppo del presidente Jokowi non si può fermare in nome delle emissioni o in nome della deforestazione», ha detto, citando il soprannome del presidente indonesiano Joko Widodo.
Gli accordi politici
Paradossalmente, per molti analisti uno dei risultati più interessanti della COP26 è un accordo che non prevede nessuna limitazione immediata delle emissioni, ma soltanto vaghe promesse.
Si tratta dell’inaspettata dichiarazione congiunta diffusa mercoledì da Stati Uniti e Cina, le due più grandi economie del mondo e i maggiori responsabili di emissioni. I due paesi si erano ignorati e criticati a vicenda per gran parte della conferenza, e il fatto che lavoreranno assieme per «rafforzare e accelerare l’azione e la cooperazione sul clima» è stato visto come un segnale politico notevole e positivo, anche se nessuno dei due ha preso nuovi impegni.
Un altro accordo meno importante ma comunque da tenere d’occhio riguarda l’Alleanza Oltre il Petrolio e il Gas (BOGA), un’associazione di paesi fondata da Danimarca e Costa Rica che si impegna a bloccare i permessi per le esplorazioni e lo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi, con l’obiettivo di eliminare del tutto la produzione di petrolio e gas nei loro territori. L’Alleanza era stata formata a settembre ma è stata rilanciata durante la COP26. I paesi firmatari (tra cui Francia, Irlanda, Svezia; l’Italia non ne fa parte ma si è detta “paese amico”) sono però pochi. Soprattutto, nessuno di loro ha una produzione di idrocarburi di qualche rilievo.