Non ci si aspetta molto, dalla conferenza di Parigi sulla Libia
Inizia oggi, si parla di elezioni e di ritiro dei mercenari stranieri, ma i molti disaccordi tra le parti potrebbero diventare un problema
Venerdì 12 novembre inizia a Parigi una nuova conferenza internazionale sulla Libia, organizzata dall’ONU, dalla Germania, dall’Italia e dalla Francia. La conferenza, a cui parteciperanno anche il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi e la vicepresidente statunitense Kamala Harris, si inserisce in un lungo e faticoso processo avviato da tempo per stabilizzare la Libia: garantire cioè la sopravvivenza del nuovo assetto istituzionale emerso dopo la fine dei combattimenti tra milizie rivali, assicurarsi lo svolgimento delle prossime elezioni, e concretizzare il ritiro dei mercenari stranieri ancora presenti nel paese, inviati da Russia e Turchia.
Le aspettative non sono altissime, sia per i pochi successi raggiunti dalle conferenze internazionali precedenti, sia per i disaccordi tra fazioni libiche e per le posizioni poco convergenti di molti dei paesi partecipanti.
Anzitutto la buona riuscita della conferenza sembra ostacolata dalle profonde divisioni tra centri di potere libici, dovute a rivalità personali e non, e in generale all’instabilità di un sistema di governo molto giovane.
L’attuale governo ad interim è stato infatti creato solo lo scorso febbraio, con l’obiettivo di guidare il paese alle prossime elezioni presidenziali e parlamentari fissate per il 24 dicembre (tema su cui c’è grande disaccordo in Libia). La sua formazione aveva messo fine all’esistenza di due governi diversi – uno a ovest, con sede a Tripoli, e uno a est, nella regione della Cirenaica – che si erano combattuti per anni in una sanguinosa guerra civile, terminata solo dopo la sconfitta di fatto delle milizie guidate dal maresciallo Khalifa Haftar, alleato del governo orientale. Allo stesso tempo, il nuovo governo non aveva risolto le grandi divisioni presenti nella politica locale, e non solo tra est e ovest.
Nelle ultime settimane queste tensioni sono emerse in diverse circostanze.
La scorsa settimana si sono scontrati per l’ennesima volta il Consiglio presidenziale, formato dal presidente Mohamed al Menfi e da due vicepresidenti, e il governo di unità nazionale, guidato dal primo ministro Abdulhamid Dbeibah (i due organi formano il governo ad interim citato in precedenza).
Dietro a questi scontri c’è anche il fatto che il Consiglio presidenziale contesti al governo di unità nazionale di fare cose che non rientrano nelle sue competenze, come per esempio rappresentare la Libia all’estero (il governo è incaricato soprattutto degli affari interni). Al centro dell’ultima discussione era finita la ministra degli Esteri Najla Mangoush, che peraltro sarà presente alla conferenza di Parigi: Mangoush era stata sospesa dal Consiglio presidenziale perché accusata di sviluppare la politica estera libica senza coordinarsi con il presidente Menfi, ma era stata poi reintegrata nel suo ruolo dal governo di unità nazionale, che l’aveva difesa.
L’attacco del Consiglio presidenziale a Mangoush sarebbe stato finalizzato anche a indebolire la posizione del primo ministro Dbeibah, che secondo alcune indiscrezioni potrebbe candidarsi a presidente alle elezioni di dicembre.
Negli ultimi mesi Dbeibah ha infatti ottenuto buona popolarità grazie all’introduzione di misure definite «populiste», come aiuti economici ai giovani che vogliono sposarsi e ingenti investimenti. Una sua eventuale candidatura sarebbe però una violazione degli impegni presi da lui e dai ministri del suo governo con l’ONU, che prevedevano che i membri del governo di unità nazionale sarebbero rimasti neutrali e non si sarebbero candidati alle elezioni; potrebbe anche provocare ulteriori dissidi con altri importanti politici libici, ugualmente interessati a diventare il prossimo presidente libico.
Pochi giorni fa si sono scontrati anche l’Alto Consiglio di Stato, organo consultivo che ha sede a Tripoli, e la Camera dei rappresentanti, cioè il parlamento libico che ha sede a Tobruk, nell’est del paese.
Il capo dell’Alto Consiglio, Khaled al Mishri, ha invitato la popolazione a boicottare il voto del 24 dicembre, per protestare contro la candidatura a presidente di quelli che lui ha definito «criminali», come il maresciallo Khalifa Haftar (che non è particolarmente amato a Tripoli, città che aveva cercato di conquistare per diversi mesi nel 2019, fallendo). La Camera dei rappresentanti ha invece sottolineato la necessità di tenere regolarmente le elezioni.
Alle difficoltà di convivenza tra politici libici, alla conferenza di Parigi si aggiungeranno divisioni e disaccordi tra i paesi partecipanti, che durante la guerra civile non erano schierati tutti dalla stessa parte; e ci sarà da affrontare il problema di chi ha deciso di non partecipare, in particolare la Turchia.
Tra gli altri, sarà presente il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, che è stato a lungo sostenitore delle milizie guidate dal maresciallo Haftar e che ora vorrebbe ristabilire la sua influenza a Tripoli. La Russia, anch’essa sostenitrice di Haftar, ci sarà, ma non con il presidente Vladimir Putin: parteciperà all’incontro il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov. Non ci sarà per niente invece la Turchia, che nella guerra appoggiava il governo di Tripoli e il cui intervento militare aveva cambiato le sorti del conflitto, di fatto sancendo la sconfitta delle milizie di Haftar. Il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, ha spiegato la sua assenza citando la presenza della Grecia, di Israele e dell’amministrazione greco-cipriota, tutti avversari del suo governo.
L’assenza turca non è una cosa da poco. In Libia sono infatti ancora presenti migliaia di soldati turchi, o miliziani siriani filo-turchi reclutati nel nord della Siria, che erano andati a combattere a fianco del governo di Tripoli. Sono presenti anche i mercenari del gruppo russo Wagner, che invece erano stati mandati dalla Russia per combattere a fianco di Haftar.
Il ritiro dei combattenti stranieri è uno degli obiettivi della conferenza di Parigi, anche perché alcuni politici libici, come il presidente Menfi, hanno espresso la loro contrarietà a che si tengano elezioni prima che la sovranità della Libia venga ripristinata completamente (cioè fino a che non se ne andranno i combattenti stranieri). Sarà comunque difficile raggiungere un qualche tipo di accordo.