«Il dottor Livingstone, suppongo»
150 anni fa, in un villaggio dell'attuale Tanzania, un giornalista in cerca di uno scoop ritrovò il leggendario esploratore che non dava sue notizie da anni
di Gabriele Gargantini
Dopo oltre mille chilometri e alcuni mesi di viaggio, 150 anni fa il giornalista Henry Morton Stanley arrivò a Ujiji, sulla sponda orientale del lago Tanganica, in quella che oggi è la Tanzania. Era stato mandato dal suo giornale di New York in cerca di un grande scoop, il ritrovamento di un leggendario esploratore di cui non si avevano più notizie da anni. Nel villaggio, che aveva raggiunto mettendo insieme varie e frammentarie informazioni, si ritrovò davanti un altro uomo bianco. Con ogni probabilità erano gli unici nel raggio di centinaia di chilometri, ed era piuttosto evidente che aveva trovato il suo uomo, e il suo scoop. Ma nel presentarsi gli disse comunque.
«Doctor Livingstone, I presume»
Presumeva giusto, perché quell’uomo, ormai anziano e acciaccato, era effettivamente David Livingstone, una celebrità del tempo per le sue scoperte nell’Africa centrale nei decenni precedenti. Non ci sono in realtà grandi prove che Stanley abbia pronunciato davvero quelle parole, e c’è anche la possibilità che quell’incontro avvenne qualche giorno prima del 10 novembre. Ma è certo che ebbe luogo, incrociando le mirabolanti e molto ottocentesche vite di due grandi esploratori. Quelle parole – in italiano diventate «Il dottor Livingstone, suppongo» – ebbero grande fortuna, più di ogni altra impresa o scoperta sia dell’uno che dell’altro: da allora sono diventate una di quelle citazioni talmente diffuse che l’origine viene spesso ignorata.
Livingstone era nato a Blantyre, nel mezzo della Scozia, nel 1813. Secondo di sette figli, già a dieci anni fu mandato a lavorare in cotonificio, dove il suo compito era stare sdraiato sotto ai macchinari per unire tra loro i fili di tessuto che si rompevano. Era un ragazzino ed era un lavoraccio, ma quel cotonificio era comunque migliore di altri perché, dopo i suoi lunghi turni, gli permetteva di frequentare una scuola. Il giovane Livingstone si appassionò allo studio, imparò il latino, mise da parte qualche soldo e si iscrisse all’università di Glasgow per studiare medicina.
Intanto, era diventato anche un convinto cristiano, cosa che lo indusse a fare il missionario. La sua idea iniziale era di andare a evangelizzare in Asia, ma la prima delle due guerre dell’oppio, combattuta tra il 1839 e il 1842, gli fece cambiare piani. Partì quindi per l’Africa e nel 1841 arrivò a Città del Capo, nell’odierno Sudafrica.
Tuttavia, come ha raccontato Historic UK, il suo obiettivo non era solo convertire quanti più africani possibile. «Puntava anche a scoprire la sorgente del Nilo Bianco (a quella del più piccolo Nilo Azzurro già ci era arrivato un secolo prima un altro scozzese)». Non trovò mai la sorgente, e pare peraltro sia stato un missionario di scarsissima efficacia. Ma fu comunque un grande esploratore, forse il più grande tra quelli che nell’Ottocento andarono in Africa, e per una bizzarra via traversa fu comunque responsabile della diffusione del cristianesimo in una zona del continente.
Da esploratore Livingstone fece tre grandi viaggi, durante i quali percorse un totale di quasi 50mila chilometri, una distanza superiore alla lunghezza dell’equatore. Fu il primo occidentale a raggiungere quelle che scelse di chiamare Cascate Vittoria in omaggio alla regina britannica di allora. Fu, sempre per quanto ne sappiamo, il primo occidentale ad attraversare l’Africa in orizzontale, dall’odierna Angola fino a quello che oggi è il Mozambico. Attraversò per due volte la regione desertica del Kalahari (la seconda delle quali con la moglie e alcuni bambini piccoli), trovò la sorgente del fiume Congo e, da ottimo cartografo quale era, mappò il corso del fiume Zambesi e fornì svariate informazioni su luoghi di cui l’Europa non sapeva niente.
«Non è esagerato dire» ha scritto Historic UK «che i primissimi astronauti che andarono sulla Luna conoscevano più cose su quel posto di quante non ne sapessero gli esploratori vittoriani sul centro dell’Africa».
In riferimento invece alle attività di proselitismo di Livingstone, qualche anno fa BBC scrisse: «le stime sul numero delle persone che convertì durante i tre decenni passati in Africa variano da uno a nessuno, e la variazione dipende dal fatto che Livingstone stesso rinnegò la persona che aveva convertito giusto qualche mese dopo averla battezzata». Il convertito era Sechele, leader di una tribù in cui Livingstone andò come missionario. Pare che si guadagnò le simpatie di Sechele dopo aver causato involontariamente la morte di un suo rivale, donandogli polvere da sparo, insegnandogli poi a scrivere e convincendolo a convertirsi.
Emersero però due problemi. Il primo era che Livingstone era contrario alla pratica di riti propiziatori per invocare la pioggia, e sembra che quello fosse un periodo di siccità e che proprio Sechele fosse solito guidare quei rituali. Il secondo era che Sechele palesò una certa insofferenza all’idea di rinunciare a quattro delle sue cinque mogli. Livingstone desistette e rinnegò la conversione di Sechele.
Oltre che per le esplorazioni e le mancate conversioni, Livingstone è noto perché – seppur con certe incoerenze e con una mentalità da uomo del suo tempo – era contrario alla schiavitù. Cercava comunicazione e collaborazione con le popolazioni indigene e credeva nella sostituzione della schiavitù con pratiche commerciali meno disumane. Un suo motto, tra l’altro scritto vicino al suo monumento nei pressi delle Cascate Vittoria era: «cristianità, commercio e civilizzazione».
Anche dopo essere diventato famoso e assai richiesto quando gli capitava di tornare nel Regno Unito, Livingstone continuò a viaggiare e nel 1866 partì per una nuova spedizione verso la sorgente del Nilo Bianco. La missione aveva una durata prevista di due anni, ma ne passarono cinque senza sue notizie e molti pensarono fosse morto. In realtà era vivo, anche se malato e debilitato dai viaggi e dall’ennesima malaria. Scriveva pure lettere, che però non arrivavano ai destinatari, o che comunque non le condividevano.
Arrivò invece da lui Stanley, dopo una vita altrettanto movimentata.
Henry Morton Stanley era nato a a Denbigh, nel nord del Galles, nel 1841, l’anno in cui Livingstone partiva per la prima volta per l’Africa. Allora, però, Stanley si chiamava John Rowlands. Ebbe un’infanzia difficile e un’adolescenza non semplice, e a 17 anni trovò lavoro su una nave diretta verso l’America. Una volta arrivato prese piuttosto alla lettera il concetto di “farsi una nuova vita” e sostenne di essere Henry Morton Stanley, il figlio adottivo di un mercante di cotone. Il mercante esisteva davvero, ma non è certo che i due si siano mai incontrati né tantomeno che l’avesse adottato.
L’uomo ormai noto come Henry Morton Stanley finì a combattere nella Guerra di secessione americana, prima con i Confederati e poi con gli unionisti. Dopodiché disertò, fece il marinaio, abbandonò la nave, girò il West e finì a fare il giornalista. Nel 1869 il direttore e fondatore del New York Herald gli disse di “trovare Livingstone”, intuendo la notevole portata di un articolo sul ritrovamento dell’esploratore.
Stanley, che non era mai stato in Africa, si organizzò e partì per il continente, tra l’altro con una prima sosta in Egitto, dove era stato inaugurato il canale di Suez. In una lettera mandata al giornale scrisse: «Se è vivo, sentirete quel che ha da dire. Se è morto, lo troverò e vi porterò le sue ossa».
Dopo un viaggio assai complesso, tra l’ottobre e il novembre 1871 Stanley arrivò, insieme a quel che restava della sua spedizione, nei pressi del lago Tanganica, dove secondo le ultime informazioni che aveva raccolto poteva trovarsi Livingstone.
In effetti c’era, circondato dalle molte persone incuriosite dall’arrivo di un altro bianco. Secondo quanto Stanley avrebbe scritto in seguito, prima per il New York Herald e poi nel libro How I Found Livingstone (che nella versione italiana è Come ritrovai Livingstone in Africa centrale), le prime parole le disse lui. Le pronunciò motivate dall’emozione, dalla deferenza e dall’imbarazzo nel non sapere se abbracciare o meno l’oggetto delle sue ricerche, e furono appunto «Doctor Livingstone, I presume». «Doctor Livingston, suppongo». «Sì, e sono grato di poter essere qui ad accoglierla» rispose Livingstone.
I dubbi sul fatto che quell’incontro avvenne in quel modo, con quelle esatte parole, hanno diverse ragioni. Anzitutto, nel diario di Livingstone non se ne fa menzione. Inoltre è quantomeno sospetto che dal diario di Stanley manchino, forse perché strappate, le pagine su quel momento. Stando agli appunti di Livingstone ci sono inoltre motivi per credere che l’incontro avvenne anche un po’ prima, negli ultimi giorni di ottobre.
Sta di fatto che Stanley trovò Livingstone. I due si fecero compagnia per un po’ e, per quanto lo consentivano le precarie condizioni del secondo, fecero pure qualche giro nei dintorni. Stanley lo invitò a tornare in Europa con lui, ma Livingstone restò lì. Andandosene, Stanley si adoperò perché a Livingstone arrivassero provviste e medicine.
Livingstone morì meno di due anni dopo, a sessant’anni, nel maggio del 1873. Quelli che erano stati i suoi assistenti gli tolsero sangue e viscere, lo coprirono di sale, lo fecero seccare al sole e lo portarono fino a Londra, dove è sepolto a Westminster Abbey.
Stanley tornò, raccolse i frutti del suo grande scoop e descrisse Livingstone con ammirazione e rispetto. «Suo è l’eroismo degli spartani, sua l’inflessibilità dei romani, sua è la perenne risolutezza degli anglosassoni», scrisse.
Nel 1873 tornò in Africa, sempre per conto del New York Herald, come corrispondente di guerra. Dopodiché fu a sua volta esploratore, da un certo punto in poi per conto di Leopoldo II del Belgio, aprendo quindi la strada – non è chiaro quanto volontariamente o quanto invece suo malgrado – alla violenta colonizzazione belga di ampie zone dell’Africa. Gli ultimi anni della sua vita li passò tra Regno Unito, Stati Uniti e Australia, e morì a Londra nel 1904.
Sechele, invece, vide Livingstone per l’ultima volta nel 1852. Lo incontrarono alcuni anni dopo alcuni missionari arrivati nell’odierno Zimbabwe, piuttosto sorpresi nel vedere che molte persone già conoscevano preghiere e riti cristiani. «Sechele li aveva battuti sul tempo», come scrisse BBC. Convinto della sua personale via al cristianesimo aveva infatti continuato a praticare, convincendo sempre più persone, di sempre più tribù, a fare lo stesso. Alla sua morte, nel 1892, aveva un seguito – religioso, ma non solo – di circa 30mila persone.
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