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  • Venerdì 12 novembre 2021

Un uomo che stampa soldi

Come la naturale e discreta eleganza di Roger Federer lo ha reso uno degli sportivi più pagati al mondo, raccontato in un libro di Emanuele Atturo

(Christopher Lee/Getty Images for The Laver Cup)
(Christopher Lee/Getty Images for The Laver Cup)

A 40 anni d’età e a tre anni dall’ultimo torneo del Grande Slam vinto, il tennista Roger Federer è ancora il settimo sportivo più pagato al mondo secondo Forbes: le ragioni non dipendono soltanto dal suo talento unico e dai suoi successi straordinari, ma anche da un’eleganza naturale e non così comune tra gli atleti, da una naturale affinità con gli sponsor più lussuosi, da un approccio discreto e cordiale alle relazioni con il pubblico. Che lo ha portato ad essere l’unico personaggio svizzero la cui faccia è finita su una moneta mentre era in vita. È una parte centrale della figura e della storia di Federer, raccontata dal caporedattore dell’Ultimo Uomo Emanuele Atturo in questo capitolo del suo libro Roger Federer è esistito davvero, pubblicato da 66thand2nd.

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Federer gira per uno studio vestito elegante con una racchetta in mano. Raccoglie una palla da terra e invita qualcuno a mettersi una lattina sulla testa. «Non muoverti, ok?». Carica il servizio, e colpisce la lattina al massimo della velocità. Una trovata pubblicitaria per rendere esplicito il suo rapporto con Guglielmo Tell, l’eroe nazionale svizzero, ribelle degli Asburgo, che ebbe salva la vita dopo aver centrato con una freccia una mela posta sulla testa del figlio. Ma il tiro di Federer è vero o è un trucco di postproduzione? «Un mago non svela mai i suoi trucchi» dice, per poi confessare che era tutto finto dieci anni dopo. Il fatto però che in quel momento una buona parte del pubblico avesse creduto che non c’era trucco, la dice lunga sul tipo di allucinazione collettiva che Federer aveva gettato sui suoi tifosi.

In quegli anni l’immagine di Federer ha assunto una profondità iconica perfetta da mettere in commercio. Ha la dote rara di far riflettere il proprio stile in campo anche fuori. Mentre i trofei si accumulano continua a mantenere un elegante basso profilo. Ogni parola nelle sue interviste è vuota e perfetta, sempre accompagnata da un sorriso e da una gentilezza impeccabili. Non gli interessa dire qualcosa, ma ama girarci attorno come se tutti gli argomenti fossero piacevoli ma senza importanza. Ci si accorge, ascoltando Federer, che non dire niente – o meglio: non dire niente nel modo più delizioso possibile – è un’arte sottovalutata.

Parla tedesco, inglese e francese e quando passa da una lingua all’altra – nota Chris Bowers – muta anche personalità, adeguandosi al contesto con la sapienza comunicativa dei politici e dei princìpi della mondanità descritti da Proust. In inglese è allegro e diplomatico, in francese è compiacente, in svizzero-tedesco è spiritoso e persino, talvolta, caloroso. Non c’è un giornalista che abbia trattato male, nessuna questione che potesse metterlo a disagio. Se una domanda non gli piace, senza fatica, pesca dal suo repertorio di frasi evasive ma ben confezionate. I giornalisti lo descrivono come l’unico atleta realmente interessato a loro. Non lascia solo farsi domande, ma interroga a sua volta: in fondo qual è la strategia migliore per non parlare di sé, se non far parlare gli altri? Sebastián Fest nota che Federer gli ha chiesto da dove veniva e quante lingue parlava, compiacendosi della sua internazionalità. Ha un piccolo vezzo forse studiato: quando incontra le persone le saluta presentandosi – «Hi, I’m Roger» – facendo finta che non lo conoscano. È uno dei dettagli che le persone ricordano con più piacere di lui.

Pare avere le capacità per guidare un paese, oppure una chiesa, e di fatto inizia a farlo, cominciando a far coincidere la sua immagine con quella del tennis stesso. Non sente la pressione degli occhi addosso, gli piace essere guardato e stare al centro dell’attenzione: «Mi piace essere la star, il beniamino del pubblico». Nel 2004 viene premiato come tennista più popolare del circuito e nel 2005 come sportivo dell’anno con il Laureus Award, una statuetta disegnata da Cartier. Pronuncia un motto che è il suo modo di stare al mondo: «It’s nice to be important, but it’s more important to be nice». Nello stesso periodo scioglie il suo contratto con l’agenzia Igm, che cura i diritti d’immagine della maggior parte dei giocatori, solo per tornarci due anni dopo con un contratto ancora più vantaggioso e una visione diversa. Il suo agente all’inizio aveva rifiutato una proposta da seicentomila dollari: troppo pochi per uno come lui. L’intenzione era di puntare a un mercato globale per la sua immagine, ancora troppo legata all’Europa e indietro nel riconoscimento rispetto a icone come Agassi, Roddick o Maria Sharapova. Essendo svizzero, avrebbe dovuto fare qualcosa in più di loro per essere riconosciuto.

Nel 2003, la sua compagna, Mirka Vavrinec, ritiratasi dal tennis un anno prima, gli organizza la vita: gli prenota alberghi, voli, gli organizza le interviste e gli ordina il materiale tecnico. Col tempo inizia a curare anche i suoi interessi di imprenditore, in una relazione che andrà ad assumere tinte sempre più manageriali: lancia RF Cosmetics, inaugurata dal profumo Feel the touch, che vuole richiamare la sensibilità di tocco di Roger in campo.

Nato a Basilea, in una famiglia borghese, Federer è cresciuto col lusso di poter dare per scontati i soldi. A trasformarli in qualcosa di leggero e immateriale. La ricchezza una conseguenza naturale; il benessere più generale, un dato di fatto. È così del resto che ci
immaginiamo la Svizzera, il paese che smaterializza il denaro e in cui la povertà è stata abolita. Nel contesto di uno sport che vuole diventare sempre più globale, e attirare sempre più investimenti, Federer è un pesce nell’acqua. Gli sponsor lo adorano e lui adora loro. È perfettamente a suo agio a interpretare gli ideali di benessere che vengono proiettati sulla sua immagine. Dal 2003 in avanti la sua ricchezza si accumula senza sosta; la crescita va insieme ai suoi successi, ma non si arresta nemmeno di fronte alle sconfitte.

Nel 2020 arriva a raddoppiare il fatturato del 2010, diventando il primo bilionario del mondo del tennis, in un club esclusivo di sportivi che comprende Michael Jordan, Tiger Woods, Floyd Mayweather. È stato l’anno in cui ha guadagnato di più, nonostante non sia sceso in campo: cento milioni vengono solo dagli sponsor, e poco più di sei direttamente dalle gare. Cristiano Ronaldo, per esempio, il secondo sportivo in classifica nel 2020, ha meno della metà dei ricavi da sponsor. Ronaldo è un simbolo universale di successo, ma il successo che esprime è quello raggiunto attraverso il lavoro, il perfezionamento incessante; Federer invece incarna l’ideale impossibile di un successo raggiunto senza sforzo, un’utopia per cui nasciamo già ricchi e dotati, l’emanazione stessa dell’idea di talento naturale a cui le cose riescono facilmente. Più
di Ronaldo, esprime i valori di un capitalismo edonista ma che non si scompone in eccessi, rassicurante nei suoi ideali classici, ma che non rinuncia al lusso. Mentre il mondo infuria nel caos, nelle crisi economiche e ideologiche, nelle lotte identitarie e di classe, Federer è l’immagine della borghesia che si rifugia nei propri valori eterni, o in quelli a cui aspira: posatezza, eleganza, assenza di conflitto.

Mentre negli ultimi anni gli atleti hanno assunto posizioni politiche sempre più divisive, soprattutto negli Stati Uniti, Federer ha mantenuto il basso profilo di chi crede di vivere in un mondo pacificato. Non senza una vena di progressismo, certo, ma tenendosi comunque lontano dai temi più spinosi. Nel 2018 alcuni attivisti sono entrati in una sede di Credit Suisse a Zurigo vestiti da tennisti, chiedendo a Federer di ritirarsi da sponsor dell’istituto finanziario, colpevole di essere dietro alcuni progetti dannosi per l’ecosistema. La protesta è durata all’incirca due anni, durante i quali è nato l’hashtag #WakeupRoger. Federer non ha mai risposto né preso posizione. Solo quando Greta Thunberg ha rilanciato l’hashtag, chiamandolo direttamente in causa, ha dovuto fare un comunicato vago e blando di sostegno ai movimenti ecologisti.

All’impegno politico, che è sempre conflittuale e lo costringerebbe a inimicarsi qualcuno, preferisce la filantropia, che a dire il vero porta avanti con generosità straordinaria. Ha la sua fondazione creata nel 2003 con cui è impegnato in progetti educativi in alcuni paesi africani, soprattutto in Malawi. In un video promozionale lo vediamo visitare le scuole costruite dalla sua fondazione in Malawi, salutare bambini che scrivono «RoDGer Federer» su un foglio di carta che gli appendono al collo, assistere con loro a una lezione sulle forme geometriche sdraiati per terra, servire loro pasti caldi. «È molto importante vederlo qui, in prima persona, non mandare solo soldi ma invece interessarsi dell’impatto che stanno avendo i progetti della sua fondazione in Malawi». Lo vediamo ascoltare, partecipare in disparte con tatto e attenzione. Va in Africa spesso, e non sempre a favore di telecamere. Sembra nato per questo genere di cose e solo con una bella dose di cinismo si possono pensare questi video solo come un’opera di autopromozione, di personal branding. D’altra parte non si può ignorare che la sua immagine filantropica lo abbia reso ancora più appetibile a livello commerciale.

Credit Suisse per esempio cita la filantropia come uno dei valori che hanno reso Roger Federer il loro brand ambassador ideale. Intorno a Federer non spuntano controversie, né gossip. È un padre di famiglia e il rapporto con sua moglie è tanto solido quanto discreto. Citami i tuoi sponsor e ti dirò chi sei, si potrebbe dire a qualsiasi atleta di alto livello. A differenza di Neymar o Ronaldo, Federer non ha dovuto sporcarsi con pubblicità di caramelle, biancheria intima, siti di poker o collutori. Il suo portfolio include quasi solo marchi di mega-lusso, icone eterne del benessere occidentale, come Rolex, Mercedes-Benz e Moët & Chandon; un simbolo di pace domestica come Barilla, un istituto finanziario grigio e facoltoso come Credit Suisse. Federer, come potete immaginare, costa caro. 3,5 milioni da Wilson, 8 da Rolex, 4 da NetJets, 7 da Lindt, 5 da Mercedes, 8 da Barilla, 2,5 da Credit Suisse, 8 da Moët & Chandon. Nel 2018 ha terminato il suo accordo con Nike, firmandone uno con Uniqlo da 30 milioni l’anno per dieci anni. Un brand che ha introdotto nel mondo della fast-fashion un minimalismo immacolato di ispirazione giapponese molto in linea con i tempi. Federer lo indossa come fosse nato in quei completini. Ha dovuto rinunciare ai capi che portavano sopra il suo logo, RF, rimasto a Nike, ma «prima o poi tornerà a me. Sono le mie iniziali, sono mie» ha detto sicuro. Cosa puntualmente successa a dicembre del 2020.

Federer ha raggiunto quell’utopia di controllo per cui riesce a usare i brand
per perfezionare la propria immagine. E d’altra parte per i brand è difficile trovare un ambasciatore migliore di Federer. È sempre in assoluto controllo della sua immagine, prodigioso nello smussare tutte le possibili forzature commerciali. Non è mai a disagio nell’assolvere agli obblighi contrattuali, sembra anzi che gli piaccia. Al termine delle finali, prima della premiazione, seduto al suo angolo, si abbottona la giacca del suo sponsor tecnico e si stringe al polso il suo orologio da cinquantamila euro con l’aria di chi non potrebbe farne a meno. Nel suo autoracconto è più di un elemento decorativo: sul sito della Rolex dice che quando guarda l’orologio gli ricorda la finale di Wimble-
don del 2009, i sacrifici che ha dovuto fare per vincerla.

Prima che tutti si accorgessero che aveva sciolto il suo contratto con Gillette, nel 2015, si è presentato a Cincinnati con la barba incolta; quando gli è stato fatto notare ha ovviamente glissato, dicendo che aveva dimenticato il rasoio in Svizzera. Negli spot pubblicitari è immancabile il suo servizio al rallentatore, con un piano stretto sul suo sguardo che guarda lontano, come a dire: il tennis mi riesce abbastanza facile da poter pensare a cose ben più importanti che voi non potreste nemmeno immaginare. «GQ» lo ha eletto uomo più elegante del decennio 2010-2020. Col tempo, la sua vita quotidiana
ha assunto contorni sempre più remoti e rarefatti. Sembra vivere in un altro pianeta, come i santoni alchemici che Jodorowsky descrive nella Montagna sacra. Nel suo pianeta la sua casa è lontana chilometri da quella delle altre persone, nessuno ha bisogno di lavorare, i soldi crescono sugli alberi, tutti guidano una Mercedes e il Rolex viene dato a tutti come reddito di cittadinanza. Federer si sposta a bordo di un jet privato che vola diversi chilometri più in alto del normale traffico aereo. Simon Kuper, che lo ha intervistato nel 2019, a bordo del suo aereo si sentiva dentro una pubblicità di «Class», la rivista dedicata agli imprenditori che trovate sui tavolini dei commercialisti che fatturano di più.

Sul suo Instagram è sempre circondato da paesaggi così incredibili da sembrare post-prodotti, o dai più illustri personaggi dell’establishment bianca mondiale: Tom Brady, Bill Gates, la regina Elisabetta, Toni Kroos, Benedetto XVI. Quando compare nei palazzetti tra il pubblico, come successo alla Laver Cup del 2021, gli basta un cenno della mano per modificare la temperatura emotiva dello stadio. A gennaio del 2020 la Svizzera conia una moneta d’argento da 20 franchi con sopra la sua faccia. È la prima volta che un simile riconoscimento viene concesso a una persona vivente, e niente certifica meglio il suo rapporto naturale col denaro e la ricchezza che dargli letteralmente la propria forma.

Al Met Gala del 2017 si è presentato con un completo che Gucci gli ha cucito su misura. È stata Anna Wintour, leggendaria editor di «Vogue», a commissionarlo ad Alessandro Michele, direttore creativo della casa di moda toscana. È uno smoking con sulla schiena il disegno glitterato di un cobra: «Davanti business, dietro party» ha commentato con disinvoltura. Non so quanto Federer volesse metaforizzare sé stesso ma ci era riuscito: la sua anima meno controllata rimaneva nascosta, sul retro delle apparenze, appena suggerita. Wintour è una fan sfegatata di Roger Federer, in un’intervista si definisce una sua groupie. Per un periodo se lo è portato dietro al ristorante, alle feste, alle sfilate. Il «Guardian» in un articolo insinua ci sia un’infatuazione. Lo ha più volte immortalato sulla copertina di «Vogue» perché secondo lei incarna lo spirito del magazine: «Classe, eleganza, essere il migliore in quello che fa». Ciò che stupisce anche uno squalo del personal branding come Wintour, è la consapevolezza di Roger della sua posizione nel tennis. Il suo desiderio di rappresentare l’eccellenza: un linguaggio astratto da rivista maschile, forse, eppure Federer sembra incarnare con disinvoltura lo spirito stesso di quel tipo di narrazioni.

C’è stato un momento che più di altri ci ha trasmesso il distacco di Federer dalla vita terrena. A febbraio del 2005 viene invitato a giocare all’hotel da sette stelle Burj al-Arab a Dubai. O meglio: su un’isola del Golfo arabo costruita dall’emiro Al Maktum. Federer
adora Dubai (!), dice di sentirsi sempre benvenuto, possiede una casa che sembra – come tutto a Dubai – una partita di SimCity che ha preso vita. In un documentario a lui dedicato, lo vediamo arrivare in città a bordo di un elicottero mentre dice «non inseguo i soldi». Ci sembra un’ipocrisia, ma in effetti sembrano i soldi a inseguire lui. Il Burj al-Arab si staglia sullo skyline della città come una nave pronta a navigare i cieli. Non ha campi da tennis, ma duecento metri sopra il livello del mare ha un eliporto che per l’occasione viene attrezzato per giocare una partita tra Federer e Agassi. È un incontro che non presenta contenuti tecnici, ma produce l’immagine surreale di due tennisti che scambiano su una piattaforma circolare più vicina al cielo che alla terra, elevati dalla miseria umana. Federer era stato usato come oggetto d’arredamento dei sogni di un megalomane, certo, ma quell’immagine di lui nell’empireo, ad anni di distanza, risulta anche tra le più vere.

© Emanuele Atturo
© 66thand2nd