È un gran periodo per chi studia i sogni
Molte ricerche svolte durante la pandemia hanno permesso di ricavare nuovi elementi utili a valutare le teorie che tentano di spiegare perché li facciamo
Uno dei più antichi testi conosciuti sull’interpretazione dei sogni risale a circa 3.100 anni fa: è un catalogo di temi onirici ricorrenti attribuito a Zhou Gong, condottiero e fratello del re cinese Wuwang, fondatore della dinastia Zhou nell’XI secolo a.C. Contiene indicazioni sul significato da attribuire ai sogni, da quelli sul Sole e sulla Luna a quelli in cui sono presenti scarpe, calze e altri oggetti o indumenti. Secondo Zhou Gong, per esempio, il vento che fa sollevare i vestiti in sogno indica una malattia in arrivo.
L’interesse per i sogni è un tratto comune a gran parte delle civiltà e culture della storia dell’umanità, come lo è da secoli il fascino esercitato sulle persone dalla ricerca di presunti significati più profondi nei sogni. È a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, grazie al lavoro di studiosi come il medico francese Alfred Maury, lo psichiatra italiano Sante De Sanctis e la psicologa americana Mary Whiton Calkins – tutti e tre poi ripresi dall’austriaco Sigmund Freud – che i sogni diventarono oggetto di ricerche più rigorose e sistematiche smettendo di essere inquadrati come un fenomeno mistico e scientificamente insondabile.
La scoperta della fase REM da parte del ricercatore americano Eugene Aserinsky, nel 1953, e la progressiva introduzione di strumenti adottati dalle scienze biomediche, come l’elettroencefalografia e la risonanza magnetica funzionale, permisero di approfondire ulteriormente quella che gli scienziati definiscono oggi la “biologia del sogno”.
Negli ultimi tempi, gli eventi eccezionali determinati dalla pandemia hanno fornito a ricercatrici e ricercatori impegnati da anni negli studi sui sogni l’opportunità di raccogliere dati significativi sull’evoluzione dei nostri sogni a fronte dei grandi cambiamenti nella quotidianità di milioni di persone. L’opinione e la speranza largamente condivise tra gli scienziati sono che la cospicua quantità di informazioni ricavate in questo periodo possa servire ad aggiornare e accrescere di nuovi elementi le teorie formulate nel corso dei decenni scorsi per rispondere alla domanda sul perché sogniamo.
Rispetto al «muro che circonda la nostra comprensione dei sogni», ha scritto il New York Times in un lungo articolo sui risultati delle ricerche più recenti, la pandemia ha fornito «non una risposta, ma un altro punto di accesso, un esperimento naturale basato sull’esperienza collettiva». Deirdre Barrett è una docente di psichiatria della Harvard Medical School e caporedattrice della rivista scientifica Dreaming, pubblicata dall’American Psychological Association, la più grande associazione di psicologi negli Stati Uniti. È una delle più conosciute e autorevoli autrici di ricerche sui sogni, e fa parte di un gruppo di scienziate e scienziati che durante la pandemia hanno sviluppato ambiziosi progetti di raccolta dei sogni di migliaia di persone.
L’idea condivisa all’interno di questo gruppo è che, per quanto i sogni di un individuo possano apparire bizzarri e incoerenti, l’osservazione di quelli di molte persone, tutte influenzate dalla stessa esperienza, permetta di individuare degli schemi ricorrenti in un insieme di dati molto esteso. E che da questi schemi sia possibile ricavare dei significati più ampi, illustrativi dei meccanismi complessi che regolano la nostra attività onirica. Un elemento segnalato da quasi tutte le ricerche è la maggiore intensità e vivezza dei sogni delle persone durante la pandemia. Molte persone intervistate hanno inoltre raccontato di fare sogni insolitamente realistici e di averne al mattino un ricordo più chiaro e nitido.
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Nel libro del 2017 Perché dormiamo, il neuroscienziato inglese Matthew Walker, direttore del Center for Human Sleep Science dell’Università della California, Berkeley, utilizza un’iperbole per descrivere le persone che dormono. Afferma che i sogni sono il momento in cui tutti gli esseri umani diventano «palesemente psicotici»: sperimentano allucinazioni, delusioni, disorientamento, labilità emotiva, e alla fine dimenticano tutto o quasi tutto quello che hanno vissuto. «Se uno qualsiasi di questi sintomi comparisse mentre siete svegli, andreste senza esitazioni a chiedere aiuto a uno psicologo», scrive Walker.
Per lungo tempo la ricerca sul sonno – la cui necessità e i cui effetti per le specie viventi sono ampiamente noti e documentati – ha inteso i sogni come una sorta di epifenomeno neurologico, un effetto collaterale dell’attività onirica. Più o meno come «una lampadina a incandescenza progettata per fare luce produce anche calore», scrive il New York Times. Ma negli ultimi decenni una controtendenza negli studi sui sogni, alimentata da maggiori informazioni e conoscenze sempre più estese, ha portato a sviluppare diverse teorie e modelli che inquadrano i sogni come attività con scopi biologici propri.
«I sogni sono un modo di pensare in uno stato cerebrale diverso», sintetizza Barrett, che nel 2020 ha pubblicato un libro, Pandemic Dreams, basato su oltre 15 mila sogni raccolti tramite un sondaggio online. Oltre a un ampio spazio per descrivere i sogni, nel sondaggio erano presenti domande riguardo alle informazioni di base dei partecipanti, come la nazionalità e il tipo di esperienza avuta con la COVID-19.
In un sogno abbastanza comune tra quelli riferiti a Barrett, sostanzialmente simili in tutti i paesi, dei mostri in agguato e seminascosti erano pronti ad attaccare le persone vicine al protagonista del sogno. In un sogno in particolare, un mostro invisibile uccideva persone tra loro a una distanza di due metri. Un’altra immagine ricorrente in molti sogni era quella di un enorme e angosciante sciame di insetti.
Barrett si era a lungo occupata dei sogni delle persone dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre. In uno dei suoi studi di follow-up su persone già coinvolte subito dopo gli attacchi, aveva avuto modo di analizzare i cambiamenti dei sogni con il passare del tempo. I primi soccorritori e i sopravvissuti ebbero per lungo tempo sogni ricorrenti e realistici riguardo al trauma da loro vissuto, ma alcuni introdussero progressivamente nuovi elementi. Tra quelli che avevano a lungo sognato le persone che saltavano giù dagli edifici in fiamme, alcuni cominciarono a sognare quelle stesse persone che atterravano in sicurezza aprendo un ombrello o un paracadute.
Come le persone traumatizzate dagli attacchi terroristici, anche quelle più direttamente coinvolte nel trauma collettivo della pandemia sono risultate quelle con i sogni più angoscianti. Oltre 600 operatori sanitari hanno descritto a Barrett rielaborazioni di una stessa storia. «C’è un paziente in condizioni critiche affidato alle loro cure, qualcosa non funziona e il paziente sta morendo. Si sentono disperatamente responsabili e tuttavia non hanno alcun controllo sulla morte», ha raccontato Barrett.
Diversi studi hanno dimostrato che i sogni delle persone con traumi iniziano spesso riproducendo dettagliatamente l’evento traumatico, ma nel tempo incorporano nuovi elementi e trame che attenuano le emozioni del sogno originale. Nei pazienti con un disturbo da stress post-traumatico (PTSD) invece questo processo sembra interrompersi, e le persone continuano a rivivere lo stesso incubo con poche o nessuna alterazione rispetto al trauma iniziale.
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L’evoluzione della pandemia ha provocato nel tempo un’evoluzione anche dei sogni delle persone, con un progressivo maggiore coinvolgimento degli effetti secondari, come per esempio le restrizioni. Alcune persone sognavano di essere detenute in prigione o abbandonate su un’astronave. Tra quelle isolate con familiari o altre persone in una stessa abitazione per il lockdown, alcune invece sognavano folle che invadevano la loro casa. Più recentemente, alcune persone hanno sognato scenari post-apocalittici, in cui si ritrovavano insieme a piccoli gruppi di sopravvissuti in un mondo stravolto e pericoloso.
Man mano che il loro utilizzo si è diffuso in tutto il mondo, anche le mascherine sono diventate una parte di molti sogni. All’inizio le persone sognavano di dimenticare di indossarla o di indossarla male, e questo provocava una paura profonda di esporre a un pericolo sé stessi e gli altri. Con il passare del tempo, alla reazione di paura è subentrata quella di imbarazzo per quello che nel sogno la gente avrebbe potuto pensare della persona senza mascherina: «Sta iniziando a sostituire il classico sogno della “nudità in pubblico”», ha detto Barrett.
Anche studi diversi da quello di Barrett, condotti in diversi paesi del mondo e non limitati ai sogni sulla pandemia riferiti da partecipanti che si erano autocandidati per quel motivo, hanno rilevato un aumento significativo dei contenuti specifici legati al coronavirus nei sogni di tutte le persone in generale. E le correlazioni tra l’attività onirica e quella nella vita reale delle persone sono a volte risultate talmente evidenti che alcuni ricercatori, scrive il New York Times, hanno cominciato a chiedersi se una certa attenzione mediatica al tema dei sogni durante la pandemia – e in particolare alcuni motivi ricorrenti, come gli sciami di insetti spesso menzionati da Barrett – non stesse instaurando dei cicli di feedback per cui le persone finivano per sognare sogni di cui avevano letto da qualche parte.
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I dati raccolti nell’ultimo anno e mezzo, e la loro interpretazione sulla base di quello che precedentemente pensavamo sulla funzione dei sogni, ha portato a nuove ipotesi e teorie in questo campo.
Una cospicua parte degli scienziati che studiano i sogni concorda nel definire il sonno un’attività essenziale per un gran numero di funzioni diverse, tra cui la capacità di apprendere, memorizzare, compiere scelte e prendere decisioni logiche. «Il sonno ricalibra i nostri circuiti cerebrali dedicati alle emozioni, consentendoci di barcamenarci tra le sfide sociali e psicologiche del giorno successivo con freddezza e tranquillità», scrive Walker in Perché dormiamo.
Insieme a Barrett e ad altre studiose e studiosi, Walker ritiene che sognare offra un insieme di vantaggi specifici, tra cui quello di gestire e rendere più sopportabili i ricordi dolorosi e allo stesso tempo offrire una sorta di «spazio di realtà virtuale in cui il cervello fonde le conoscenze passate e presenti», ispirando azioni creative.
Nella prefazione di un suo influente articolo del 1985, il matematico americano Robert Wayne Thomason spiegò di aver avuto un’illuminazione riguardo al problema di cui si stava occupando dopo aver ricevuto in sogno un suggerimento fondamentale dal suo amico Thomas Trobaugh, citato come coautore dello studio sebbene fosse morto suicida tre mesi prima del sogno di Thomason.
Parlando delle difficoltà avute nel concludere il suo romanzo It, una volta invece lo scrittore americano Stephen King raccontò di aver scritto la fine del libro dopo averla sognata esattamente in quel modo. «Ho sempre utilizzato i sogni nel modo in cui useresti gli specchi per osservare qualcosa che non puoi vedere direttamente», disse King.
In una delle più recenti prospettive di studi, l’attività onirica è spesso intesa come un modo di mettere in pratica nuovi comportamenti o sperimentare nuove realtà, come sostiene il neuroscienziato cognitivo, psicologo e filosofo della mente finlandese Antti Revonsuo. I sogni si sarebbero sviluppati come un meccanismo di difesa evolutivo: offrono la possibilità di provare le nostre risposte di fronte a situazioni e contesti sociali minacciosi.
Altre teorie sviluppate negli ultimi anni, scrive il New York Times, hanno mostrato una certa compatibilità con i dati raccolti durante la pandemia. Lo psicologo e ricercatore britannico Mark Blagrove ritiene che i sogni siano una sorta di riverbero, di prolungamento atrofizzato della modalità di «pensiero errante» in cui trascorriamo gran parte del nostro tempo da svegli. Ma ipotizza che abbiano comunque una funzione evolutiva sociale nella misura in cui promuovono legami ed empatia quando le persone li condividono.
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Lo psicanalista americano di origini austriache Ernest Hartmann, morto nel 2013 e peraltro fondatore della rivista Dreaming, di cui Barrett è oggi caporedattrice, sosteneva che i sogni siano un luogo sicuro in cui elaborare i ricordi, soprattutto quelli traumatici, permettendoci di conservare informazioni senza essere completamente sopraffatti dalle emozioni legate a quei ricordi. Nel 2011, in una serie di studi su gruppi di pazienti depressi che stavano affrontando un divorzio, l’autorevole neuroscienziata e psicologa statunitense Rosalind Cartwright scoprì che le persone che facevano sogni sul fallimento delle loro relazioni erano quelle che in seguito guarivano dalla loro depressione.
«I sogni sono una cura naturale. Funzionano durante il sonno allo stesso modo di un buon psicoterapeuta, mettendo in relazione le cose nuove con i modelli più vecchi di risoluzione dei problemi che ci hanno fatto passare brutti momenti in passato», scrisse Cartwright. E secondo questa teoria, questo funziona a prescindere dal ricordo del sogno, quindi anche nel caso in cui l’esperienza nel sogno venga completamente dimenticata, come spesso avviene.
Diversi studi sulle relazioni tra sogni e apprendimento dimostrano inoltre che le persone sognano spesso le cose nuove che stanno imparando e, tra quelle, in molti sono in grado di svolgere meglio un compito dopo che è apparso loro nei sogni. In un famoso studio della Harvard Medical School e del Massachusetts Mental Health Center di Boston, pubblicato nel 2000 sulla rivista Science, le persone che avevano giocato a Tetris e avevano poi avuto l’opportunità di dormire, riferendo poi di aver fatto sogni sul gioco, avevano migliorato le loro abilità nel gioco.
Nello studio fu incluso anche un gruppo di cinque persone amnesiche, che avevano perso la memoria a breve termine a causa di lesioni cerebrali. I membri di questo gruppo giocavano a Tetris per un certo periodo di tempo, quindi facevano una breve pausa. Quando rientravano nella stanza della console, non ricordavano di aver giocato a Tetris né cosa fosse Tetris, ma nei giorni successivi continuavano a riferire sogni in cui vedevano forme geometriche ruotare e cadere verso il basso.
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Quando le ricerche di Aserinsky, nei primi anni Cinquanta, portarono alla scoperta della fase REM – la fase del sonno associata ai sogni più vividi e narrativi – gli psicologi la definirono “sonno paradossale”, perché l’attività elettrica del cervello in quella fase assomiglia a quella tipica dello stato vigile più di quanto non assomigli all’attività del cervello durante ogni altra fase del sonno. Le scoperte più recenti, scrive il New York Times, hanno permesso di concludere che in fase REM il cervello è sì attivo, ma in una modalità diversa da quella della veglia.
Alcuni neurotrasmettitori come la noradrenalina, un ormone che aumenta nei momenti di stress, vengono soppressi mentre aumentano i livelli di altri neurotrasmettitori come la dopamina, che stimola i centri di piacere del cervello, e l’acetilcolina, che svolge un ruolo molto importante nei processi cognitivi e influenza la memorizzazione delle cose. Le regioni del cervello associate alla stimolazione visiva, al movimento, alla memoria autobiografica e alle emozioni diventano più attive, mentre lo diventano meno le regioni coinvolte nella logica, nei processi decisionali e nel controllo degli impulsi.
In fase REM il cervello mostra inoltre una preferenza per l’astrazione, la novità e le associazioni, in misura maggiore di quanto non avvenga quando siamo svegli. In alcuni studi, le persone svegliate dal sonno mentre si trovano in fase REM e invitate a risolvere giochi di parole lo fanno più velocemente di quanto non riescano a farlo da completamente sveglie, riuscendo a compiere in modo intuitivo e meno “ragionato” associazioni non ovvie tra concetti distanti.